Dedico questo blog a mia madre, meravigliosa farfalla dalle ali scure e dal cuore buio, totalmente priva del senso del volo e dell'orientamento e, per questo, paurosa del cielo aperto. Nevrotica. Elusiva. Inafferrabile.

mercoledì 16 dicembre 2020

lunedì 30 novembre 2020

Gina Colombo's Restaurant (cap 4)


 Umori

Angie Rose lottò contro la tentazione di scendere nel cortiletto per dare un supporto ad Apache, ma in quello lui era stato irremovibile: «Non avertela a male ma mi saresti d’intralcio.» Così si limitò a vigilare dietro i vetri della finestra con i sensi tesi a captare i rumori esterni, pronta ad accorrere in suo aiuto se il caso lo avesse richiesto.
Prima di salire al suo appartamento s’era comunque sincerata del perdurare dell’assenza di Olimpia Collins, immaginando che sarebbe rimasta a vegliare il marito in ospedale. Ipotesi confermata da Helen Bennet: «Sono stata tutto questo tempo con la porta socchiusa per sentirla rientrare e avere notizie di Bob, ma evidentemente ha deciso di restare con lui al Queens Hospital. Le avevo lasciato in serbo anche una porzione di arrosto per la cena…posso offrirla a te, cara? Non sono brava con l’arrosto ma questa volta mi è venuto davvero buono.»
«Grazie, signora Bennet, ma ho già cenato.» Rispose avviandosi alle scale..
«Hai paura che ti avveleni?» Chiese, offesa, Helen Bennet, dalla tromba delle scale.
Quella domanda strappò una risata ad Angie Rose e un guaito ad Hamlet.

Aveva trascorso la notte insonne, poi al mattino la telefonata di Apache  la tranquillizzò:
«Tutto ok, piccola.» Niente altro Ma avrebbe saputo i particolari la sera stessa, perché raccontarli al telefono sarebbe stato imprudente.
Le dispiaceva che al suo ritorno, Olimpia Collins trovasse violato il suo appartamento, ma era stato necessario per evitarle mali peggiori. Ad ogni modo immaginava che questa disavventura avrebbe posto la vecchia signora al centro dell’attenzione, una volta tanto per un motivo diverso da quello del volume troppo alto della sua radio. E questo, ad Olimpia, non sarebbe dispiaciuto. Ma forse, soppesando attentamente i pro e i contro, non ne avrebbe fatto parola con nessuno. Ed era quello che Angie Rose s'augurava.

Confortata dalla notizia che tutto fosse filato nel verso giusto, si predispose, come d’abitudine, seppure in forte anticipo sull’orario consueto, alla consueta passeggiata mattutina al parco con Hamlet. Non aveva dormito quella notte, ma il cielo terso, che preannunciava una giornata finalmente primaverile, la confortò predisponendola all’ottimismo. Il supporto di una tazza di caffè forte e nero, rinforzato con un’abbondante dose di zucchero, contribuì a cancellare ogni residuo di stanchezza e di ansia.
Rise, quando traendo dal ripostiglio il sacchetto blu contenente guanti, paletta e bustina, il necessaire per le escursioni al parco, Hamlet, al colmo dell’eccitazione, iniziò con la coda a spazzare l’aria e saltarle addosso, per quell’uscita fuori orario.
Al secondo piano, davanti la porta di Olimpia Collins, Angie Rose rallentò l’andatura di Hamlet tirando con dolcezza il collare, e sostò in ascolto sull’uscio. Dall’interno non proveniva alcun rumore, ma dalla porta accanto le parve di percepire lo sguardo assonnato di Helen Bennet, osservarla dallo spioncino. 
Ad ogni modo, fino a quel momento, nessuno dei condomini s’era accorto dell’intrusione notturna di Apache nell’appartamento di Olimpia. 


Uscita dal portone gettò uno sguardo verso il cortiletto, luogo d’azione di Apache, per vedere se fossero rimaste tracce del suo passaggio, ma non ne scorse. Aveva fatto uno splendido lavoro, anche se può sembrare cinico definire “uno splendido lavoro” il furto nell’appartamento di un’anziana signora.
Apache s’era dimostrato all’altezza delle sue passate imprese di stunt man, ma che fosse anche un affascinante complice, questo lo aveva scoperto nelle ore trascorse assieme. Si chiese se si stesse innamorando di lui. Lo aveva apprezzato, all’interno della famiglia allargata del “Gina Colombo’s Restaurant” per la sua forza, la sua sagacia e la sua generosità. Ed anche perché era l’unico che riusciva ad imporsi a Gina, con quel suo modo paziente, saggio ed ironico, davanti al quale le furie appassionate di lei si stemperavano in ruvida arrendevolezza che lui accoglieva con cavalleresca, amorevole gratitudine. Sempre un passo dietro di lei, ma in realtà era lui che la guidava. Angie Rose sapeva che in passato avevano avuto una relazione, ma non conosceva i motivi per cui fosse finita. E se davvero fosse mai finita, perché nel loro modo di guardarsi, di sfiorarsi, di parlarsi, trapelava un’emozione luminosa che sapeva di sentimento.
Si stava innamorando di lui? Continuò ad interrogarsi sulla strada del parco in quell’azzurro mattino di primavera, felicemente confusa e senza sentirsi in colpa nei confronti di Gina. Non le doveva spiegazioni: quello che lei provava per Apache, era solo suo. Non ne avrebbe parlato neppure con lui, ma non avrebbe finto con sé stessa, (le finzioni erano appannaggio dell’attrice non della donna) rinnegando e respingendo quell'emozione come una cosa di cui vergognarsi. Piuttosto, quell’onestà verso sé stessa l’avrebbe messa al riparo dagli inganni psicologici, in cui altrimenti sarebbe incorsa, stabilendo da subito che era solo lei ad essere innamorata: questo l'avrebbe resa consapevole di quel particolare momento della sua vita. Le tornò alla mente la frase del poeta tedesco Friedrich Holderlin “ti amo, ma la cosa non ti riguarda”, trovando in quella la radice dell’amore perfetto, o meglio “del perfetto modo d’amare”. Si sentì in pace col mondo e con sé stessa.
 
Giunti al parco, tolse il collare ad Hamlet che subito era corso via per tornare subito indietro e saltarle gioioso intorno. Lei si chinò a stampargli un grosso bacio sulla testa e il cane la ricambio con amorevoli leccatine sulle mani. Rimasero seduti nell’erba a scambiarsi effusioni umane e canine fino a quando una palla rossa rotolò nella loro direzione, rincorsa da un altro cane lupo che quando vide Hamlet si fermò, per sollecitarlo, con brevi latrati brevi acuti, a partecipare al gioco. Hamlet accettò l’invito e corse verso di lui. Era lo stesso cane col quale aveva giocato il pomeriggio precedente. Entrambi rincorrevano la palla rossa che il padrone dell'altro cane scoccava con una potenza di braccia degna di un lanciatore di baseball, che avanzava nella sua direzione, continuando a rilanciare la palla che i cani, a turno, riportavano indietro. Quando fu a pochi passi la salutò con la mano.
«Simon, dog sitter di Aretha.» Disse presentandosi ed indicando il compagno di giochi di Hamlet, uno splendido lupo dal mantello nero compatto.
«Ah, dunque è una lei.» Disse Angie Rose, carezzando il cane che docile le si era avvicinato. 
«Decisamente!» Esclamò Simon, esibendo un collare fucsia. «E’ il suo colore preferito.»
La ragazza rise alla battuta ed espletò le presentazioni: «Angie Rose e Hamlet.» 
«Posso?» Chiese Simon, sedendosi nell’erba accanto a lei, mentre Aretha ed Hamlet esploravano, con qualche prudenza, l'interno di un cespuglio. Ora le differenze fra i due cani lupo risaltavano più evidenti,   nel colore del pelo, nero compatto quello di Aretha, focato quello di Hamlet, ma anche nelle proporzioni:  leggermente più piccola e slanciata lei, più massiccio e poderoso lui. 
«E' bellissima Ne accudisci altri?» Chiese Angie Ros
«No.  Solo lei. Aretha è il mio cane.»
«Scusa, devo aver frainteso, mi sembrava d’aver capito che fossi il suo dog sitter.»
«Mi qualifico come dog sitter perché detesto i termini “proprietario” e “padrone” riferiti ai nostri amici a quattro zampe. Posso definirmi il proprietario di una macchina, di una casa, di un qualsiasi oggetto, ma non di un altro essere vivente. Non di Aretha.»
Aretha, sentendosi chiamata in causa, era venuta ad accucciarsi vicino a lui, con il muso sulle sue gambe e lo guardava con occhi da innamorata.
«Hai ragione, ma non credo che chi ha un cane lo usi in quel senso. Io, almeno, non l’ho mai inteso così» Obiettò, perplessa.
Da sotto lo zuccotto nero, gli occhi verde bosco di Simon, sorrisero.
«Sono sicuro che tu non l’abbia mai inteso in quel modo, e forse nessuno di quelli che ha un cane, ma a me proprio non mi riesce di dirlo. Dog sitter mi sembra più appropriato, e poi è quello che nella realtà per loro siamo.»
Angie Rose assentì.
«Stabilito che io non faccio il dog sitter per professione ma solo per amore, tu, invece, cosa fai nella vita?»
«La cameriera ai tavoli, in un ristorante di Brooklyn.» Rispose laconica. 
Con i ragazzi che le piacevano evitava di aggiungere al suo scarno curriculum vitae i suoi studi recitazione e la volontà di diventare un’attrice, perché nelle due storie sentimentali più importanti, al momento della rottura s’era rivelata un’arma a doppio taglio, entrambe le volte accusata “di essere stata una brava attrice”. Insomma di aver recitato. Di aver finto.
«Scommetto che avrai buone mance. Di solito i clienti sono generosi con le cameriere carine.»
Lei rise: «E’ un complimento o sei un esattore del fisco in incognito?»
«Sei molto bella.» Rispose lui serio. «Potresti fare l’attrice o la fotomodella.»
«Ci vuole talento, ed io non ne ho.» Tagliò corto Angie Rose, togliendogli così la possibilità di una replica. Perché gli uomini negli approcci andavano sempre a parare in quel campo? «Ed ora devo proprio andare.» Radunò le sue poche cose sparse a terra e chiamò Hamlet.
Simon rilevò dal cambiamento di tono, che da cordiale s'era fatto brusco, che lei s’era messa sulla difensiva, ma chiederle scusa gli sembrava di avvallare un’intenzione con secondi fini che non aveva mai avuto. Si diede dello stupido a non aver avuto più tatto, perché chissà quante volte, rifletté, le era stato rivolto quell’apprezzamento con finalità più esplicite. Ma ormai il pasticcio era fatto e non gli rimaneva, nel salutarla, che darsi un contegno spontaneo per non incrementare dubbi sulle sue reali intenzioni. «Magari ci si rivede. Aretha e Hamlet, a quanto sembra sono diventati inseparabili. Dico bene, Hamlet?»
Al suo interrogativo il cane diede conferma con una serie di ululati che riscossero l’approvazione di Aretha.
«Certo, magari ci si rivede». Rispose lei in tono asciutto, accomiatandosi.


