Dedico questo blog a mia madre, meravigliosa farfalla dalle ali scure e dal cuore buio, totalmente priva del senso del volo e dell'orientamento e, per questo, paurosa del cielo aperto. Nevrotica. Elusiva. Inafferrabile.

martedì 12 agosto 2025

Il perseguimento di un caos disciplinato



Scrivo questa pagina del mio diario non solo per tenere a mente i dettagli della storia della storia di Rebecca ma, soprattutto, per ricordare a me stessa che qualcosa nella mia vita dovrò pur portare a compimento.
Se non il mio destino almeno quello di Rebecca.


E' un periodo positivo questo, perché ritrovando Rebecca sto ritrovando me stessa, nonostante le prevedibili difficoltà a riprenderne il racconto iniziato un giorno imprecisato del 2013 (o forse anche prima); capitoli rivisti e ripubblicati a partire dal 20 Luglio 2019; in stand by dal 12 maggio del 2020; e poi ripreso, con l'intenzione di portarlo a termine, il 3 Agosto del 2025. 
Mi sono persa un'infinità di volte, facendomi distrarre da fatti meno potenti e molto più terreni, distogliendomi dalle mie esplorazioni nel mondo della scrittura, viaggiatrice solitaria di un parallelo agli altri sconosciuto, dove il Bianconiglio e Matrix convivono in un faro, rifugio dalle ossessioni del tempo e dalle illusioni dei software. Un parallelo dove Penelope non resta più a guardare il mondo da una finestra.

M'ero cacciata in un vicolo cieco nel capitolo 18 che, nella sua seconda parte ho dovuto riscrivere, non ricordando i motivi per cui avevo intrapreso quel percorso. Ho passato ore a rievocare i motivi per cui Concetto Scalavino avrebbe dovuto far consegnare una lettera a Mimì Messinese già morto. E nello stesso tono, avevo proseguito nel capitolo 20 (in bozze dal 20 Settembre 2024). Un vero rompicapo. Un coacervo da cui non riuscivo a districarmi, ma dove oggi, con le modifiche apportate al capitolo 18, ho ritrovato il bandolo. Spero di proseguire ora spedita, anche perché non ho l'abitudine di prendere appunti, ancor meno di tracciare la trama, ma d'improvvisare al momento. Forse perché nella vita sono una persona molto ordinata, metodica e, ai miei stessi occhi molto prevedibile, ho cercato di radicare la mia scrittura su un caos disciplinato che si fonda sui contrasti degli ossimori, gli eccessi delle iperbole e l'audacia dei paradossi.
 E' sul perseguimento di questo caos disciplinato che si basa la ricerca del mio marchio d'autrice.

Marilena

domenica 3 agosto 2025

My Body My Rules



«Era il 12 Maggio del 2020, cinque anni fa, quando hai scritto l'ultimo capitolo della mia storia. Un racconto mai terminato, nonostante le tue promesse e i buoni propositi.»

La voce alle mie spalle, nella stanza vuota, mi coglie di sorpresa. Mi giro e vedo lei, Rebecca, la protagonista dell' omonimo racconto. Se non fosse per la massa rossa dei suoi capelli non l'avrei riconosciuta, tanto è cresciuta. Non più l'adolescente ribelle ma una giovane, bellissima donna proveniente dal secolo scorso, che però indossa jeans scoloriti, anfibi, e un top verde scuro che le lascia scoperto l'ombelico. 
La  guardo stupita. Senza parole. 

 Sinceramente divertita della mia meraviglia, dice: «ho anche un tatuaggio.»  e mi mostra il polso dove campeggia la frase "my body my rules".

