Dedico questo blog a mia madre, meravigliosa farfalla dalle ali scure e dal cuore buio, totalmente priva del senso del volo e dell'orientamento e, per questo, paurosa del cielo aperto. Nevrotica. Elusiva. Inafferrabile.

sabato 29 settembre 2018

Fleur (cap. 9)


JOSETTE E CELESTE
Per Ferrer era diventata ormai un'abitudine bighellonare nei luoghi frequentati da Fleur avendo cura, però, di farlo in maniera discretissima. In realtà, avendo ora la possibilità di frequentarne casa Petit, veniva a mancare la motivazione dell'incontro casuale, ma pure continuava a percorrere quegli itinerari per godere di un benessere aggiuntivo.
Che quelle sue passeggiate solitarie avevano la sacralità di un pellegrinaggio: respirare la stessa aria che Fleur aveva respirato, camminare sul medesimo tratto di marciapiede da lei percorso,  attendere lo scatto dell'unico semaforo sotto cui anche lei aveva, forse solo pochi minuti prima, sostato, entrare nella pasticceria dove l'aveva incontrata con Celeste e sedersi a quello stesso tavolo.
E proprio a quel tavolo l'aveva intravista, e già s'apprestava alla recita dell'incontro fortuito, ma per fermarsi sorpreso sulla soglia, che sedute c'erano, invece, Celeste e Josette.
Quando s'erano conosciute?
Da quanto si frequentavano?
Da quanto erano in confidenza?
Perché?
Nessuna delle due poteva essere per l'altra  il prototipo dell'amica del cuore, della confidente, anche se l'atteggiamento di Josette, proteso ed attento, poteva farlo pensare, (ma Josette era un'attrice se non talentuosa comunque scaltra). Celeste, invece, recitava se stessa: l'unico ruolo che potesse interpretare. 

Ferrer era riuscito, con molta fatica, a reprimere l'istinto di mostrarsi (le conosceva entrambe, non ci sarebbe stato nulla di strano che si fosse avvicinato per un saluto, ma temeva l'imprevedibilità emotiva di Josette, per cui aveva deciso di non rischiare una sicura, e per lui dannosa esibizione pubblica, della sua ex amante) ma le avrebbe pedinate. Magari sarebbe venuto a capo di qualcosa.

Le aveva così seguite.
Camminavano affiancate ma non sottobraccio, come si usa tra amiche, quel contatto stabilito dall'affetto e dalla complicità. Soprattutto dalla condivisione. Camminare sottobraccio significa calibrare i passi sulla medesima lunghezza, letteralmente andare insieme. Sostenersi, anche. E la possibilità, a così stretto contatto, di scambiarsi confidenze senza essere da altri udite.
Sulla base di questo indizio Ferrer aveva concluso che Josette e Celeste non erano amiche, ma questa constatazione che in un primo momento lo aveva confortarlo, lo aveva poi scaraventato in una nuova inquietudine, sollecitando altri interrogativi. E dubbi.
Di cosa stavano parlando?
Troppo preso ad inseguire Fleur s'era quasi dimenticato di Josette, facilmente rimossa dalla sua testa che nel suo cuore mai c'era stata, e aveva forse troppo di fretta abbassato la guardia.
Ed ora lei gli si riproponeva, oscura ed intrigante. Sicuramente vendicativa.
Non c'erano, conoscendo Josette, altre motivazioni possibili ad averla indotta a stabilire un approccio con Celeste Petit, anni luce lontana da lei e della quale mai si sarebbe interessata se non per perseguire uno scopo. Una vendetta. Come lui presagiva.
Dopo un breve tratto di strada s'erano separate, salutandosi con una semplice stretta di mano e avviandosi in direzioni opposte.

CONFIDENZE.  CONSIGLI. E VERITA' NASCOSTE.
- Ma davvero, Francisco, hai sperato che Josette si sarebbe silenziosamente fatta da parte? E' una piccola vipera molto velenosa. Fai attenzione. Piuttosto anticiperei la nostra partenza per Hollywood. La tua uscita di scena forse la indurrà alla calma. -
Questo l'amichevole, saggio consiglio di Arturo Serrano.
Consiglio che Ferrer, però, non aveva alcuna intenzione di seguire, che mai nessuna donna lo avrebbe costretto alla fuga. Tanto meno una come Josette.
Arturo s'era limitato allora a scuotere il capo, e ad un'affettuosa pacca sulla schiena.
Da quello che gli era dato di conoscere del suo amico sapeva che nessun ragionamento lo avrebbe indotto a cambiare idea.

Blanca Gil, invece, alla quale Ferrer non aveva fatto alcuna confidenza né chiesto alcun consiglio, lo aveva approcciato lei, di sua iniziativa, e nel suo solito modo crudo e diretto gli aveva chiesto: cosa sta accadendo tra la tua ex amante e quella che invece vorresti lo diventasse? Le ho viste insieme.