Angie Rose, prima di salire al suo appartamento, aveva chiesto ad Helen Bennet aggiornamenti sui Collins.
«Proprio stamane, Olimpia è tornata per prendere un cambio pulito per Bob. Andava di fretta, come puoi ben immaginare, ma a quanto pare lui ora sta meglio, respira autonomamente e a breve potrà tornare a casa.»
«Una gran bella notizia, signora Bennet.» Disse Angie Rose sollevata per lo stato di salute di Bob ma anche per il fatto che Olimpia non aveva fatto alcun cenno del furto subito: una conferma delle previsioni di Apache.
A casa, nella segreteria telefonica, trovò il messaggio di Christine Logan che l’informava che Andrew Saint Just non s’era ancora risvegliato, ma dalla tac, però, non era stata rilevata nessuna lesione cerebrale.
Richiamò Christine per avere più dettagli sulle condizioni cliniche di Andrew ma anche per discutere con lei dei dubbi sopravvenuti riguardo le testimonianze rilasciate alla polizia.
«Non è stato un incidente ma un'aggressione. Peter lo ha colpito alle spalle. Lo abbiamo visto tutti. Credo che le nostre dichiarazioni vadano riviste.»
«Io ci andrei cauta a rimettere in discussione l'accaduto. Ad insinuare sospetti. Avremmo tutti da perderci. Noi per primi se i motivi alla base della discussione tra Andrew e Peter fossero resi pubblici, con l’inevitabile coinvolgimento di Hayden. I giornali comincerebbero a parlare di bullismo e omofobia in una delle Accademie più prestigiose dello Stato, e magari si spingerebbe per la sua chiusura. »
«Quindi, secondo te, i metodi di Hayden sono etici? »
«No, sono odiosi, ma nessuno è costretto ad accettarli. A sottomettersi. Chi non tollera il suo sistema è libero di andarsene, come ha fatto Jason, ma senza per questo impedire agli altri di restare.»
«Dimentichi che tutto è nato proprio dalle offese omofobe di Hayden verso Jason. E se Andrew non si risvegliasse più? Continueremo a fingere che non sia successo niente?» Chiese, in tono duro, all'amica.
«Andrew si risveglierà! Ad ogni modo lascerei decidere a lui il da farsi.»
«E nel caso decidesse di denunciare, saresti dalla sua parte?» La incalzò, Angie Rose.
«Ti ho detto come la penso. La tua domanda è solo una provocazione.» Christine Logan riagganciò arrabbiata, senza darle il tempo di controbattere.
Angie Rose rimase male, non se lo sarebbe mai aspettato da Christine un atteggiamento simile, ma immaginò che non fosse la sola a pensarla in quel modo. Dal canto suo se Andrew, uscito dal coma, avesse deciso di denunciare, sarebbe stata al suo fianco. Non lo avrebbe lasciato solo.

 

 

domenica 15 novembre 2020

Turchese


E' color turchese, questa alba di Novembre, sfolgorante e lucida nel riflesso d'acqua dei marciapiedi. Polle piovane dove le stelle si rispecchiano opache e le foglie pigramente galleggiano come anemoni recisi dal serto funebre di Ofelia.

Caldo, nonostante il buio e il silenzio.
Caldo, nonostante sia Novembre.

Il turchese cola tra i rami sfoltiti un ingannevole, liquido riverbero marino, che lacca di vivido azzurro i  portoni e i balconi, e la coda pendula di un gatto di sentinella su una gronda.
Turchese, colore dinamico  che mal si coniuga con i battiti rallentati del mio cuore dal tumulto delle tempie sature dell'eco  dei miei pensieri, che solo la fitta, vorace penombra di un'alba gotica riuscirebbe a ridurre al silenzio, piuttosto che lo sfarzo celebrativo di questo cielo marino che sovrasta la città col suo crudo alone salino.
Colate di vitreo azzurro simili a silenziosi, istantanei lampi verticali, dirompono dal lontano orizzonte, colmando di colore, per una frazione di secondo, gli interni bui delle case da cui emergono, come reliquie scampate al naufragio, il contorno di un mobile; la stoffa di un divano; la cromatura di una lampada; il bianco di una porcellana. 
Oggetti di vita quotidiana strappati alla loro oscura, segreta esistenza, ed impietosamente scaraventati alla deriva di questa insidiosa alba anomala, come quelle scarpine apolidi di donna che gli abissi pietosi hanno restituito alle onde, e le onde alla terra, per una più compassionevole sepoltura. 

Ma pure quegli oggetti mi commuovono, provo empatia per essi come fossero cose vive e sofferenti perché strappati alla ordinarietà della loro funzione e nudamente esposti nella precarietà della loro materia. Contenitori sviliti della loro essenza come della loro anima, semplici strutture di supporto al servizio delle nostre esigenze, pronti a disfarcene ai primi sintomi di erosione, logoramento, ingiallimento.
Anime innocenti. Ed indifese.
Continuo a pensare ad essi come detentori di una consapevolezza sia pur temporanea, che a noi umani, invece, sfugge. Nessun coltello penetrerebbe il petto di un uomo se non ci fosse la mano di un assassino ad indirizzarlo. Nessun fucile sputerebbe proiettili se non ci fosse l'ordine di un generale ad imporlo. 
Coltello e fucile se ne starebbero a poltrire, placidi ed innocui, in qualche ripostiglio, senza covare intenti malvagi, piuttosto familiarizzando con gli arnesi del contadino o quelli del falegname, e ancor più mitemente se lo sgabuzzino fosse quello di una massaia.


Ho spesso fantasticato quale oggetto vorrei essere semmai un giorno si verificasse una mia trasmutazione e, senza alcun dubbio, direi la cornice di uno specchio.
Una cornice barocca, eccessiva e trasbordante di geroglifici, ghirigori e volute, un intrico da giungla, al centro del quale come un placido lago immoto si spanderebbe la liscia superficie dello specchio. 
Un pezzo artistico, niente affatto informale e dotato di personalità preponderante. Che s'impone.
Una di quelle opere d'arte che prima ancora del nome dello scultore si visualizza la scultura.

Un oggetto magnetico che cattura lo sguardo e lo intrappola nel suo intrico floreale come in un inestricabile labirinto, mentre il riflesso d'acqua dello specchio devia la prospettiva e smarrisce i sensi.
Un oggetto diabolico ma non crudele. Un'enigma.

Un'enigma, come quest'alba turchese che gocciola sulla città naufraga la sua fredda, aliena incandescenza.

venerdì 30 ottobre 2020

Gina Colombo's Restaurant (cap. 3)

 


 Piani

Olimpia, dalla finestra, aveva visto Angie Rose rientrare, così l'attendeva sull’uscio e, senza darle il tempo di profferire parola, la tirò dentro.
«Devo mostrarti una cosa, ma tu, però, non devi dirlo a nessuno.» Disse cavando fuori dalla credenza della cucina una grossa sacca di cuoio verde.
«Guarda!» Esclamò, mostrandole la montagna di banconote al suo interno.
Angie Rose rimase un momento a fissare stupita quella ricchezza ordinatamente stipata, poi ritrovando la voce, domandò: «Da dove proviene tutto questo denaro?»
«Non lo so. La borsa l’ho trovata stamattina, quando sono uscita a gettare la spazzatura. Era sotterrata in una buca nel cortile, ma  forse non troppo in profondità. La pioggia ha smosso il terreno e un manico ne è fuoriuscito. È stato quello che ha attirato la mia attenzione. Ho scavato un pochino e tirato su senza fatica.» Spiegò eccitata Olimpia.
«Evidentemente chi l’ha nascosta aveva una gran fretta. Magari stava fuggendo. Ad ogni modo questi soldi non puoi tenerli, sicuramente sono il provento di qualche malaffare. Devi consegnarli alla polizia!»
A quelle parole, Olimpia indietreggiò, stringendo la borsa al petto: «Cosa dici? Pensavo mi potessi fidare di te. Che fossi mia amica.» Mormorò incredula, guardandola con sospetto.
«Sono tua amica!» Ribadì con fermezza Angie Rose «Ma questi soldi devi consegnarli alla polizia, perché chi li ha nascosti tornerà a riprenderseli e non trovandoli verrà a cercarli qui, in questo palazzo. Stai mettendo in pericolo la tua vita e quella di tutti noi, Olimpia.»
«Questo denaro è un dono della provvidenza. Potrò usarli per un bel po’ di cose, come il trasporto di Bob per trasferirci da Rose in California o da Margareth in Arizona. E ancora ne avanzerebbero per una casetta e una polizza sanitaria per entrambi. Siamo vecchi, non abbiamo troppe pretese.» Poi, guardandola con aria furba, aggiunse: «Ce ne sarà anche per te, se starai dalla mia parte.»
Angie Rose scosse il capo in segno di diniego: «Non miro ai soldi ma a farti ragionare sulle spiacevoli conseguenze che potrebbero scaturire da questa situazione se non li restituisci. Devi portare la borsa alla polizia e devi farlo subito, prima che quelli vengano a cercarla casa per casa. Vuoi far correre rischi anche a Bob?»
«No.» Sussurrò Olimpia, lasciando cadere la borsa sul tavolo.
Sollevata, Angie Rose disse con dolcezza: «Ti accompagno alla polizia. Salgo su a prendere il mio trolley per trasportare la sacca col denaro, daremo meno nell'occhio, e intanto telefono per un taxi.»
Olimpia fece cenno di si, ma quando la ragazza fu sul pianerottolo, chiuse la porta col chiavistello.
«Stai alla larga dalla mia casa o te ne pentirai.» Minacciò da dietro la porta sbarrata