«Sono andata avanti, Mari, anche senza di te, Non potevo più aspettare nella bara di cristallo nel bosco dei romanzi incompiuti, perché non sono la bella addormentata nel bosco, e la mia attesa, fiduciosa all'inizio, è diventata col passare del tempo sempre più simile ad un'oppressione. Così ho rotto quella bara in cui tu mi avevi rinchiuso in attesa non del mio ma del tuo risveglio, e mi sono ripresa la mia vita. E il mio destino. »

Uno scarno ma durissimo j'accuse, questo di Rebecca, pronunciato però senza alcuna rabbia o rancore nei miei confronti. Un modo per mettermi di fronte alla mie responsabilità e alle mie inadempienze umane, prima ancora che letterarie. E alla loro risoluzione da parte sua.

«Hai assolutamente rag...» provo a replicare, ma lei con un gesto deciso della mano, come a spazzar via le mie ormai inutili scuse, aggiunge: «Non sono qui, Mari, a sollecitare un proseguimento della storia che non sono certa tu sia in grado di affrontare ma, piuttosto, a renderti edotta del suo finale. E quello l'ho scritto io.»

Devo avere assunto un'espressione idiota perché lei mi gratifica di un piccolo sorriso divertito. E' consapevole del mio smarrimento ma non ne approfitta per sferrare il knock out decisivo per stendermi al tappeto. Non vuole infierire su quel ring dove io ho già perso in partenza. A lei basta che io ne abbia la consapevolezza.

«Ascolta, Mari, non serve che i tuoi lettori sappiano che la storia non l'hai scritta interamente tu perché... ti è sfuggita di mano... ecco.» 

«Cosa?» Salto su offesa, anche se non ho rilevato nel tono della sua voce nessuno sberleffo. Nessuna derisione.

«I tuoi lettori non devono saperlo e non lo sapranno mai.» Prosegue, ignorando il mio stupido scatto d'orgoglio. «Non importa chi di noi due ha messo il punto all'ultimo capitolo, siamo sempre state comunque in sintonia e il mio finale non può essere poi così tanto diverso da quello che tu avresti forse ideato.»

«Non puoi sapere quello che avevo in serbo per il tuo futuro.» Sospiro afflitta scuotendo il capo.

«Dimentichi che io sono parte di te... anche se non vorrei esserlo più del dovuto.» Ride divertita.

Stavolta la canzonatura c'è, e ne sorrido anch'io. Alzo le mani in segna di resa: «Ok, Rebecca... prendo appunti. Da dove ripartiamo?» 

«Là da dove la storia si è interrotta: capitolo 19»

sabato 2 agosto 2025

Gli inganni siamo noi

I rigagnoli d'acqua piovana, che s'aprono a ventaglio a ridosso dei marciapiedi, deflagrano sotto i pneumatici delle auto in corsa in un opaco crepitio di lava liquida. In lontananza scintillano, sullo sfondo antracite e oro, gli antichi palazzi barocchi, paludati d'ermellino e specchi, della città vecchia, come abbaglianti riflessi di luce nel traslucido crepuscolo autunnale.

Nonostante sia autunno inoltrato l'aria è tiepida e satura di profumi marini (anche se qui non c'è il mare), traslati da un vento clandestino, a bassa intensità, e generosamente disseminati sulla geografica fisica, e quella industriale, della città. Chissà se domani l'alba si rivelerà con una rigogliosa, aliena fioritura di anemoni, coralli e fiori d'acqua, germogliati sugli alberi spogli, fioriti sui bordi slabbrati dei marciapiedi, e nei piccoli orti sterili nelle retrovie degli agglomerati urbani.
Un mondo contemporaneo ed insieme ancestrale, questo che si prospetta al mio sguardo profano, ai miei occhi che cercano tracce di un orizzonte più vasto, ipotizzato oltre le dorsali montane che degradano a valle, gibbose ed esauste, modellate nel corso dei secoli dalle abbondanze, o dalle carestie, degli elementi atmosferici, e dai sommovimenti tellurici. Un paesaggio che si prefigura, in lontananza, con una geometria convessa che ingannevolmente diventa piana lungo le linee rette dei cavi elettrici.
Mistificazioni di false successioni di piani, perché l'esplorazione visiva basa su due diverse realtà: quella fattuale e quella virtuale.