- Non so di cosa tu stia parlando, Blanca -
Aveva replicato Ferrer, attento a non far trapelare nel tono della voce, l'inquietudine
- Allora ti sto dando un'informazione di prima mano.Un favore che dovrai restituirmi a tempo debito -
Blanca aveva tenuto a sottolineare.
- Sicuro. Come sempre. Raccontami cosa hai visto -
- Le ho viste alla pasticceria Bocados, parlavano fitto, o meglio, Josette, che l'altra pareva solo ascoltare. Sono rimasta lì finché ho potuto, sperando di capirci qualcosa. Poi sono dovuta venir via -

Era stato quindi un puro caso che loro due, Francisco e Blanca, non si fossero visti, intenti a spiare la medesima scena. Questione di attimi: lei andava e lui arrivava. Un simbolico cambio della guardia.
E il fatto che anche Blanca fosse a conoscenza di questa inedita combine tra Josette e Celeste, accresceva la sua inquietudine. Avrebbe dovuto giocare su due fronti: smascherare la sua ex amante e nel contempo fuorviare Blanca. Una partita estremamente difficile, ma che pure lui non rifiutava di condurre perché, come aveva ribadito ad Arturo Serrano, nessuna donna mai lo avrebbe costretto alla fuga.
E se la motivazione in altri tempi era stata quella dell'orgoglio del maschio, dell'attore, del sex simbol, ora c'era quella preponderante del suo amore per Fleur che in qualche modo ristabiliva gli equilibri ponendolo dalla parte del giusto, anche se per questo avrebbe dovuto mentire, manomettere, mistificare, stravolgere.
Nulla sarebbe potuto essere considerato illecito, o doloso. per salvaguardare un bene così grande.

DONNE
Ma più che le nevrosi di Josette, Ferrer temeva l'ingerenza arbitraria di Blanca, già sperimentata in passato seppure a suo vantaggio, per cui ora, a ragione, ne paventava l'ipotetico ribaltamento nei suoi stessi confronti, qualora si fosse sentita estromessa da quella faccenda. Un'abiura a quel loro rapporto dove lei, che mai era stata sua amante, era da sempre l'unica donna stabile della sua vita.

Josette e Blanca, due donne da cui guardarsi e delle quali prevenire le mosse. Un compito arduo, perfino per lui, abilmente avvezzo a districarsi in queste faccende, senza troppo badare al modo, che il suo status di stella del cinema pure glieli concedeva questi strappi al galateo amoroso, perché erano proprio gli strappi più ruvidi, più scandalosi, quelli di cui si cibava la platea dei fans e dei media. Clamore che andava ad alimentare la sua leggenda.
Uno dei motivi per cui era stato scelto per interpretare il film "Don Juan" erano state proprio le sue vicende amorose, recitate in diretta, senza alcun filtro e, soprattutto, nessuna compassione.
Qualunque fosse, però, il tenore delle sue vicende, Ferrer non cadeva mai nel volgare.
La sua immagine così non ne usciva mai del tutto compromessa, che pure era capace di gesti eclatanti e generosi, controcorrente, strettamente privati, come quando una sua ex amante (un'attricetta molto bionda, molto giovane e molta bella) era caduta in disgrazia dopo che era stata resa pubblica la sua relazione con un ministro del partito conservatore, noto per il suo moralismo estremo e le sue idee ottocentesche, che in virtù di quella relazione aveva però mandato alle ortiche, svelando prima a se stesso, e poi ai suoi elettori, un lato inedito del suo essere, in netta contrapposizione a quella sua dottrina fino ad allora predicata.
Lo scandalo aveva travolto entrambi e con conseguenze disastrose: il ministro s'era prima dimesso dal suo partito e subito dopo dalla vita, con un colpo di pistola alla tempia. Non prima, però, di aver scritto una lunga, dolorosa, commovente lettera, in cui chiedeva perdono alla famiglia, al suo partito, e al mondo intero, per quel suo unico tradimento di cui avrebbe fatto ammenda col proprio sangue e l'esilio dal Paradiso (che i suicidi non ne hanno accesso)
E di questo suicidio, alla giovane attrice, era stata attribuita tutta la responsabilità etica.
Era stata lei a fuorviare quell'uomo retto, marito e padre esemplare, politico incorrotto, trascinandolo al degrado morale e poi alla rovina. Così aveva deciso l'opinione pubblica confrontando le loro due biografie: scarna e irrilevante quella di lui, un uomo comune, anonimo, se non fosse stata per quella  sua esasperata identità politica che violentemente lo aveva posto sotto la luce dei riflettori per l'oltranzismo delle sue posizioni, cosicché quella di lei risaltava, in uno stridente contrasto, tentatrice ed ambiziosa. Una piccola arrivista. Una rovina famiglie. Di questo verdetto ne aveva preso atto anche lo star sistem, che notoriamente, invece, si serve ai suoi fini dei personaggi controversi e discussi, gli eroi maledetti, le cui storie diventano racconto cinematografico.
Ma in quello specifico c'era stato il morto. Una vedova e degli orfani.
E quella lunga e dolorosa lettera di espiazione, con la rinuncia al Paradiso.
Così lei s'era trovata emarginata, senza lavoro e senza più amici. Perfino quelli che avevano mirato a portarsela a letto ora mostravano riprovazione nei suoi confronti.
Ferrer, che di norma non prestava attenzione ai protagonismi altrui, s'era interessato alla faccenda solo perché lei era stata un tempo la sua amante. Timida, docile, premurosa, niente affatto corrispondente al ritratto dell'ambiziosa arrivista che le era stato incollato addosso (fosse stato pure vero lui non avrebbe cambiato opinione perché era questo che ricordava di lei).
Così era andato a cercarla nella solitudine dell'espiazione in cui era stata confinata, con un sostanzioso assegno e un biglietto aereo per l'Australia.

- Lì non faranno caso a te: la condizione giusta per poter ricominciare -
 S'era trattenuto solo il tempo necessario per la consegna. Niente altro.

venerdì 28 settembre 2018

In my life


Sono molto di più di quello scrivo.
Sono tutto quello che cancello.
(Aurora Nasso)

Dopo mesi riprendo a scrivere, e con molta difficoltà, una pagina di diario.
Un lungo black out, questo mio, dove ho cercato di oscurare me stessa, le mie inquietudini, la mia rabbia. La mia rassegnazione. Sono accadute cose, nel frattempo, per me rilevanti.
Per me sola. Come sempre.