Angie Rose ed Hamlet quella sera giunsero in ritardo al ristorante, dove Gina, Jean Baptiste, Marta e Apache, erano intenti a cenare tutti insieme, come di consueto, prima dell’apertura del locale. Al suo ingresso Marta andò subito in cucina ad apparecchiare il suo posto con le pietanze tenute in caldo, mentre Hamlet le andava dietro festoso, già pregustando i bocconcini in serbo per lui.
«Eravamo preoccupati di non vederti arrivare, perché di solito sei sempre molto puntuale. Tutto bene?» Domandò Gina, alla quale non era sfuggita l'espressione pensierosa nello sguardo. 
«A dire il vero... non troppo.» Rispose, con un sorriso imbarazzato.
Apache si alzò per versarle un generoso bicchiere di vino rosso: «Butta fuori il rospo, piccola.» La spronò,  incoraggiante.
Lei lo guardò con gratitudine, ma scosse il capo: «Ho promesso di non dir nulla.»
«Ok.» Concordò lui, tornando a sedersi «Ma se avessi bisogno di un consiglio o di un aiuto... noi ci siamo.»
 
«Hai ragione, Angie Rose, la parola data va mantenuta.» Intervenne bruscamente Gina: «Ma se riguarda un problema di cui tu non trovi la soluzione, e di quella soluzione hai invece un disperato bisogno, significa che la faccenda ti tocca personalmente, e rimanendo fedele alla regola del silenzio metti il tuo destino nelle mani dell’altro. Riflettici.» 
Quel discorso, per certi versi duro, basava su una logica rigorosa che portò Angie Rose a considerare sotto una nuova luce l’intera vicenda, perché era vero che quella faccenda la riguardava personalmente, e non era solo il suo destino ad essere nelle mani di Olimpia, ma anche quello di tutti gli altri condomini. Mantenere la promessa l'avrebbe resa sua complice.
Così Angie Rose raccontò la storia della borsa trovata da Olimpia Collins.

«…ho creduto di averla convinta, ma quando sono uscita ha sbarrato la porta con il chiavistello.» Terminò il suo racconto, e poi disse. «Non voglio che le accada nulla di male, ma cosa posso fare? Denunciarla? Non me la sento. Senza di lei, Bob, il marito rimarrebbe solo e  probabilmente finirebbe in un ospizio. Olimpia è una donna perbene ma molto  provata dalla vita, e la vista di tutto quel denaro non la fa ragionare, ma è innegabile che con la sua testardaggine sta mettendo a repentaglio la sua vita e quella di tutti gli altri inquilini.» Concluse angosciata.
«Intanto, finché la faccenda non si risolve puoi venire a stare da me.» Le propose Gina. «Ho una casa grande e spazio in abbondanza anche per Hamlet.» Poi, guardandola negli occhi aggiunse: «Non riuscirei a dormire sapendoti in pericolo quindi prendila come la richiesta di un favore personale.
«Gina ha ragione.» Convenne Marta «Te lo avrei proposto anch’io se a casa mia ci fosse un angolo libero.»
Angie Rose, le sorrise grata.
«Ad ogni modo bisogna trovare una soluzione prima che accada il peggio. Una denuncia anonima?» Suggerì Jean Baptiste «E’ una vecchia signora, di cosa può venire incriminata?»
«Di complicità, ad esempio.» Rispose Gina
«Quei soldi non li ha mica rubati lei!» Ribadì Jean Baptiste
«Ma non li ha neppure restituiti. Appropriazione indebita, anche questo è un reato» Sottolineò Gina
«Angie Rose, però, non intende denunciarla, quindi bisogna trovare un’altra soluzione.» Intervenne Marta, riportando tutti al nocciolo del problema.
«Andrò io a recuperare quella borsa.» Disse Apache, che fino a quel momento era rimasto in silenzio. «Scalare l’appartamento di un secondo piano per me sarà un gioco da ragazzi, cosi come entrare in casa dalla finestra, praticando un foro nel vetro in prossimità della maniglia, con l’ausilio di una ventosa ed un diamante. L'anello di Gina  può benissimo fare al caso...e  poi uno sturalavandino…di sicuro ne avremo in cucina.» Guardò Jean Baptiste che parve non aver afferrato il senso della richiesta e lo fissava con aria smarrita.
«Una ventosa.» Specificò Apache.
«Ventouse! Oui oui, bien sur.» Confermò lo chef, con un largo sorriso.
«Perfetto, abbiamo tutto quello che ci occorre, allora possiamo passare... »
Gina lo interruppe «E se chi ha nascosto la borsa si fosse già messo in azione? Se nel frattempo avesse scoperto che è stata Olimpia Collins ad averla?»
«Gina ha ragione, Apache.» Disse Angie Rose «Non sappiamo cosa è accaduto in questo lasso di tempo, e neppure voglio che tu ti ponga in una situazione di pericolo. Domani troverò argomenti più convincenti per indurla ad andare alla polizia.»
«Domani potrebbe essere tardi.» Ribadì lui in tono deciso «Se davvero ti sta a cuore l’incolumità della tua amica non abbiamo tempo da perdere.»
Angie Rose guardò Gina che assenti: «Chiamerò Lucy per sostituirti ai tavoli.» Si sfilò l’anello col diamante che consegnò ad Apache: «Infrangerei con la mia voce quella finestra se fossi certa di non far rumore.»
«Lo so.» Rispose lui, sfiorandole una mano.
«Anche Hamlet è della partita?» Domandò Marta, indicando il cane accucciato ai suoi piedi che sentendosi chiamato in causa aveva aperto gli occhi «Altrimenti posso badarci io. Mi fermo a dormire qui e domattina, in tutta tranquillità, Angie Rose può venire a riprenderlo.»
«Preferirei venisse con noi, daremo meno nell’occhio. Una coppia che porta a spasso il cane non desta sospetti, e magari all’occorrenza Hamlet può esserci d’aiuto.» Suggerì Apache 
«Certo.» Convenne Angie Rose infilando il collare al cane che alla prospettiva di quell’uscita fuori programma, abbaiava festoso.
Jean Baptiste, nel frattempo, era tornato dalla cucina con uno sturalavandino, esibito come un trofeo, che la ragazza occultò nella sua capace borsa


Raggiunsero il Queens in taxi, ma scesero un isolato prima e proseguirono a piedi per non destare la curiosità degli inquilini, in particolare quella di Olimpia Collins, anche se la presenza di Apache al suo fianco non sarebbe passata inosservata, poiché la sua fisicità s’imponeva allo sguardo. Ma questo avrebbe potuto essere un punto di vantaggio, la prova, qualunque cosa fosse successa, o dovesse succedere, della loro estraneità ai fatti, perché la prima preoccupazione di chi vuole commettere un reato è quello di rendersi irriconoscibile, e per Apache, questo, era davvero difficile. Oltretutto la sua zoppia, che volutamente ora accentuava per quella messinscena, lo avrebbe messo al riparo da qualsiasi sospetto di un suo coinvolgimento nel furto.
Giunti al cancello condominiale, Angie Rose guardò verso la finestra del secondo piano sperando di scorgere l’ombra di Olimpia dietro i vetri: quello sarebbe stato l’indizio che tutto era nella normalità. Ma lei non c’era e la luce era spenta, e questo la precipitò nell’angoscia perché Olimpia aveva l’abitudine di tenere sempre accesa una lampada nella camera di Bob. E la finestra era appunto quella.
«Potrebbe essere uscita dimenticandosi di accendere la luce.» Ipotizzò, Apache, per tranquillizzarla.
Angie Rose respinse con forza questa supposizione «Olimpia non esce mai a quest’ora così come non dimentica mai di accendere la lampada in camera del marito. E questo non fa presagire nulla di buono. Andrò da lei per verificare che sia tutto a posto.»
«Mi sembrava di aver capito che non gradisse più la tua presenza, probabile quindi che neppure ti apra.»
«Riuscirò a farmi aprire.» Disse in tono deciso: « E’ una precauzione necessaria prima che tu t’introduca nel suo appartamento. Io e Hamlet andremo a verificare.» Era lei ora a gestire la situazione.
Apache alzò il pollice in segno di approvazione.