Indecisa sulla direzione da prendere dovrò contare sui miei sensi, fiutare l'aria e auscultare i suoni per non cedere all'inganno dei miraggi, e non rimanere imprigionata nell'alone trasparente e termico di quest'ora sospesa, in cui non c'è più luce ma neppure è ancora buio.
Sullo sfondo di questo chiaroscuro, la rumorosa solitudine della città pianta chiodi nei pensieri, esaspera in negativo le sensazioni, ottunde la memoria, ingarbuglia i ricordi, crea paure e dipendenze.
Perché in quest'ora incerta, da purgatorio, tutto è provvisorio e apparentemente indecifrabile. 

E' in questi momenti che subentra il bisogno di una realtà alternativa, limitata alla visione ottica anziché a quella percettiva. Una realtà facile, basata su una geometria elementare e non disorientante. Un foglio bianco su cui un bambino con una linea retta traccia il bordo dell'orizzonte; con un triangolo delinea i fianchi e le vette delle montagne; con tondi semicerchi consecutivi e orizzontali, disegna le onde dl mare: quei pochi segni bastano a tracciare l'interezza dell'universo 
... perché gli inganni sono esterni a quel foglio bianco.
Gli inganni sono nelle nostre fameliche costruzioni mentali.
Gli inganni siamo noi.

Agosto 2025


 Oggi sono ritornata qui, nel mio blog, il punto da cui sono partita per la grande avventura nel mondo della scrittura: una fatica immensa per risultati modesti, qualche soddisfazione (per altro sempre molto circoscritta) e molte delusioni. Forse, in un impeto di onnipotenza, mi sono sopravvalutata. Voler credere in se stessi non significa, necessariamente, essere quello che si è convinti di essere. Nel mio caso una scrittrice di racconti, e di un libro pubblicato, Chicago Blues, scritto a quattro mani col mio amico Angelo Fabbri. 

Un libro che mi è costato albe precoci e notti da sonnambula, tra la stanchezza della quotidianità e quella della scrittura. Un libro che, senza santi in paradiso, avrà come suo destino il limbo delle opere mai scoperte.

E allora perché continuare?

Sinceramente non lo so, perché non ho più quella rabbia e quell'urgenza di quando ho iniziato a raccontare, e raccontarmi, in questo blog. L'entusiasmo, seppur a volte doloroso e circospetto dell'esordio; la paura dei giudizi di quel mettermi in mostra; l'andare contro la mia matura mansueta da penombra; quel voler essere visibile sul grande palcoscenico della letteratura senza forse averne i requisiti e neppure possedere quella cieca, assurda fiducia nelle mie doti di scrittrice, anche se per un breve momento ho pensato di possederne.

Ma pure oggi, nonostante il tono amaro di questa pagina di diario, sono felice di riprendere a scrivere, fuori da FB e dai social, per il mio pubblico invisibile che immagino, come nel passato, ordinatamente seduto, attento e critico alle mie performance.

Marilena

lunedì 10 marzo 2025

Quando gli opposti si attraggono


 

Non fu magnetismo terrestre
ma l'attrazione fatale
tra un sole corsaro e la notte artica
a generare l'aurora boreale,
concepita nell'estasi di organismi multipli
in un cielo freddo e vuoto di stelle
nel pieno di un caos d'incommensurabile bellezza.

giovedì 9 gennaio 2025

Améthyste


Ho eseguito un  gesto irreparabile, ho stabilito un legame.
(Jorge Luis Borges)