Lunghi periodi d'insonnia.
Nevrosi. Apatia.
Stanchezza fisica.
Sfinimento mentale.
Imprigionata in una ragnatela, vedevo solo lo sfondo del muro e la mia ombra dondolante nella culla di bava.

Ho iniziato così ad ignorarmi. Ad ignorare la mosca prigioniera nella tela del ragno.
Ho cercato di dimenticarmi in tutti i modi.
Ho smesso di guardarmi allo specchio.
Ho raccontato, soprattutto nei miei primi post, la mia idiosincrasia verso gli specchi.
E gli obiettivi fotografici.
L'immagine che ne scaturisce non mi rappresenta.
Non sono io. O, almeno, vorrei non lo fossi.

Poi un amico mi ha scattato una foto.
Una foto che da subito mi ha inquietato.
Non riuscivo a capire il perché.
L'ho guardata da ogni angolatura, facendo uno sforzo, che quella mia immagine profondamente m'inquietava.
Non riuscendo a scoprirne il motivo l'ho cancellata.
Me ne sono liberata con un sospiro di sollievo
...eppoi una mia amica mi ha detto: Marilena, stai perdendo i capelli.

Ho dovuto così affrontare lo specchio e quella realtà che la foto pur mi mostrava, ma che io non ho visto. O, meglio, non sono stata capace di vedere.

Ovviamente questo mi ha gettato ancora di più nella disperazione.
Nuovo stress che si è andato ad aggiungere al vecchio.

Chissà da quanto tempo i capelli mi stavano cadendo e io neppure me ne sono resa conto, così presa ad ignorare gli specchi. E le mie fotografie.
Ad ignorare me stessa.

Da Maggio, periodo in cui ho preso atto di ciò che mi stava accadendo, ho iniziato la mia battaglia contro l'alopecia.
I capelli, fragili come fili di ragnatela, in alcune aree stanno timidamente ricrescendo ma in compenso se ne sguarniscono altre.

Il dottore che mi ha in cura mi ha detto che devo fare uno sforzo e cercare di superare lo stress, ma non è certo facile quando il passato e il presente, in una perversa sinergia, hanno di nuovo scosso, fin nelle fondamenta, il fragile mondo in cui vivo, rimettendo in discussione tutto e ponendomi di fronte ad altre difficili prove esistenziali.

I capelli ricresceranno. Mi ha rassicurato il dottore dopo aver rinforzato, con cortisone aggiuntivo, la sua cura.
Ma io intanto lotto con la mia immagine allo specchio, da cui non mi è più possibile prendere le distanze.
Discostarmene.
Rinnegarla.


Non ho più scritto il mio diario proprio perché la realtà, questa realtà, è per me difficile raccontare.
D'affrontare. Come la mia immagine allo specchio.
Così, in tutto questo tempo, mi son limitata a correggere o scrivere qualche mio racconto.
Mi sono affidata alla fantasia perché la realtà, quella delle parole e dello specchio, risultava  davvero insopportabile.
Ma stamani ho fatto questo tentativo di scrittura del mio diario, incerta fino all'ultimo se tenerla questa pagina rimarrà o, come è accaduto per altre, strapparla via.
Una prova di coraggio che può sembrare stupida ma che a me, invece, costa un doloroso sforzo.

Ma bisognerà pure che io inizi di nuovo a specchiarmi.

Marilena

domenica 16 settembre 2018

Il viaggio di Vincent



VINCENT, IL RAGAZZO CHE SEGUIVA I FUNERALI
All'inizio era nato come un racconto dark questo di  Vincent "il ragazzo che seguiva i funerali": un adolescente che ama la fotografia e la musica di Kurt Cobain, con la peculiarità di essere un frequentatore di cimiteri e un imbucato ai funerali di gente sconosciuta.
Questa sua passione, che non sottende alcuna ossessione, (dei cimiteri ama la scenografia, l'atmosfera di quiete che vi permea e che lo calma da quelle sue inquietudini adolescenziali che coincidono con la visione esistenziale di Kurt Cobain, il suo idolo, mentre i cortei funebri costituiscono per lui un modo di conoscere l'animo umano, che la sofferenza maggiormente predispone all'empatia, alla condivisione) viene però intercettata dal gruppo dei bulli della scuola e Vincent, da questi soprannominato "Il barone del cimitero"diventa oggetto di dileggio. Un dileggio che propaga quando questa sua inclinazione, diventata pubblica, all'inizio suscita  la curiosità delle persone e dei media,  (molti sono quelli che partecipano ai cortei funebri solo per vedere lui "il ragazzo che segue i funerali) e trasformando il tutto in un fenomeno di moda, e lui un animale da baraccone. Ma quando Vincent rifiuta questa trasposizione s'avvia un processo mediatico che coinvolge anche la sua famiglia che pure ha difficoltà a capire, ad accettare Vincent in quella sua innocua peculiarità da cui, con minacce e lusinghe, lo si vuole costringere a guarire.
Quasi quella sua inclinazione fosse una malattia. Una perversione.
Vincent è davvero solo, ha tutti contro: i media, la famiglia, la scuola, dove neppure i professori prendono apertamente le sue parti, lasciandolo in balia del gruppo dei bulli. E' cosciente di non potercela fare in questa immane sfida in cui rischia di smarrire perfino se stesso, di trasformarsi ai suoi stessi occhi in quello che la società ha deciso lui debba essere: un'anomalia.
Da qui matura l'idea del viaggio, prefiggendosi come meta "l'ultima frontiera", che lui la prefigura non come luogo fisico ma piuttosto come un'emozione. Una rivelazione. Un fotogramma anomalo proiettato in un contesto ordinario. Un bagliore da cogliere al volo.
Un viaggio verso cui s'avvia con le cuffiette e la musica di Cobain a fargli da colonna sonora, e la macchina fotografica, per catturare il riflesso di quel bagliore.