Angie Rose salì di corsa le scale fino al secondo piano insolitamente silenzioso senza l’alto volume della radio di Olimpia. Bussò ripetutamente, ma senza esito. Fu l’inquilina della porta accanto, Helen Baker, a darle la notizia che Olimpia era al  Queens Center Hospital perché Bob aveva avuto una crisi respiratoria.
La ringraziò per quella informazione che almeno, al momento, la rassicurava sulla sorte dei Collins: erano al Queens Hospital un luogo di gran lunga più sicuro della loro casa. Scese a comunicare la notizia ad Apache, ed insieme stabilirono che questo facilitava il loro progetto perché nella casa vuota lui avrebbe agito con minor affanno. Seduti ad una tavola calda ripassarono il piano: Apache sarebbe penetrato dalla finestra della cucina che s’affacciava sul cortiletto interno privo d’illuminazione, avvalendosi del sostegno di un alberello ibrido i cui rami più alti quasi toccavano il davanzale della finestra di Olimpia. Una volta entrato avrebbe preso la sacca di cuoio verde nella prima anta in basso a destra della credenza in cucina, perché era lì che Olimpia l’aveva nascosta. Una volta recuperata la borsa si sarebbe diretto alla stazione dei taxi per far ritorno a Brooklyn, dove abitava. Il giorno dopo, in maniera anonima, avrebbe provveduto a recapitare la sacca coi soldi alla polizia.
Lei insistette per una sua partecipazione più attiva al piano: «Non è giusto che sia tu solo a rischiare per un qualcosa che neppure ti riguarda».
«Ma riguarda te». Ribadì lui, senza incertezze.
La ragazza accennò un sorriso che non riuscì, però, a nascondere la sua preoccupazione. Apache se ne accorse e le strinse forte la mano, poi sottovoce e con aria da cospiratore, cercò di rassicurarla: «Tranquilla non corro alcun pericolo perché il nostro piano è assolutamente perfetto.»
«Quasi perfetto.» Lo corresse lei «perché non abbiamo provveduto ad un paio di guanti per non lasciare impronte.»
«Non ci servono. Olimpia non andrà di certo a denunciare la scomparsa di una borsa piena di soldi che non le appartiene ma nasconde in casa. Penserà che gli autori del furto siano gli stessi malviventi a cui lei l'ha sottratta. Piuttosto mi toccherà creare un po' di scompiglio negli armadi per non farle sospettare che sei tu il mandante: l'unica a sapere dove la sacca è nascosta.»
Uscirono dalla tavola calda che era già buio. Percorsero un tratto di strada affiancati, con Hamlet che teneva il loro stesso passo, quasi avesse compreso la complessità del momento. Qualche metro prima del cancello condominiale si salutarono.
Angie Rose perorò di nuovo, appassionatamente, per un suo coinvolgimento nell'azione, ma Apache fu ancora una volta irremovibile: «Durante la mia carriera di stunt man ho scalato grattacieli e profanato finestre, alcune pure in fiamme, quindi cosa vuoi che sia per me arrampicarmi a quella di un secondo piano?» Concluse in tono scherzoso. Poi, tornato serio, la tranquillizzò un'ultima volta: «Andrà tutto come previsto, perché il nostro piano è assolutamente perfetto.»
Lei fece cenno di si col capo. «Promettimi che se qualcosa non fila nel verso giusto troverai il modo di farmelo sapere. Io e Hamlet saremo due sentinelle in allerta.»
«Promesso, piccola.» La rassicurò Apache allontanandosi nel buio.

 

mercoledì 28 ottobre 2020

My Dreames

 A questo punto della vita cerco conferma ai miei sogni, non più per realizzarli ma per non dimenticarli.



martedì 13 ottobre 2020

Gina Colombo's Restaurant (cap. 2)


 

Universi

Angie Rose ed Hamlet s’erano avventurati al parco nonostante il tempo minacciasse pioggia. Sarebbe stata una passeggiata breve ma indispensabile alle esigenze del cane che quella sera probabilmente, proprio a causa del cattivo tempo, non avrebbe potuto portare con sé.
Era stato un inizio di primavera freddo e piovoso, con pochi colori e senza troppa poesia. Le piogge frequenti avevano infoltito il suolo di erbette e fiori spauriti, che schiaffeggiati dal vento e insultati dall’acqua, sfiniti declinavano le corolle ancora acerbe a marcire in quell’humus vegetale. Hamlet, attratto dalle loro ingannevoli macchie nell’erba, si fermava ad annusarli nel loro ultimo, evanescente profumo, per poi mestamente tornare sui suoi passi, Avevano raggiunto l’area riservata ai cani, Angie Rose lo aveva sciolto dal collare, lasciandolo  libero di correre ed esplorare, mentre lei, seduta su una panchina, si predisponeva a leggere un libro, senza però perdere di vista Hamlet che  ora giocava con altro cane, anche quello un lupo, a rincorrersi e  riportare indietro una palla rossa che qualcuno, dall’altra parte del viale, lanciava. Dei soliti che frequentavano il parco con i loro cani, e con i quali aveva un cordiale scambio di saluti e di battute, a quell’ora non ve n’era nessuno, ma Hamlet aveva comunque trovato un compagno di giochi, e lei l’opportunità di terminare la sua lettura.
S’era alzato un vento leggero che recava stille di pioggia frammiste ad un lieve sentore di fragola, ed era ormai ora di avviarsi verso casa dove avrebbe velocemente pranzato per poi correre alle lezioni di Alfred Hayden. Diede di voce ad Hamlet che, accomiatandosi dal nuovo compagno di giochi, era prontamente corso al suo richiamo.


Lungo le scale propagava un buon odore di cucina e Angie Rose sospirò alla prospettiva del suo pasto preconfezionato, inodore ed insapore. Avrebbe comunque recuperato con la sempre ottima cena al ristorante di Gina, prima dell’orario di apertura, insieme a tutti gli altri dello staff.
Era giunta al pianerottolo del secondo piano quando cui Olimpia Collins, in tuta e bigodini, aprì la porta.
«Ciao Rose (la chiamava solo Rose perché quello era il nome di una delle sue figlie)  hai tempo? Vorrei mostrati una cosa». Con un cenno della mano la invitò ad entrare.
Olimpia Collins aveva sempre un pretesto per farti entrare a casa sua per scambiare due parole. Angie Rose ricordò la prima volta che era stata abbordata dalla vecchia signora con la scusa d’infilarle un ago da cucito.

«I miei occhi non sono più buoni, nonostante questi.» Le aveva sorriso e indicato gli occhiali dalla montatura antiquata
«Forse dovrebbe rifare le lenti» Aveva suggerito, con garbo, Angie Rose.
Con un gesto della mano, Olimpia, aveva scacciato quell’ipotesi e indicando lo spiraglio della porta della camera da letto da cui s’intravedeva un uomo adagiato supino, aveva detto «Ho altre priorità.»
Così aveva conosciuto anche Bob, il marito di lei, affetto da una malattia degenerativa che gli aveva atrofizzato prima i muscoli e poi i sensi. Le loro due figlie, Rose e Margareth, vivevano in altri stati, e la lontananza e il tempo avevano reso sempre più sporadici i loro incontri, che alla fine s’erano ridotti ai solo contatti telefonici. A casa dei Collins la radio era sempre accesa e ad un volume piuttosto alto, e questo era costante motivo di discussione con gli altri inquilini: «Ma perché non la metti in camera di Bob così può ascoltarla ad un volume più basso?» qualcuno le aveva suggerito.
«Bob è completamente sordo, che se ne fa della radio?» Aveva risposto Olimpia: «Sono io che l’ascolto, ma ad un volume più basso non potrei sentirla da una stanza all’altra.»


Era il silenzio, l’assillo di Olimpia. E la solitudine. Per questo stazionava sulla porta per abbordare chi era di passaggio, e ascoltare la radio, ventiquattro ore su ventiquattro, ad un volume elevato.
Angie Rose lo aveva capito e avrebbe voluto fare qualcosa per lei, ma oltre ad accettare un invito per un caffè o scambiare due parole sul pianerottolo, non aveva tempo per altro.
«Scusami, Olimpia, ma oggi vado proprio di fretta.» Cercò di tagliar corto, ma l’altra la trattenne per un braccio: «A qualunque ora rientri, prometti di venire a vedere. E' della massima importanza.»
Angie Rose promise.


Dal Queens, dove lei abitava, raggiunse in metro il quartiere Dumbo, dove in una ex cartiera ristrutturata risiedeva la prestigiosa “Alfred Hayden’s Acting Shool”, e fece il suo ingresso proprio mentre stava andando in scena la parte finale di una furibonda lite tra Alfred Hayden e Jason Taller, uno degli studenti.
E non stavano recitando.
«…ti assicuro, Taller, che non metterai più piede in nessun'altra scuola di recitazione di questo stato.» Hayden scandì la minaccia con rabbia, stringendo i braccioli della sedia a rotelle e sporgendosi col busto in avanti, nel tentativo di mettersi in piedi per sbatterlo lui stesso fuori dall’aula.
Jason accolse quella minaccia con un’alzata di spalle: «Vorrà dire che passerò direttamente al palcoscenico.»  Poi, in tono amaro, aggiunse: «Hayden, nel tuo passato sarai stato anche un grande attore ma nel presente, come uomo, vali meno di zero.» Disse avviandosi alla porta
«Cosa ne sai Taller di come deve essere un uomo?» Lo schernì sarcastico, Hayden
A quella provocazione Jason era tornato indietro col chiaro intento di sferrargli un pugno, ma poi si fermò: «Non mi abbasserò al tuo livello, Hayden.» Lanciò un’occhiata circolare al silenzioso auditorio degli studenti: «Per quanto ancora continuerete a farvi bullizzare da lui?» Domandò tagliente.
Senza attendere risposta, uscì dall’aula.«Visto che non lo sai, Taller, di come deve essere un uomo?» Urlò Hayden. Poi, in tono gelido, congedò i suoi allievi: «Per oggi la lezione è terminata.»
Nessuno di loro obiettò.