Queste nella foto siamo io e Améthyste a passeggio nel nostro quartiere. 
Non pensate che questa sia un'inquadratura sbagliata, semplicemente non amo essere fotografata ma, dal momento che questo racconto include in qualche modo anche la mia presenza, ho deciso che un dettaglio di me, seppur parziale, dovevo pur darlo.
A ben guardare quest'immagine, niente affatto casuale, esplica molto di noi due, della  stagione e del posto in cui viviamo. Non vi saranno certamente sfuggiti i particolari, impressi in questo scatto in bianco e nero, del marciapiede dissestato, dell'erba incolta abbarbicata al muro, della fredda luce pomeridiana invernale.
Améthyste ed io viviamo in periferia, non importa di quale città, perché le periferie si somigliano un po' tutte, e la descrizione del luogo non aggiungerebbe niente alla nostra storia. E' una periferia rugosa e arruffata, nelle stagioni fredde così come in quelle più calde.
Credo, con questa sintesi, di aver dato il quadro esatto della location.
Altro particolare che accomuna me ed Améthyste, è che abbiamo entrambe una predilezione per il nero: lei per via del suo DNA, io per scelta esistenziale. L'avrei amata qualunque fosse stato il colore della sua pelliccia, ma il fatto che sia nera me la rende ancora più cara. Più vicina.
In realtà, Améthyste, non è completamente nera, perché alla luce il suo manto si rivela cangiante con meravigliose sfumature metalliche, bronzo e blu intenso con pennellate di rosso e di viola. Un arcobaleno notturno che magicamente si palesa alla luce del giorno.

Se avessi avuto una figlia l'avrei chiamata Améthyste. Ma non ho figli perché non ne ho mai sentito imponderabile il desiderio, e non è capitato, neppure per sbaglio.
Doveva essere nel mio destino: fine della storia.
Ed un'Améthyste, nella mia vita, comunque c'è.

Ci siamo incontrate proprio su questa strada. C'era questa micia ferma ad un angolo, come in attesa. D'impulso le ho fatto una carezza. Lei mi ha guardato e non è fuggita via. Dopo quel contatto mi sono staccata a fatica da quel pezzo di marciapiede. Sapevo che non avrei dovuto farlo. Che non avrei dovuto stabilire un legame, neppure momentaneo. Non c'è niente di più oscuro e drammatico della commozione: una melassa dove rischi di rimanere impantanata. E allo scoperto.
Così ho ripreso a camminare a passo svelto, e lei ha iniziato a seguirmi. Qualche passante ci guardava incuriosito. Dovevamo apparire, agli occhi della gente, una coppia strampalata ma anche molto ben assortita, io con le mie sottane nere e lei che di nero aveva il manto: la strega e la sua gatta.
Non mi piace essere guardata. Non mi piace attirare l'attenzione, per questo lavoro come receptionist notturna in un hotel del centro. Chi sta alla reception non ha bisogno di una fisionomia che s'imprima nella memoria, è solo una voce che risponde alle chiamate e una mano che scrive su un registro.
Ma tornando a quel mio incontro con  Améthyste, ricordo di aver percorso un lungo tratto di strada e lei era sempre lì, a pochi centimetri da me, aveva calibrato la sua andatura con la mia e procedeva, senza ripensamenti, sinuosa ed elegante, al mio fianco, con la coda dritta come lo scettro di una regina.
Ovvio che in quel momento non potevo sapere se Améthyste fosse una lei o un lui, anche se il mio istinto, da subito, l'ha presagita femmina, e neppure avrei immaginato che quello fosse l'inizio di un qualcosa. Di un'intesa o, ancor più impensabile, di una convivenza, perché non avevo alcuna intenzione di modificare il mio modus vivendi di animale crepuscolare, con le ore vissute nell'arco temporale che va dal tramonto all'alba, e le brevi pause di un sonno asciutto, senza sogni. Il mio tempo è quello di un orologio le cui lancette girano al contrario, così, senza troppi rimpianti ho imparato, al di là di una facile metafora, a scoprire nei tramonti le albe e nelle stelle gli arcobaleni.