Un viaggio esistenziale, questo di Vincent, un'esplorazione del mondo e una verifica di se stesso, espletata dalla conoscenza diretta, non manipolata e né deformata dai media e dalla società.
Un viaggio rivelatore delle contraddizioni e delle mistificazioni attuate dall'uomo a perseguire i suoi scopi, ma anche la scoperta dei sentimenti più alti quali l'amore (Emily) l'amicizia (Adonais) e l'accoglienza (i guardiani dei cimiteri che attrezzano con brande le cappelle e permettono ai profughi di tendere un filo, tra le croci e gli alberi, per stendere il bucato).

Un viaggio verso quell'ultima frontiera che Emily afferma non esistere, o almeno non aver trovato Del viaggio di Emily non sappiamo nulla: lei non racconta e Vincent non domanda. Ma lei vive in una realtà liberal, dove le diverse visioni s'incontrano e non si scontrano. Un confronto democratico, dove vige l'accettazione della diversità e della pluralità (riguardo la morte, ad esempio, i componenti della famiglia di Emily hanno visioni diverse, ma che nessuno tenta d'imporre come le uniche vere, ma legittimandole nel confronto, diventano materia di dibattito, di riflessione. Di scambio di esperienza. Immaginiamo quindi che il viaggio di Emily sia un viaggio interiore, e che lei, vivendo in un mondo ideale improntato sul rispetto, il riconoscimento e l'accettazione delle pluralità
Il nonno di Emily ospita nelle cappelle adibite a dormitori un gruppo di profughi. Non li nasconde. Li rende visibili al vicinato permettendo loro di sciorinare i panni al sole su un filo teso tra le croci, e suonare musica la sera. La pratica dell'accoglienza, e il riconoscimento al diritto d'asilo da parte del nonno di Emily, favorisce l'accettazione e l'integrazione. Una comunità aperta, e in espansione. Si fa musica, si balla, e nascono nuovi amori.

Anche del viaggio di Adonis, il profugo siriano che Vincent incontra nel suo ultimo tratto di strada, sappiamo solo l'essenziale. Lui la sua ultima frontiera l'ha invece trovata in una camera di tortura e da sopravvissuto porterà inciso nel corpo e nell'anima gli orrori che solo la crudeltà umana è in grado di elaborare: una stimmata che mai rimarginerà, mai smetterà di sanguinare, e che permette a Vincent di fotografare in un simbolico passaggio di testimone. In una camera di tortura s'invoca la morte e si maledice la vita. S'implora la pietà della morte e non quella dell'aguzzino. Quella morte che annulla il dolore, lo strazio, il sanguinamento. La morte come via di salvezza: un varco da cui fuggire dalla camera di tortura. Per Adonis, è la tortura e non la morte l'ultima frontiera. Ma è la sua ultima frontiera, sua e di nessun altro. E lo ribadisce più volte affinché Vincent ne penetri il significato. Quell'ultima frontiera che non si prospetta uguale per tutti. E neppure l'imbattervi è nel destino di ognuno. Nella sintesi di Adonis si ripropone la frase iniziale di Cobain, l'incipit di questo racconto:
"Nella nostra vita nulla è programmato al contrario di quello che speriamo, ogni evento può essere portato al suo estremo opposto in una piccola frazione di secondo, cosa condiziona ciò? Il nostro umore, quindi è assolutamente evidente che la nostra vita dipende dalle persone"

Simbolismi e premonizioni nell'ultima notte di Vincent trascorsa con Adonis all'addiaccio in un cimitero violato, tra croci divelte e tombe profanate, quando nel silenzio innaturale percepisce l'odore di urina e di confetti della morte. E quello della solitudine. Il giorno dopo il profugo siriano s'imbarcherà verso la Francia e lui tornerà a casa, facendo sosta da Emily.
Il suo viaggio lo ha comunque compiuto e seppur non ha trovato l'ultima frontiera ha ritrovato se stesso. E forse la sua ultima frontiera è lo smarrimento la sua identità. L'annullamento di Vincent.
 Quel viaggio allora è stato il suo varco verso la salvezza.

... l'ultima frontiera non si prospetta uguale per tutti. E neppure l'imbattervi è nel destino di ognuno. Così smetto di cercare. Torno a casa.
p.s -  Io e Cobain ritardiamo di un giorno la partenza perché siamo capitati in un luogo magnifico dove pare vada in scena il tramonto più bello del mondo. Imperdibile, a quanto mi è stato raccontato. Sarà la nostra ultima sosta"
Questo scrive Vincent nella sua ultima lettera ad Emily.

Quel tramonto imperdibile, il più bello del mondo, rappresenta per lui la bellezza, la poesia, la speranza, e non l'evento non programmato, portato all'estremo opposto in una piccola fazione di secondo a condizionare il suo destino
Ma è quello che accade
Dissolvenza

UNA CASUALITA' MERAVIGLIOSA
ADONIS
Per la figura di Adonis, l'intellettuale rifugiato siriano, compagno nell'ultimo tratto di strada di Vincent, ho fatto riferimento al poeta arabo siriano, Ali Ahmad Sa'id ad Al Qassabin, il cui pseudonimo è Adonis. Esiste davvero. Un incontro fortuito questo mio, che mentre facevo ricerche sul nome mi è apparso lui. A dirla tutta, causa il poco tempo e la necessità di terminare il racconto, non mi ero soffermata sulla sua biografia. Non ho approfondito come di solito faccio. M'interessava il nome e niente altro. Mai però avrei immaginato d'imbattermi in un intellettuale dissidente di nome Adonis, un rivoluzionario che come il mio personaggio trova rifugio in Francia (ma questo l'ho scoperto solo dopo) e che mi ha permesso di creare un collegamento con l'Adonais di Shelley.
E invece è accaduto
Una casualità meravigliosa.
La quadratura del cerchio.
Un bagliore catturato al volo.