Fuori, in gruppo, si stava ancora commentando l’accaduto e Angie Rose chiese spiegazioni sui motivi del litigio.
«Ha tolto a Jasmine Wright la parte di “Anna Christie”, adducendo che lei non era all’altezza di quel ruolo che competeva, invece, ad una prima donna del calibro di Jason Taller.» Spiegò Peter Newton ridendo divertito «Poi ha chiesto chi di noi ragazzi si proponeva per la parte di Mat.» Rise ancora più forte «C’è da dire che Hayden ha un perverso senso dell’umorismo.»
«Peter, sei un povero stronzo!» Christine Logan esclamò con disprezzo, accingendosi a spiegare ad Angie Rose la dinamica dei fatti: «Jason aveva lo smalto alle unghie, è stato quello a mandare Hayden in paranoia, così quando Jasmine ha iniziato a leggere le sue battute lui l’ha interrotta dicendo che non era nel personaggio, che Anna Christie era una prostituta abituata a mentire sulla sua vera identità, per cui quella parte sembrava scritta proprio per Jason Taller, che di certo l’avrebbe meglio, e più di chiunque altro, realisticamente interpretata: “oltretutto, Taller, si è presentato in costume di scena” il riferimento era, appunto, allo smalto alle mani»
«Non c'è niente di divertente» S’intromise Andrew Saint Just vibrante di rabbia: « Hayden è un maledetto figlio di puttana»
«Ammettilo, vorresti anche tu smaltarti le unghie ma non ne hai il coraggio.» Lo schernì Peter Newton.
A quella provocazione Andrew gli si avventò contro gettandolo a terra. «Non vali i miei pugni e neppure il mio disprezzo.» Disse, voltandosi per andar via. Ma Peter si rialzò, lo afferrò per le spalle e con una violentissima spinta lo mandò a sbattere contro un muro. Andrew cadde al suolo privo di sensi.
«E’ stato lui ad iniziare. Lui mi ha mandato a terra. Lo avete visto tutti. Io mi sono solo difeso.» Peter Newton, smarrito, cercava conferma tra quelli che avevano assistito alla scena.
Nel frattempo era stata chiamata un’ambulanza e avvertita la famiglia di Andrew.
Alfred Hayden, messo al corrente dell’accaduto, uscì sul piazzale ammonendo gli studenti ad essere accorti nell’uso delle parole con i poliziotti e con i giornalisti, che di sicuro la stampa si sarebbe interessata alla vicenda, e una pubblicità negativa non avrebbe giovato a nessuno: «Quello che è accaduto è un deprecabile incidente senza intenzione di dolo, e come tale va trattato.» 
L’autoambulanza e la polizia erano giunte a sirene spiegate nello stesso momento. Andrew venne caricato sulla prima e Peter Newton sulla seconda, mentre venivano prese le generalità e raccolte le testimonianze di quelli che avevano assistito all'accaduto: tutti concordarono sulla versione dell’incidente.
Immobile, dietro i vetri della finestra del suo ufficio, Alfred Hayden aveva assistito a tutta la scena.

 Era pomeriggio inoltrato quando Angie Rose fece ritorno al suo appartamento. Imbruniva, ma le nubi s’erano diradate allontanando la minaccia di pioggia, e avrebbe potuto portare con sé Hamlet. Questo la rasserenò, distogliendola per un momento dal malessere per quanto accaduto accaduto, quel pomeriggio, alla “Alfred Hayden’s Acting Shool”. Il dubbio di aver troppo frettolosamente avvallato come incidente la vigliacca aggressione di Peter Newton ai danni di Andrew Saint Just la tormentava.  Era vero che Andrew era stato il primo a menar le mani, ma la reazione insensata di Peter, che lo aveva assalito alle spalle non giustificava la legittima difesa. Posta in questi termini la faccenda non poteva essere etichettata come "incidente". Forse avrebbe dovuto rivedere la sua testimonianza. Ne avrebbe parlato con Christine Logan.

Salendo le scale, diretta al suo appartamento, si ricordò della promessa fatta ad Olimpia Collins, ma in quel lungo pomeriggio erano saltati tutti gli orari e aveva appena il tempo di una doccia e di un cambio d’abiti, e poi di nuovo in metro alla volta di Brooklyn, per il suo turno di lavoro al ristorante, già valutando l'ipotesi, se fosse stata troppo stanca per il viaggio di ritorno, di fermarsi a dormire nella stanzetta adiacente alla cucina. In origine un piccolo vano ristrutturato per offrire una stanza ad Apache, e usato poi per le situazioni d’emergenza. Angie Rose aveva pensato più volte di trovarsi un appartamento nelle vicinanze del ristorante, ma gli affitti nella zona erano troppo alti in aggiunta alle spese per la scuola di recitazione, e il suo stipendio di cameriera, nonostante i generosi arrotondamenti di Gina, non sarebbe bastato per tutto. Avrebbe potuto cercarsi un lavoro più vicino al quartiere dove lei ora abitava, ma da nessun’altra parte avrebbe trovato il calore e l’empatia del “Gina Colombo’s Restaurant”. Gina, Marta, Apache e Jean Baptiste erano come una famiglia: si comprendevano e si sostenevano. Questioni gravi, fra loro, non c’erano mai state, almeno da quando lei vi lavorava: era tutto alla luce del giorno. I mugugni non avevano ragione di sostare nelle profondità delle viscere, quando portati in superficie trovavano una voce, uno sfogo e quasi sempre una soluzione.
Comparò il mondo luminoso e caldo di Gina Colombo a quello buio e freddo di Alfred Hayden: due universi asimetrici e incompatibili, distanti fra loro anni luce.
E lei vi sostava nel mezzo.

mercoledì 30 settembre 2020

“Gina Colombo's Restaurant” (cap.1)

 


Famiglie

Angie Rose era andata a vivere in quel condominio abitato da vedove e pensionati, perché la zona era tranquilla, l’affitto buono e le era permesso di tenere Hamlet, il suo cane lupo. Così s’erano installati nel piccolo appartamento all’ultimo piano, senza ascensore, con vista su un cortiletto interno buio d’inverno così come d’estate. Ma questo non era un cruccio per lei che di tempo per guardare il paesaggio ne aveva poco, e comunque avrebbe colmato l’assenza di luce e di sole con le passeggiate quotidiane al parco per sopperire alle necessità di Hamlet.
Angie Rose si rammaricava solo di non poter offrire al suo cane uno spazio più ampio (avevano sempre abitato appartamenti molto piccoli) magari con un giardinetto, e più tempo per le uscite al parco. Ma Hamlet s’era sempre adattato a quelle carenze senza mai mostrare insofferenza: era un cane molto collaborativo e di questo gliene era grata. Lui era tutta la sua famiglia, ovvero quella che lei si era scelta. L’altra sua famiglia, invece, era quella del “Gina Colombo’s Restaurant” a Brooklyn, dove lei svolgeva la mansione di cameriera. Gina Colombo, la proprietaria, una gigantessa barocca dai capelli corvini e dagli occhi di smeraldo, americana di origini genovesi, s’era conquistata la notorietà non solo per la bontà della sua cucina ma per la sua voce prodigiosa che propagava, come un’eco smerigliata, dal retro della cucina e culminava nel prodigio della frantumazione dei bicchieri e dei cristalli. Allora scattava la standing ovation di quelli seduti ai tavoli e di quelli fuori la porta, inchiodati sul marciapiede dalla gagliardia dei suoi assoli. Perfino ad Hollywood s’erano interessati a lei, ma lei aveva liquidato la faccenda con un sarcastico: non sono un fenomeno da baraccone!
A Broadway, invece, mirava Angie Rose, motivo per cui risparmiava sui metri quadrati delle sue abitazioni e investiva il suo stipendio nella prestigiosa, e costosissima, scuola di recitazione di Alfred Hayden, un tempo enfant prodige del teatro, la cui carriera era stata stroncata da un incidente stradale che lo aveva inchiodato su una sedia a rotelle, che aveva reso il suo carattere, di natura altezzoso, ancor più intollerante ed aspro. Ma pure i giovani aspiranti attori si sottomettevano alle umiliazioni delle sue sfuriate, perché in assoluto era ancora il più bravo, il più talentuoso attore di teatro che avesse mai calcato un palcoscenico. Avere accesso ai suoi corsi era già di per sé un attestato di merito, perché la selezione era severissima ed intransigente.
Per la sua innata predisposizione alla recitazione, anche Angie Rose era entrata nell'elite della "Alfred Hayden Acting School" 