Davanti al portoncino nero fumo della palazzina dove vivo, mi sono fermata sulla soglia. Un momento d'indecisione poi ho girato la chiave nella toppa e affrontato la breve rampa di scale che conduce al mio appartamento al primo piano. Ho finto che fossi sola. Ho aperto la porta e Améthyste, senza nessuna indecisione, è entrata e ha cominciato ad annusare tutti gli angoli e gli spazi delle camere. Poi, soddisfatta, è venuta a strusciarsi contro le mie gambe. Mi ha accettata senza che io le avessi fatto alcuna promessa. Senza nessuna rassicurazione da parte mia e nonostante la mia ritrosia.
Semplicemente si è fidata.

Queste nella foto siamo io e  Améthyste, durante la consueta passeggiata pomeridiana nel nostro quartiere. Tra un po' rientreremo a casa per preparare la cena prima d'iniziare la nostra anomala quotidianità: io diretta al lavoro e lei alle sue scorribande notturne. Ci incammineremo entrambe verso la fermata della metro, io come sempre un po' impacciata nel tailleur nero e leggermente traballante sui tacchi d'ordinanza della mia divisa da receptionist, e sulla spalla una capace tracolla che ospita Améthyste durante il nostro percorso verso il centro, da cui sgattaiolerà fuori appena giunte davanti all'Hotel dove prenderò servizio. C'è sempre, ormai da un po' di tempo, un piccolo gruppo di gatti che l'attende all'angolo dell'elegante palazzo, e con i quali s'avvia nelle sue segrete avventure urbane: battute di caccia e spericolate esplorazioni di quei luoghi inibiti a noi umani.
Dal canto mio, con molta discrezione, dalla mia postazione sempre getto uno sguardo al portoncino smerigliato dell'Hotel per vedere quando si palesa al di là del vetro la sua piccola ombra scura, perché stanca delle sue scorrerie o più semplicemente perché vuole starsene un po' con me. Accucciata sotto il bancone dove sgranocchia crocchini e se ne ha voglia schiaccia un pisolino, al caldo d'inverno, al fresco d'estate, gratificandomi con la morbida carezza del suo respiro che mi sfiora le gambe.
Siamo molto avvedute e nessuno, nell'hotel, si è accorto mai della sua presenza. Ma l'ha notata, invece, la mia dirimpettaia, che ora spesso lascia davanti la porta di casa qualche leccornia felina. Una premura che Améthyste di certo non disdegna, e ricambia la gentilezza con affettuose strusciatine le volte che ci è dato incrociarla sulle scale. La mia vicina esce di rado perché afflitta da una severa patologia alle gambe, e così sono convinta che quegli incontri non siano affatto casuali.
Ultimamente, tra gli estimatori di Améthyste, che per via di queste nostre passeggiate è diventata una celebrità nel quartiere, si è aggiunto anche il proprietario del negozio di libri, che  s'affaccia, e ci saluta, ogni volta che passiamo davanti alla sua libreria. Per lei, sulla soglia del suo negozio, ha posto due ciotoline viola, una  per l'acqua e l'altra per i crocchini, e scritto col pennarello dorato il suo nome. Così la sosta nella libreria è diventata parte integrante del nostro percorso, e una delle abitudini irrinunciabili di Améthyste. E mentre lei si ristora, e non ci sono acquirenti, c'è anche tempo per una breve, cordiale conversazione. Ieri, nonostante il mio evidente imbarazzo, lui mi ha voluto regalare un libro che tratta di psicologia felina. Me lo ha porto con un sorriso, quasi scusandosi: «Si vede che lei ed  Améthyste siete molto affiatate e probabilmente questo manuale non aggiungerà nulla alla sua esperienza, ma mi farebbe comunque piacere se lo accettasse.»

Quel regalo inaspettato conteneva un'interessante miniera d'informazioni di cui nulla sapevo, anche se credo che nessuno, davvero nessuno, potrà mai esplorare completamente, al di là della sua esteriorità, il complesso, enigmatico, meraviglioso mondo felino.
E credo che questo sia un bene.