TRIBUTO A KURT COBAIN
Questo racconto è anche il mio tributo a Kurt Cobain, leader dei Nirvana e compagno di viaggio di Vincent.
Il suo idolo.
Il suo punto di riferimento.
Lo è stato anche per me, per un lunghissimo tempo.
Ancora oggi amo la sua musica. La sua poesia.
E quella sua voce che graffia a sangue il silenzio.

sabato 15 settembre 2018

Il ragazzo che seguiva i funerali





Nella nostra vita nulla è programmato al contrario di quello che speriamo, ogni evento può essere portato al suo estremo opposto in una piccola frazione di secondo, cosa condiziona ciò? Il nostro umore, quindi è assolutamente evidente che la nostra vita dipende dalle persone.
(Kurt Cobain)

VINCENT
Vincent fin da bambino subiva l'attrazione per i cimiteri, passione che nel periodo dell'adolescenza s'era trasformata in esaltazione esistenziale, così come per la maggior parte dei suoi coetanei avviene per la musica rock o il calcio, i viaggi e le ragazze.
I cimiteri lo ispiravano: la  penombra calmava la sua anima febbrile e dolcemente placava quelle sue inquietudini che originavano improvvise da quella zona recondita ed ancora inesplorata della sua anima, e gli toglievano il respiro.
Adorava il cimitero della sua città: piccolo e ordinato, fiorito d'estate, innevato d'inverno.
Vi giungeva con le cuffiette, dove la voce di Kurt Cobain, il suo idolo, irrompeva graffiando a sangue il silenzio, di rabbia violenta e disarmante malinconia.
Una contraddizione in cui Vincent appieno si ritrovava.
Gli piaceva fotografare. Scattava foto che però non pubblicava sui social.
Quegli scatti rappresentavano i suoi stati d'animo. E quelli non erano condivisibili.

Vincent amava i cimiteri. E seguiva i funerali.

Dopo questa affermazione verrebbe da immaginarlo pallido, asociale e forse aspirante suicida.
Nulla di tutto questo. Era un bel ragazzo con un aspetto sano ed una innata propensione alla comunicazione e alla felicità. Una positività che non lo aveva scalfito neppure nel periodo dell'acne, che per molti adolescenti si prospetta come una prima, durissima prova esistenziale.
E l'aria da poeta, che seduceva le ragazze ma che gli era valsa l'ostilità dei bulli, dei fasulli, di quelli che si predisponevano a fare il il loro ingresso nella vita con i guantoni da boxe.
Gli stessi che lo avevano soprannominato per scherno "Il Barone del Cimitero", evocando l'iconografia di uno stregone woodoo. Un traghettatore d'anime.
 Un'immagine assolutamente menzognera ma efficace ai fini del dileggio.

Vincent, incurante, assecondava la sua passione partecipando a tutti i funerali di cui veniva a conoscenza, nella sua città e in quelle limitrofe, imbucandosi da clandestino, così come altri fanno alle feste, ma a differenza di queste ultime, dove l'intruso viene quasi sempre sbattuto fuori o guardato con riprovazione, ai funerali si viene facilmente accettati perché la dimensione del dolore è così vasta che più si è a condividerlo più se ne alleggerisce il peso.
Partecipare ai cortei funebri, sia pure di estranei, gli era valsa un'infinità di amicizie.
E inviti a nuovi funerali.
Qualcuno perfino lo aveva nominato nelle ultime volontà, richiedendone espressamente la presenza.
Ma quando Vincent si rese conto che quella sua peculiarità stava diventando oggetto di morbosa curiosità, il motivo per cui estranei s'imbucavano alle celebrazioni luttuose unicamente per vedere lui "il ragazzo che segue i funerali", aveva iniziato a seguirli alla distanza. Ma pure c'era sempre qualcuno sulle sue tracce munito di cellulare per testimoniarne la presenza.
La faccenda era degenerata in un fenomeno di moda.

Tutta questa fama, inoltre, gli aveva causato enormi problemi a casa (i suoi genitori erano preoccupati, ma anche imbarazzati da questa sua bizzarria da cui cercavano di distoglierlo con minacce e con lusinghe, poiché erano diventati loro stessi oggetto di un processo mediatico e posti sotto accusa nel loro ruolo genitoriale) e a scuola, dove apertamente, e alla luce del sole, veniva irriso dal gruppuscolo dei bulli, e volutamente ignorato dagli insegnanti.
Solo contro tutti, Vincent si trovava in un grosso casino pur senza aver fatto nulla di male.
Aveva intuito, però, che quella sua passione era stata intenzionalmente trasformata in una perversione.
Aveva anche capito che doveva reagire a quell'accumulo di menzogne. Tirarsene via. Andarsene.

EMILY
Emily la notò subito perché il suo abito rosa spiccava nella piccola folla vestita di scuro. Non  era stato però il dettaglio del colore a farla risaltare, ma lo sguardo.
Quello sguardo la rivelava nella sua vera natura, che era poi la sua stessa.
Le si avvicinò per presentarsi: «mi chiamo Vincent» 
 «Io, Emily». Rispose lei.
Seguirono affiancati il rito della sepoltura, e dopo che la celebrazione ebbe termine, continuarono a passeggiare tra le aiuole fiorite e le croci cesellate del piccolo cimitero, assaporando le emozioni di quel loro incontro, e scoprendosi nel silenzio condiviso, anime gemelle. Spiriti affini. 