Quel tardo pomeriggio, come di consueto, Angie Rose si diresse in metro al ristorante di Gina, in compagnia di Hamlet, al quale era permesso di attendere la fine del turno di lavoro, nel cortile sul retro della cucina, dove era stata per lui predisposta una comoda cuccia. Ma in caso di freddo eccessivo o pioggia, preferiva lasciarlo a casa, al caldo e al coperto.
Hamlet era la mascotte della piccola famiglia del “Gina Colombo’s Restaurant” che tra i suoi membri annoverava Apache, il  braccio destro della proprietaria, Jean Baptiste Cassel lo chef“ e Marta Oropeza l’aiuto chef.  Loro erano il nucleo fisso intorno al quale ruotavano figure di supporto, come un gruppetto di camerieri volanti e un paio di cuochi freelance, da chiamare in caso si necessitasse di  un aiuto aggiuntivo o di una sostituzione.
 Uno staff molto unito, soprattutto nei momenti più difficili, come quando il celebre critico culinario, Jordan Baker, con un articolo al vetriolo, così descrisse il locale: “Al “Colombo’s Restaurant” non si va per mangiare, perché la cucina sinceramente è scadente: i piatti sono commestibili ma alquanto indecifrabili, per cui non conviene indagare sul loro contenuto, che per altro neppure è interamente riportato sulla lista del menù. E non ci si va neppure per bere, visto che spesso i bicchieri finiscono in frantumi, demoliti dalla potenza vocale della proprietaria. Il "Colombo's Restaurant"  deve il suo successo unicamente a questo curioso spettacolino messo in scena per attirare i clienti che altrimenti diserterebbero il locale.” 
Quell’articolo aveva mandato su tutte le furie Gina che non ebbe timore di andare a casa di Jordan Baker e ridurgli in pezzi vetri e cristallerie, non con la potenza della sua voce ma con una mazza da baseball.
Respinse le dimissioni di Jean Baptiste, mortificato per il mancato apprezzamento della sua cucina,  deciso a tornarsene in Francia dove era certo avrebbe ricevuto più degni riconoscimenti.
«Non dovrai temere la mia concorrenza, Gina, ci sono troppi chilometri di distanza fra New York e Parigi» Poi, con un sospiro, aggiunse: «E comunque a te non farei mai concorrenza».
Lei lo rassicurò: «Se abbiamo il locale pieno tutte le sere, Jean Baptiste, è per merito della tua cucina. Nessuno è così stupido da spendere i propri soldi per procurarsi un’indigestione, motivo per cui tu rimarrai qui a fare la concorrenza a tutti gli altri ristoranti di Brooklyn».
La querelle tra Gina Colombo e Jordan Baker si spostò dalle colonne dei giornali all’aula di un tribunale dove prevalse la tesi di lei “nessuno è così stupido da spendere i propri soldi per procurarsi un’indigestione”. E a testimoniare in suo favore si proposero molti dei suoi clienti. Jordan Baker venne condannato al pagamento di un'ingente cifra, in risarcimento per i danni arrecati da quella sua pubblicità negativa, tesa al dileggio.
«La signora Colombo è una potenziale avvelenatrice». Tuonò il critico culinario, alla lettura della sentenza.
«Ma a quanto pare, signor Baker, il giudice non è dello stesso parere, visto che é vivo e vegeto e cliente abituale del mio ristorante». Fu l’ironica risposta di lei.
Il risarcimento fu diviso da Gina tra i suoi collaboratori, con una piccola maggiorazione per Jean Baptiste, ferito nell’orgoglio.
«In famiglia si divide ogni cosa. E noi siamo una famiglia!» Fu questa la sua motivazione per quel premio extra.
Ed era vero che considerava i suoi collaboratori la sua famiglia. Rimasta vedova ancora giovane e senza figli, non s’era più risposata, nonostante le innumerevoli richieste e i tanti corteggiatori, s’era goduta in piena libertà il ricco lascito del marito, un alto dirigente della Citibank. Tolti gli sfizi e le curiosità, s’era ripresa il proprio cognome e lanciata nell’imprenditoria, aprendo quel ristorante a Brooklyn. Della sua famiglia d’origine, una delle più facoltose e in vista della città, non ne parlava mai, e nessun suo parente era mai venuto a farle visita al ristorante.

Jean Baptiste era stato il secondo, dopo Apache, ad essere ingaggiato stabilmente da Gina. 
Reduce del naufragio del mercantile che lo aveva condotto a New York, (dove s’era pagato il viaggio svolgendo mansioni di aiuto cuoco) e a quello ancor più devastante della sua vita a Parigi, (una storia d'amore finita male, era il motivo per cui s'era imbarcato) era approdato a Brooklyn, determinato a spuntarla sul destino malevolo, ed era capitato sul marciapiede del Colombo’s Restaurant proprio il giorno che lo chef s’era licenziato per passare alla concorrenza, portandosi via anche l’aiuto cuoco. Attirato dalle voci provenienti dal retro della cucina, s'era affacciato giusto in tempo per vedere quello darsela a gambe sotto la minaccia di un coltellaccio brandito da una gigantessa vestita di azzurro e rilucente di ori: una Liz Taylor dagli occhi verdi e in versione macro.
«Jean Baptiste Cassel; di professione chef, e per voi l’uomo della provvidenza». Si presentò con grande savoir fair e molta faccia tosta. Sorridente, senza però mai perdere di vista il coltello di cui lei armata, e pronto alla fuga se avesse dato segni di nervosismo.
Ma alla vista di quel giovane mingherlino, con due grandi occhi scuri e le orecchie a sventola, lei era scoppiata a ridere: «Davvero sei un cuoco? E cosa cucini, le pappe per i neonati?»
«Ho molti più anni di quelli che dimostro, Madame» Aveva risposto compunto Jean Baptiste.
«E sei anche l’uomo della provvidenza, eh?»
«Oui, madame» Asserì, senza  nessuna ironia
« E forse è vero, visto che non ho alternative. Seguimi, che ti mostro la cucina» Disse Gina, di natura scaramantica, incline ad interpretare quella situazione come un segno del destino.

Se l’incontro con Jean Baptiste era stato casuale, quello con Marta Oropeza, fu  da lei stessa programmato. Gina vedeva tutti i giorni la giovane messicana giungere con un carretto carico di cibarie e posizionarsi sul marciapiede opposto a quello del suo ristorante, vicino la fermata dei bus. In ogni stagione, e con qualsiasi tempo, lei era sempre a quella sua postazione a cielo aperto. Impossibile non notarla con quelle sue bluse dai colori sgargianti che nelle giornate grigie risaltavano come spruzzi di arcobaleno. Per Gina era diventata un’abitudine vederla col suo carretto sul marciapiede di fronte, così quando per un certo periodo la giovane disertò il suo posto, lei s’interrogò sui possibili motivi. Non era banale curiosità la sua, ma davvero avrebbe voluto sapere cosa le era accaduto, rimproverandosi di non aver mai tentato un approccio più diretto, limitando i contatti all'acquisto di qualche sua prelibatezza. Ma poi riapparve al suo solito angolo e quel giorno, complice una pioggia torrenziale ed improvvisa, Gina afferrò due ombrelli e la raggiunse per offrirle un riparo nel suo ristorante. Scoprì che Marta era la terza dei sei figli di una famiglia numerosa e che quella piccola attività abusiva era per incrementare il bilancio famigliare. La sua assenza era dipesa dal fatto che i due fratelli più piccoli, gemelli, avevano contratto entrambi l’influenza e dal momento che né il padre e neppure le due sorelle più grandi potevano permettersi assenze dal lavoro, era toccato a lei accudirli, perché la mamma, malata di cancro, per evitare contagi, s’era trasferita da una zia.
Marta raccontò la sua storia senza acredine e senza lamenti, e questo la colpì molto, così le propose di lavorare nel ristorante, come aiuto cuoca: «Avrai uno stipendio garantito e non dovrai stare tutto il giorno, e con qualsiasi tempo, per strada. Ma se non ti dovessi trovar bene potrai sempre riprendere la tua attività». Le propose Gina nel suo modo schietto.
Marta accettò grata. Il difficile, invece, fu convincere Jean Baptiste che vedeva in quell’intrusa nella sua cucina un impaccio più che un aiuto, di cui lui, asseriva, non aver assolutamente bisogno.
«In questo modo, Jean Baptiste, avrai più tempo per elaborare le tue ricette, e Marta, invece, espleterà tutte quelle noiose incombenze da mozzo di cucina e non da chef».
Gina argomentò a lungo e in maniera convincente, finché lui non oppose più obiezioni. E così, Jean Baptiste si trovò a condividere lo spazio sacro della sua cucina con quella giovane maya dai dolci occhi a mandorla e i lisci capelli neri.
E non tardò molto a provare per lei un affetto sincero.

Apache, (all’anagrafe Russel Joseph Littlefeather), invece, era con Gina fin dall’inizio della sua avventura da imprenditrice, perché lavorava nella squadra edile adibita alla ristrutturazione del ristorante e quando i lavori furono terminati lei lo assunse come factotum, per una serie di motivi, primo fra tutti perché Apache l'aveva salvata da un tentativo di stupro, in pieno giorno, ad opera di un balordo che lui aveva spedito prima all’ospedale e poi in galera. Il muscoloso pellerossa in gioventù era stato uno stunt man molto famoso, ma poi una banale caduta dalle scale lo aveva reso zoppo ed inabile alla sua spericolata professione. Dalla depressione scivolò nell'alcolismo. Da quell’inferno emerse grazie all’aiuto devoto di un’assistente sociale che s’era innamorata di lui, che dopo averlo aiutato a risollevarsi gli offrì anche il suo cuore. Apache, quello non poté accettarlo, ma le promise, però, che non avrebbe vanificato il percorso fatto. E fu di parola. Nonostante il suo handicap, grazie al suo fisico muscoloso, aveva trovato lavoro come scaricatore, operaio edile, e buttafuori.
Fino al momento in cui entrò in scena Gina Colombo che lo assunse come uomo di fiducia.

 

lunedì 21 settembre 2020

On the road

 Ogni viaggio, ogni tipo di viaggio, sempre c'insegna qualcosa, perché quello che davvero conta, al di là delle situazioni che lo determinano, delle circostanze in cui si svolge, e dello stato d'animo con cui ci si accinge ad intraprenderlo, è l'esperienza che se ne ricava quella in grado di modificarci.





Ode alla leggerezza

 Circondiamoci di cose belle, poetiche, non visibili allo sguardo: le più leggere da portarci dietro, perché non hanno ombra.





sabato 1 agosto 2020

Il conte e lo zingaro



CONTE CAGLIOSTRO DEL VLAD
Antenati illustri, seppur discutibili, Cagliostro vanta nel suo albero genealogico, attraverso apparentamenti sotterranei e quasi sempre bastardi, come quello tra il casato palermitano dei Cagliostro e quello rumeno del principe Vlad III di Valacchia, al mondo noto come Vlad l'Impalatore o, meglio ancora, col suo nome patronimico Dracula.
Il mio piccolo conte nero dagli occhi d'ambra, sinuoso e indolente, pigro e tiranno, parco di fusa e di manierismi, domina la scena quotidiana con la regalità della sua presenza a cui affettuosamente, da subito e spontaneamente mi sono sottomessa, senza mai recriminare sul ruolo da lui assegnatomi che è quello di cameriera personale e addetta alla cucina.
Cagliostro ha una personalità strabiliante, misteriosa, impenetrabile, criptica, quasi soprannaturale, che unita ad una magnifica presenza lo rende unico e superiore, divo e divino.
Il piccolo Conte non chiede, si limita graziosamente ad accettare o rifiutare i miei doni, quali il cibo o le mie rumorose affettuosità.
Fermo, sulla soglia del salone, con quella sua meravigliosa coda imperiale svettante verso l'alto, significa che ha fame, che dobbiamo andare in cucina dove devo rifornire di cibo fresco il suo piattino, perché non ama le rimanenze, e i primi due bocconcini gradisce che glieli porga io col cucchiaino (sono convinta che se potesse farlo mangerebbe con le posate).
Con l'arrivo di Drugo, il gatto di Tiziano, mio figlio, questo rito irrinunciabile ha assunto un significato oltreché simbolico anche gerarchico: l'attestazione indiscussa della sua supremazia.
E così il momento dei pasti è diventato emblematico e anche cruciale, perché Cagliostro ha i suoi ritmi e i suoi tempi (piccoli bocconi di umido accompagnati ognuno da una presa di croccantini), consumati senza fretta e in perfetta tranquillità. Alla fine del pasto mi avverte che al momento ha terminato e posso sparecchiare.
Ma con l'arrivo di Drugo le cose si sono complicate.