Emily aveva i capelli neri e gli occhi grandi. Si muoveva con grazia.
Vincent, più impacciato, era alla ricerca di una frase non banale con cui iniziare una conversazione.
 «Dunque, Vincent, dove sei diretto? » Domandò lei, rompendo il silenzio.
 «Verso l'ultima frontiera.» Rispose Vincent d'istinto. Un segreto che non aveva fino a quel momento rivelato a nessuno

«Non esiste l'ultima frontiera.» Affermò Emily.
 «Come lo sai?» Chiese Vincent, colpito dalla sua asserzione.
«Perché anch'io ho intrapreso quel viaggio.» Disse lei guardandolo negli occhi.
« Allora sarà una ricerca inutile la mia?» C'era delusione in quella sua domanda. E disperazione.
 Emily scosse la testa in segno di diniego: «Nessuna ricerca è mai inutile. E quello che io non ho trovato magari tu lo trovi. Seppur si è diretti allo stesso luogo e seguendo lo stesso itinerario, sono tanti i fattori che possono condizionarne il risultato. Ma questo viaggio vale la pena esser compiuto.»

VINCENT ED EMILY
Erano rimasti a parlare al riparo di una gronda incuranti della pioggia e della notte imminente, sfamandosi con una mela che Emily magicamente aveva cavato da una tasca, e dissetandosi con l'acqua piovana raccolta nelle mani a coppa.
Parlarono di quella loro passione. Di quell'amore incomprensibile a coloro che nella morte leggevano solo il capitolo finale ignorando tutti gli altri che erano stati scritti prima. E quelli che sarebbero stati scritti dopo. Erano ciechi e stolti, e tali volevano rimanere se pure rifiutavano l'idea che qualcuno, come loro due ad esempio, potessero invece amarne la poetica e sentirsene attratti senza per questo covare oscure ossessioni.

Sotto quel riparo di fortuna, Vincent ed Emily, si scambiavano confidenze mentre la tempesta imperversava illuminando il paesaggio con l'isteria dei lampi e il rimbombo ultraterreno dei tuoni.
Una scena apocalittica. Intima, invece, per loro.

Lui le raccontò della sua tristezza nell'essere emarginato in quella che ormai gli veniva riconosciuta come una una devianza, ma che invece era solo il suo modo di esprimersi. E di essere. Così era maturata la sua fuga...no, non proprio una fuga, ma un distacco necessario per ritrovarsi e ricaricarsi dell'energia necessaria per poter continuare ad essere se stesso. Vincent non aspirava ad altro che al diritto di esistere. Sentiva però la mancanza dei suoi luoghi. E di quegli affetti che pure non lo avevano saputo capire, né proteggere. Seppure sua madre, al telefono, non smetteva di chiedergli scusa e piangendo lo implorava di tornare a casa, che le cose sarebbero cambiate.
Ma come fanno le cose a cambiare se non si sono fino in fondo comprese?
 E troppo spesso si confonde l'amore col rimorso. La comprensione col perdono.
Emily gli strinse la mano.
Ci sono vicinanze che non hanno bisogno di parole. E la loro era proprio di quel tipo.
Rimasero così in silenzio sotto la gronda al riparo dalla pioggia battente. Iniziava anche a far freddo. Vincent offrì il suo giaccone ad Emily che lo accettò grata riservandone un angolino anche a lui.
Sotto quell'esigua coperta s'addormentarono.

Il mattino dopo Vincent si svegliò col sole che gli solleticava il viso. Ma Emily, però, non c'era. Esplorò i dintorni i dintorni ma di lei nessuna traccia. Poi la vide fuori dal cancello, giocare con un cucciolo di cane. Tirò un respiro di sollievo: non era dunque sparita. Non era un fantasma, come per un momento aveva pensato. E neppure un sogno.
 Emily era reale.

  «Buongiorno Vincent. Dormito bene?»
 «Buongiorno Emily. Dormito benissimo. E lui chi è? » Chiese, chinandosi ad accarezzare il cucciolo.
 «Lui è Ossian, il guardiano del cimitero. Cioè, il guardiano è mio nonno e Ossian è il suo vice, perché è ancora troppo giovane ed inesperto per insignirlo di un grado maggiore.» Spiegò Emily ridendo, mentre Ossian abbaiava festoso, correndo dall'uno all'altra ed esibendosi in buffe capriole canine.

Vincent: « Tuo nonno è il guardiano del cimitero? Anche tu abiti qui? »
Emily:  «Sono nata qui, ma appartengo a questo posto non per diritto di nascita ma per quello dell'amore. Fin da bambina ho amato questi tristi giardini, come direbbe l'elegiaco poeta, e le croci e gli angeli di marmo e la vita clandestina che brulica al suo interno: i piccoli animali randagi che qui trovano un rifugio; gli uccelli che nidificano nel fitto dei cipressi; le coppie d'innamorati in cerca di privacy. Di recente anche un gruppo di rifugiati che non avevano un posto dove stare. Il nonno li ha rifocillati e permesso di dormire in una cappella attrezzata con delle brande. Avevano teso una corda tra le croci più alte e gli alberi, e vi stendevano i panni ad asciugare. Al mattino sventolavano al suono delle campane. Uno di loro aveva un violino e suonava tutte le sere per ringraziare dell'ospitalità. Poi s'è sparsa la voce e un vicino ha portato la chitarra e la sera dopo un altro è arrivato con la fisarmonica. Melodie improbabili. Ma le donne ballavano e nascevano nuovi amori. Credo che la poetica della morte sia da sempre nel dna della nostra famiglia. Mia madre, professoressa di letteratura, è un'appassionata cultrice della poesia cimiteriale:  "Piango per Adonais...Adonais è morto! Giace il giglio spezzato e la tempesta è oltre". Versi di Shelley, il suo poeta preferito.» Emily declamò quei versi con grande fervore, assumendo una posa drammatica.
Vincent scoppiò a ridere.
« Io a dirti la verità non ne vado matta: atmosfere lugubri e macabre descrizioni. Insomma, una visione tetra, alla Edgar Allan Poe. Mio padre, invece, è uno scultore. Tutte le sculture qui sono opera sua. Nell'ultimo viale a destra c'è perfino un angelo con le mie sembianze. La sua idea della morte è leggera, alata e fiorita. Niente terra ma solo nuvole. Preferisco di gran lunga questa sua alla visione cupa, nichilista della mamma.»
Vincent: «Sembra proprio che tu abbia una famiglia e una vita meravigliose.»
Emily: «Sono stata fortunata.»