DRUGO LO ZINGARO
Un motorino di fusa e gioia di vivere: questo è in sintesi Drugo.
Il piccolo tuxedo è una simpatica canaglia, di quel tipo che non puoi fare a meno di amare e nonostante ne combini di tutti i colori si è sempre disposti a perdonarlo.
Casinista, rumoroso, spericolato, gioioso, irruento, Drugo è l'esatto contrario di Cagliostro.
Vorace. Ha un appetito insaziabile. Spazzola la ciotola nel giro di un nano secondo e subito dopo attenta a quella di Cagliostro che, sdegnato dall'entusiastico trambusto che Drugo scatena all'ora dei pasti, mi ha fatto chiaramente capire che preferisce mangiare in camera sua piuttosto che con quella peste.
Uno zingarello giostraio, un saltimbanco, un piccolo mendicante, uno spazzacamino: qualunque siano le sue origini Drugo non le rinnega ma se ne fa blasone, soprattutto dal momento che la dea fortuna, incantata dal suo temperamento, gli ha strizzato l'occhio e teso la mano quel giorno che, cucciolo minuscolo, vagava nel traffico e Tiziano ha inchiodato la macchina e lo ha preso a bordo: amore a prima vista per entrambi.
Fidandosi in chi lo ha salvato ha fatto il suo ingresso nella nostra casa e nelle nostre vite niente affatto spaventato e neppure timoroso, conquistando alla fine anche quell'osso duro di Cagliostro, che se è pur vero che non vuole averlo attorno all'ora dei pasti, non rifiuta però di lasciarsi coinvolgere nei giochi o di cimentarsi nella lotta. E anche di condividere, secondo la stagione, i luoghi più caldi o più freschi della casa.
Così come le affettuosità e le carezze, che distribuiamo in parti uguali, e nello stesso momento, per non alimentare possibili gelosie. Carezze che il conte accoglie benignamente come tributo dovuto al suo rango e alla sua magnificenza, mentre il piccolo zingaro, pancino all'aria, innesca il meraviglioso, dolcissimo motorino delle fusa, e riempie la casa, l'anima e l'intero mondo di quelle sue fantastiche vibrazioni.
Marilena

giovedì 16 luglio 2020

domenica 24 maggio 2020

Solo quattrocentonove parole



LA MIA ESPERIENZA NEL MONDO DEGLI AUDIO RACCONTI IN WRITER MONKEY

SOLO QUATTROCENTONOVE PAROLE
Premetto che sono molto prolissa, quando scrivo e quando parlo, con una spiccata simpatia per gli aggettivi e gli avverbi di cui ne faccio un uso smodato, al limite della legalità.
Detta così sembra una cosa innocua, una peculiarità intellettuale o perfino un vezzo: un difettuccio se paragonato ad altri più invasivi anche nei confronti di terzi.
Peggio sarebbe stato se mi fossi ostinata a guidare la macchina, ad esempio, io che riuscivo a farla andare solo a zig zag, pur essendo sobria.
Naaa, lo sproloquio degli aggettivi e degli avverbi ricade interamente su di me anche se probabili, ma non mortali conseguenze, potrebbe averle riportate qualche incauto lettore.

Questa premessa, effimera e all'apparenza scollegata, in cui ho tirato in ballo alcuni dei miei disagi più blandi (di tutti gli altri, di ben altra portata, ne parlo solo con il mio psichiatra) era solo per arrivare a parlare degli audio racconti, l'ultima bellissima, iniziativa di Writer Monkey, ma ho scelto la strada più tortuosa, ho allungato la broda, come si dice in gergo, per dimostrare che non mentivo riguardo alla mia verbosità accertata e non supposta.
Mi sono cimentata anch'io il testo per un audio racconto, "Nel mio delirante universo dada", questo il titolo. Conteggio delle parole: quattrocentonove, non una di più non una di meno. Quattrocentodieci lo avrei preferito, mi piacciono i numeri pari, ma proprio quell'unica parola che avrebbe arrotondato non c'è stato verso di farcela entrare. Mi sballava tutto. E non parlo di avverbi o aggettivi, ma anche una semplice "e" di congiunzione o un "se" dubitativo: parliamo di minuzie, cose piccolissime, destinate a passare inosservate ma che per me avrebbero fatto la differenza psicologica di quel numero tondo.
Ma nonostante i miei molteplici, estenuanti tentativi, quel risultato non l'ho raggiunto, e sono rimasta inchiodata al numero quattrocentonove.

Ma poi...ma poi, mi sono soffermata a valutare più attentamente il tutto: cause e concause, motivazioni ed alibi, impedimenti e spalleggiamenti, al fine di capire questa mia inspiegabile, sopravvenuta impotenza all'inserimento forzoso di quell'unica particella grammaticale, operazione che in altri tempi avrei spensieratamente, e senza nessun inciampo, condotto in porto, ma che al presente, invece, non mi è stato possibile attuare perché finalmente anche io sono entrata nella fase 2 (il paragone con la fase 2 Covid era scontato ma irresistibile) quella dell'alleggerimento delle restrizioni, seppure a tutta prima questo, applicato al mio caso, può sembrare un paradosso dal momento che l'opportunità di un numero minore di parole s'attiene più ad un restringimento che ad un allargamento, ma...
ma, non è così: quello che appare non sempre è!

Sto imparando la sintesi, e tramite questa la riscoperta delle parole. Meglio ancora una nuova loro lettura.
L'esigenza di raccontare con un numero definito di vocaboli (nello specifico se ne richiedevano dai 500 ai 1000) senza però penalizzare lo scritto: atmosfera, pathos, descrizioni e dialoghi. Tutto in uno spazio ristretto ma non claustrofobico, essenziale ma non sciatto, minimal ma non spoglio. Un gioco di ossimori stuzzicante.
Un esercizio in piena regola di autodisciplina impostata alla scrittura!
Un impegno affascinante e una bella sfida, tirando in ballo capacità ed esperienza, intuizione ed istinto (anche quello serve e spesso è determinante) ricerca,(un solo aggettivo, ad esempio, ma il più significativo, il più rappresentativo, piuttosto che un corollario immaginifico, stravagante, colto o sorprendente).

Autodisciplina: una strana scoperta per me che sono anarchica nella scrittura (improvviso, vado a braccio, non tengo conto delle regole basilari della grammatica e spesso stravolgo, o personalizzo, i termini).
Ma qui sono stata ai patti, mi sono attenuta al dettame: mi sono messa in riga. E il risultato per me è stato straordinario!

Figurativamente mi vedo nell'atto di voler inserire forzatamente quell'unico vocabolo che invece rincula, punta i piedi e mi respinge. Mi manda a gambe all'aria mentre scappa via.
Alla distanza mi punta il dito contro e mi redarguisce: «Gli assembramenti sono vietati, e li dentro sono già in troppi .Io non entro!» Prima di darsi alla fuga, però, si volta per aggiungere sarcastico: «E smettila con questa storia dei numeri pari, Hemingway ha scritto "Quarantanove Racconti". Non cinquanta e neppure quarantotto. Cerca di crescere!»


martedì 19 maggio 2020

Nel mio delirante universo dada



Confesso che vorrei essere profondamente diversa da quella che sono, e così anche se non ho termini di paragoni con un'altra me stessa, talvolta mi assale il dubbio, o meglio la certezza, che io in origine fossi diversa. Ma di questo non ho alcuna  prova. E nessuno che possa smentire o confermare. Così
devo presupporre, ob torto collo, che io sia nata strutturata esattamente come sono.
La mia sfrontatezza intellettuale non ha limiti, concedo alla mia fantasia di tutto e di più.
Da questi stadi ne emergo estenuata, inebriata. Come drogata.
E' la passionalità la nota dominante del mio carattere. E una fantasia sfrenata, che sfoga irruenta come un vento desertico, polveroso e ardente, che punta alle terre più depresse, quelle refrattarie alla fertilità e all'ingravidamento. E più brulle sono le zolle più feconda è la mia fantasia. Deus ex machina: dove entro in scena io niente più è stabile, convenzionale, sacro o parallelo. Niente ha un nome. Niente ha un  senso. Ma tutto ha un'unica identità, la mia, transitoria e mutevole anche questa. Così come, transitorio e mutevole, in questi luoghi, è perfino il tempo, che qui scorre in verticale. Il tempo psicologico dei sonnambuli e degli insonni. E quello retroattivo dei narcolettici. Un tempo illusorio. Difforme. Controverso. Opposto a quello simmetrico e circolare dei calendari, compiuto e novello, uguale e diverso, nell'avvicendarsi degli anni e nel succedersi delle stagioni. Progressivo. Coerente e mansueto. Addomesticato ai bisogni quotidiani del convenzionale. Del pattuito. Del circoscritto. Un tempo cronologico limitato alle necessità primarie della semina e del raccolto e a quelle umane del sonno e della veglia, mentre in questo mio delirante universo dada tutto è invece frastagliato, folle e incoerente. Talmente assurdo, ai miei stessi sensi, del persuadermi della necessità di un teorema piano, esistenziale, a cui far riferimento e da cui trarre un conforto personale.
La grammatica impostata sulla scala della matematica: espressione di un baricentro programmato sul ciclo arcaico del sonno e del risveglio e, fra le due fasi, l'intervallo passivo dei sogni. Intervallo che io invece vivo ad occhi aperti, perché dei sogni, nel mio dissacrante fervore distruttivo ne ho cancellato ogni memoria. Tabula rasa. Solo nei brevi istanti in cui chiudo gli occhi, consegnandomi all'inquieto dormiveglia che io chiamo sonno, riesco ad intravederne qualche flash back molto sfocato e solo parziale. Remoto. Freddo. Una reminiscenza aliena che penso non mi appartenga.
Ma di questo non ho alcuna prova. E nessuno che possa smentire o confermare.