SULLA SOGLIA DEL CANCELLO
 «Sempre intenzionato a partire?» Domandò Emily dopo un lungo silenzio.
Vincent annuì, pensieroso. «Perché non vieni con me?» Le chiese d'impulso. Immaginava che condividere quel viaggio sarebbe stato meraviglioso. E lei era la sola alla quale lo avrebbe chiesto.
«Quel viaggio bisogna compierlo da soli» La voce di Emily, quasi un sussurro, tradiva un'emozione profonda ed intima, riflessa negli occhi, grandi e luminosi. «Grazie, però, di avermelo chiesto.»
Sulla soglia del cancello, in pieno sole, sembrava un'immagine di luce. Quasi irreale.
Era così bella che avrebbe voluto scattarle una foto. Ma lei s'era opposta.
«Niente foto e niente telefonate. Odio gli addii. Le immagini che sbiadiscono e le voci che la distanza rende ancor più remote. Ma sarò ancora qui se deciderai di tornare.»
Lo salutò sfiorandogli la bocca con un bacio.

VERSO L'ULTIMA FRONTIERA
Percorrendo la sua "mother route" verso l'ultima frontiera, Vincent, apprese dai giornali che i suoi erano in ansia, preoccupati per quella sua assenza che andava prolungandosi, e ne attendevano con trepidazione il ritorno. Ma l'ultima cosa che lui voleva era quella che si ritornasse a parlare di lui, "il ragazzo che segue i funerali", e questo nessuno poteva garantirlo, anche se, nel frattempo, si era formata una piccola fazione di suoi sostenitori, ma che pure ripeteva lo stesso schema: la richiesta d'interviste, il pressing psicologico, la spettacolarizzazione, e la deformazione, delle sue emozioni. No, non era ancora il momento di tornare. E non sarebbe tornato finché non fosse cessato tutto quel chiasso intorno a lui. Niente più appelli pubblici. Niente più dichiarazioni. Niente più interviste. Niente di che nutrire la morbosità famelica che il suo caso aveva suscitato. E l'ultimatum ai suoi di non partecipare più a quei cinici talk show dove la sua vita era passata al setaccio e ridotta a brandelli, mentre il gruppo dei bulli aveva usufruito di una fama mediatica che li aveva trasformati in personaggi da romanzo, perché i cattivi, infine, hanno sempre un ruolo predominante in tutte le storie
Queste erano le sue condizioni, comunicate alla famiglia, per il suo rientro in data da stabilirsi.


VINCENT E COBAIN
 Nel frattempo prendeva appunti  e scattava foto che inviava ad Emily, che nel suo divieto riguardo i mezzi di comunicazione, non aveva incluso il cartaceo .

"Io e Cobain..."
Le lettere di Vincent iniziavano tutte così.
"Io e Cobain..." stava a significare che in quel suo viaggio non si sentiva solo.

Lettere senza risposta poiché lui si spostava continuamente e quindi non aveva un recapito fisso dove poterle ricevere. Presupponendo che lei avesse intenzione di rispondergli.
Un reportage in realtà un po' squilibrato, colmo di riflessioni che talvolta nelle lettere successive acquisivano il valore di certezze incrollabili per poi ancora essere nuovamente smentite. Stati d'animo d'indicibile malinconia che s'alternavano a quelli di gioiosa esaltazione, in un carosello continuo di emozioni e sensazioni e stupori che lo confondevano e lo sfinivano. Lo stordivano e lo inebriavano. Di queste emozioni contrastanti, e all'apparenza incoerenti, non sempre riusciva a venirne a capo, alcune gli rimanevano attaccate addosso, indelebili, e non riuscendo a prenderne le distanze, lo tormentavano. Erano i momenti in cui lo sconforto prendeva il sopravvento e lui si sentiva emarginato. Esiliato. Rinnegato. Una figura sbiadita e senza contorni. Un fantasma. La maggior parte delle volte non sapeva neppure in quale regione del mondo stesse vagando. Quasi sempre erano posti in cui capitava per caso dal momento che la sua "mother route" l'aveva definitivamente smarrita. Eppure in quel suo lungo, solitario girovagare, aveva incontrato persone che spontaneamente lo avevano accolto e condiviso con lui cibo ed emozioni. Esperienze.

"Io e Cobain stiamo scoprendo che nel mondo ci sono altri guardiani del cimitero come tuo nonno pronti ad attrezzare con brande le cappelle e permettere all'ospite di tender un filo tra le croci e gli alberi per stendere i panni ad asciugare, e la sera fare un po' di musica. E questo mi riconcilia col mondo. Anche con quello da cui sono fuggito e a cui un giorno farò ritorno. Forse solo per una sosta. O forse per sempre. Non lo so ancora con certezza. L'unica certezza è che ho voglia di rivederti. "

Un viaggio straordinario quello suo che lo aveva portato a un capo all'altro del mondo alla ricerca dell'ultima frontiera, che immaginava non come luogo fisico ma piuttosto come evento straordinario, seppure non gli riuscisse d'immaginare in che modo si sarebbe manifestato, scartando per principio quello in cui meno credeva: il paranormale.
Sarebbe stata un'emozione. Una rivelazione. Un fotogramma anomalo proiettato in un contesto ordinario.
Un bagliore da cogliere al volo.

Ma quel fulgore non s'era però mai materializzato. O forse lui non era stato capace di vederlo. Eppure non ne era rimasto troppo deluso perché in definitiva confermava l'asserzione di Emily che l'ultima frontiera non esiste. Ma in compenso di penultime, invece, il mondo era pieno, perché gli uomini strenuamente s'impegnano a delimitare confini, innalzare muri e scavare trincee, seppure nessuna barriera sarebbe mai stata così alta da sovrastare il cielo, oscurare il sole o impedire alla luna di sorgere.
Fortificazioni. Prigioni. Cancelli di filo spinato. Camere di tortura.
Cimiteri a cielo aperto: cadaveri galleggianti sulle onde del mare o emergenti dalle dune del deserto.
Una morte defraudata di ogni poesia.
Soprattutto priva di una qualsiasi giustificazione se non quella del disprezzo per la vita.

ADONIS
"Io e Cobain abbiamo avuto la fortuna d'imbatterci in Adonis, (ti giuro che si chiama proprio così, come il protagonista dei versi di Shelley) un intellettuale siriano in fuga dalla sua terra.
Letteralmente siamo inciampati l'uno nell'altro. Un incontro da romanzo. Un incontro del destino, come sostiene Adonis. Un uomo che ha molto vissuto, profondo conoscitore del genere umano e dei luoghi del mondo. Uno straordinario compagno di viaggio che  molto generosamente mi lascia attingere dalla sua forza. Di giorno viaggiamo. Di notte dormiamo in posti di fortuna. Riusciamo a comunicare nonostante il mio inglese scolastico. Parliamo di tutto. Gli ho raccontato anche di te. E del nostro incontro. E di questo mio viaggio verso quell'ultima frontiera che non ho trovato, e che forse, come tu affermi, non esiste. Domani percorreremo l'ultimo tratto di strada insieme, poi Adonis s'imbarcherà verso la Francia dove spera di ottenere lo status di rifugiato politico. Stanotte dormiamo all'addiaccio, in un cimitero. Ci sono croci divelte e tombe violate. E un silenzio pesante. La morte odora di urina e di confetti. Ti confesso che questa sua partenza mi rattrista e, anche se ci siamo scambiati gli indirizzi e la promessa di rimanere in contatto, per la prima volta, in questa mia avventura, mi sento solo."

"Io e Cobain, stamane, abbiamo trovato l'ultima frontiera. Ce l'ha mostrata Adonis prima di partire. Un geroglifico sul suo petto, scavato così in profondità nelle sue carni che non rimarginerà mai più. Mai  più smetterà di sanguinare. Una ferita orrenda. Una raffinata tecnica di tortura praticata nelle carceri siriane allo scopo di strappare l'anima ad un corpo ancora vivo. Strappare, non liberare
E l'anima urla nello strazio del corpo. Grida silenziose perché la bocca è sigillata dai bavagli. Inudibili all'esterno, si diventa invisibili. Inesistenti. Seppelliti vivi, s'invoca la morte maledicendo la vita. Prima di partire, Adonis mi ha permesso di fotografare il geroglifico sanguinante inciso sul suo petto: il sentiero della sua ultima frontiera. La sua. Perché l'ultima frontiera, mi ha rivelato, non si prospetta uguale per tutti. E neppure l'imbattervi è nel destino di ognuno. Così smetto di cercare. Torno a casa."

p.s -  Io e Cobain ritardiamo di un giorno la partenza perché siamo capitati in un luogo magnifico dove pare vada in scena il tramonto più bello del mondo. Imperdibile, a quanto mi è stato raccontato. Sarà la nostra ultima sosta prima del ritorno."

L'ULTIMA FRONTIERA
Così Vincent aveva scritto in quella sua ultima lettera, che altre Emily non ne aveva più ricevute e inutilmente ne aveva attese.
Sparito nel nulla. Dissolto.
La possibilità che potesse capitargli qualcosa di brutto non l' aveva sfiorata neppure per un attimo.
Quando si è giovani l'ipotesi di morire è la più remota fra i destini possibili, anche quando se ne subisce il fascino e se ne diventa cultori, o ci si pone sulle sue tracce. E' la morte di Adonais che celebriamo, non è mai la nostra e neppure quella di chi ci è caro.
E' una morte poetica. Una morte romantica.
Una morte raccontata nella trama di un romanzo.
Ma mai una morte reale.
Perché noi, nel delimitato tempo che la vita ci concede c'immaginiamo eterni nel nostro mondo circoscritto, e non possiamo fare diversamente perché quello è l'unico modo per accettare la morte. 

Ma la morte, al pari della vita è casuale. Legata a troppi fattori da poter essere tutti presi in considerazione, passeremmo l'intera nostra intera esistenza ad analizzarli. Comprenderli. Assimilarli
.. e poi inciampare in una mina anti uomo, mentre si è intenti a fotografare il riflesso del più bello dei tramonti. Un bagliore da cogliere al volo.
E la voce di Cobain a graffiare a sangue il silenzio.

Giace il giglio spezzato e la tempesta è oltre
(Percy Bysshe Shelley - Adonais)
In memoria di Vincent