giovedì 14 maggio 2020

Tempo Imperfetto


Io parlo con i morti. No, non sono una veggente, non li vedo e neppure ho la sensazione che siano da qualche parte fluttuanti intorno a me come fantasmi. Non li vedo, ma ci parlo. Non sono una strega ma una pioniera delle comunicazioni dell'oltre. Quelli con i quali ho rapporti verbali più frequenti sono mia madre e il mio ex marito. Forse perché tra di noi ci ancora molte cose da chiarire e per questo non ci siamo detti veramente addio. Mia madre sono ormai tanti ani che è venuta a mancare, ma con lei non riesco a venirne a capo proprio come quando era in vita, praticamente siamo sempre al punto di partenza, ferme sulle nostre posizioni seppure io sono disposta a rivedere le mie, lei, invece, non lo è altrettanto: con me o contro di me. In sintesi, questo il suo pensiero. Ed ancora il suo modus vivendi, (se mi è concessa l'ironia) che neppure la morte è riuscita a modificare. Col mio ex marito le cose, invece, vanno molto meglio, che se avessimo trovato questa stessa intesa quando eravamo insieme di sicuro non ci saremmo lasciati. Anche se, a onor del vero, lo visualizzo sempre in un contesto antecedente il nostro divorzio, e con un sottofondo di romanticismo un po' barocco che né io né lui abbiamo mai avuto. Ma ora andiamo d'accordo, e questo è quanto.
Fino a qualche tempo fa erano queste le mie abituali frequentazioni con l'oltre: mia mamma, il mio ex marito e Zia Vincenza, una zia materna che noi chiamavamo Zi Zia, figura strana e affascinante. Gotica. La rivedo antica, in una scenografia di cassettiere d'epoca e quadri di santi alle pareti, mente si spazzola i capelli seduta sul bordo del letto. Era ritenuta stravagante per non definirla pazza. Ma tutte le donne della mia famiglia un po' di pazzia l'hanno sempre coltivata. Zi Zia mi appare nel riquadro della sua stanza  intenta a farsi la treccia, oppure già pettinata e vestita di scuro. Con lei però non c'è scambio di parole. Ero bambina e Vincenza, invece, era già avanti con gli anni, così non abbiamo mai stabilito un contatto vero se non quello formale dei baci e degli abbracci.
Va be', questa premessa era per chiarire che la mia frequentazione col mondo dei morti è limitata all'ambito della famiglia e a Mimmo, un amico fraterno recentemente scomparso.
Famiglia. Appunto!
Fino al giorno in cui è comparso anche lui: Gabriel.

Era già da un pezzo che sedevo davanti al computer in attesa dell'ispirazione che dopo giorni di amnesia desse l'imput alle mie dita per scrivere anche solo un breve paragrafo, sia pure da cancellare l'attimo dopo, salvando un solo rigo, rappresentativo, però, della fine della mia agonia cerebrale e l'inizio del mio viaggio verso un mondo ancora nebuloso ma non più irraggiungibile, tutto da scoprire.
Persa nella nebbia dei miraggi, in attesa di quella lucina al neon che misericordiosa mi guidasse verso un qualche luogo prima che io cedessi alla disperazione del naufrago che, nel silenzio totale e nel deserto del paesaggio, d'un tratto realizza di essere completamente solo. Un attacco di panico, comunque, non me lo sarei fatto mancare.

«L'ispirazione non da preavvisi.»

La frase era risuonata dentro la mia testa ma anche fuori, nella stanza. Istintivamente mi sono girata a guardare, consapevole che non avrei visto nessuno ma pur certa della presenza di uno sconosciuto con un accento spagnolo. Lui poteva vedermi (i paradossi non sono solo nella vita ma anche nella morte, così chi ha chiuso gli occhi vede ciò che noi ad occhi aperti non vediamo) mentre io, invece, non potevo nemmeno visualizzarlo dal momento che mi era sconosciuto. Estraneo ad ogni mio ricordo.


«Chi c'è nella stanza? Ci conosciamo?» Chiedo, inutilmente esplorando il vuoto intorno

«Una bella domanda: tecnicamente non ci conosciamo se per conoscenza s'intende l'aver avuto un qualche tipo di contatto fisico, ma  se invece ne  ipotizziamo di virtuali direi che lei mi conosce molto bene mentre io, invece, fino a qualche istante fa ignoravo la sua esistenza.» E dopo un attimo di riflessione, aggiunge «A ben pensarci, una situazione totalmente squilibrata a suo favore, che poteva sentirsi autorizzata ad immaginare e scrivere, qualsiasi cosa su di me senza che io lo sapessi e potessi contrastarla. Come spesso accade post mortem. Ma per mia fortuna, la sua opinione su di me è sempre stata altissima. O almeno così mi è stato riferito.» La voce è rilassata, e sull'ultima frase perfino divertita.

«Non possiamo formalizzare le presentazioni?» Chiedo ansiosa di avere conferma dell'inverosimile ipotesi che si è fatta strada nella mia mente.

 «Gabriel Garcia Marquez, senora.»
Pronuncia il suo nome con un sorriso nella voce.
Sono impallidita e poi arrossita. Le mani sulla bocca e gli occhi sgranati: la mimica della sorpresa che sta per erompere in gioia incontenibile. Selvaggia. Ma io non so esternare in quel modo. Non sono una che si lascia andare...be', non con chiunque, e ancor meno davanti al mio dio che, neppure invocato, è sceso dal suo Olimpo a soccorrermi. Portarmi conforto. Di questo miracolo non ne parlerà nessuno e sono certa che se lo raccontassi nessuno ci crederebbe.

«Gabriel Garcia Marquez» Ripeto il suo nome estasiata. Una volta, due, tre...

«Si, senora, sono proprio io. » Mi rassicura in tono gentile.

«Ho letto tutti i suoi libri. Proprio tutti.» L'enfasi con cui pronuncio queste banalità reca traccia del mio tumulto interiore.«Ma la sua biografia...quella ancora no, e ne sono davvero mortificata.»

«La prossima volta che torno gliela racconterò io la mia biografia, ma non sarà autorizzata a parlarne né a scriverne, tanto meno reinterpretarla. Insomma...non ne potrà fare neppure l'uso indiretto di una storia verosimile dove alla fine si specifica che ogni riferimento a fatti e persone è puramente casuale.»
L'avvertimento è solenne. E severo.

Annuisco estasiata, disposta a giurare sulla mia vita, quella di mio figlio e quella dei miei gatti, che neppure sotto tortura rivelerei mai le sue confidenze, mentre nell'affanno delle emozioni cerco qualcosa di non troppo scontato con cui replicare. La prima cosa che mi viene in mente è quella di chiedergli se ha letto qualcosa di mio. O se sa che anche io scrivo. Ma non ne ho il coraggio. Assolutamente sfrontata quando scrivo, nella vita reale sono una persona piuttosto timida.
La domanda che invece gli pongo è: «Gabriel...perché proprio io? »

« Perché lei, senora, ama esprimersi nel tempo verbale dell'imperfetto, e non riesce a correggersi. Non può farne a meno, perché l'imperfetto è un tempo mentale incerto, non ben definito, che provoca disordine. Un tempo informe, che esprime la durata di un evento ma non stabilisce il momento preciso in cui è accaduto. E' un tempo eterogeneo e instabile. Rappresentativo. Fluttuante, così come sono i ricordi. E i ricordi non necessitano della precisione per essere veri. L'imperfetto è il tempo di chi parla coi morti: è l'imperfetto che mi ha portato a lei.»

Queste rivelazioni, fatte in modo garbato, educata ironia e un meraviglioso accento spagnolo, mi hanno gettato nel caos più eccitante.
Come faccio a pensare se fatico perfino a respirare?
Il mio dio è sceso sulla terra, mi ha parlato, ha perfino letto i miei racconti.

Un breve attimo di silenzio, quello che precede l'imminente congedo, mentre ci si prepara ai saluti.
Frasi ovvie, di circostanza. Ma lui è Gabriel Garcia Marquez, un uomo fuori dal comune, e così ancora mi sorprende: «La prossima volta mi piacerebbe avere una sua opinione sul mio nuovo romanzo. La trama un po' la riguarda: è la storia di una donna che parla coi morti e racconta di loro nel tempo dell'imperfetto. Ci vede qualche analogia con lei?» Ride del mio stupore. Una risata genuina. Cordiale. Nessuna presa in giro quando mi dice: «La mia ispirazione l'ho appena trovata, sono sicuro che anche lei troverà la sua.»

 «Mi perdoni, Gabriel, ma lei come può scrivere se è...» Non termino la frase perché risuonerebbe ingiuriosa come una bestemmia.

 «Come faccio a scrivere se sono morto?» Conclude per me con un sorriso, che se non posso vedere posso però intuire «Perché il destino di uno scrittore è continuare a scrivere. Per sempre.»