Dedico questo blog a mia madre, meravigliosa farfalla dalle ali scure e dal cuore buio, totalmente priva del senso del volo e dell'orientamento e, per questo, paurosa del cielo aperto. Nevrotica. Elusiva. Inafferrabile.

domenica 26 aprile 2020

Certezze. E Catastrofi

Non c'è nulla di più rassicurante delle certezze della routine, anche se a lungo andare possono generare noia o fastidio, infinitamente si rimpiangono nel momento degli sbandamenti e delle catastrofi, quando la terra frana sotto i piedi e tu non sai se stai cadendo in una buca o in un precipizio. O in una realtà parallela.





giovedì 23 aprile 2020

Rebecca (cap 17)



 EN PLEIN AIR
Nel giardino inondato di sole, sedute sotto un patio, c'erano tre donne, che ad un primo sguardo potevano essere la replica di una stessa: capelli ramati, occhi scuri e pelle di porcellana.
Tranne per gli abiti, di colori diversi, verde, lilla e blu, si somigliavano anche nel tono della voce e nella grazia dei movimenti. Giovanni Basile, ammaliato, s'era fermato ad ammirarle: come in un quadro di Degas, il colore vivido degli abiti e il rosso luminoso dei capelli si fondevano con l'azzurro traslucido del cielo quasi estivo, sullo sfondo di un paesaggio senza tempo.

Alla sua vista, una di loro, quella vestita di blu, s'era staccata dalle altre e gli era andata incontro.

«Signor Basile, vi ricordate di me? Ci siamo incrociati nell'atrio, voi stavate uscendo ed io ero appena giunta. Sono Rebecca Scalavino, la figlia di Concetto.» Aveva detto porgendogli la mano.

«Certo che mi ricordo di voi.» Giovanni Basile aveva risposto  togliendosi il cappello da mandriano e stringendole la mano.
Aveva una voce profonda, capelli lucidi e neri legati in una treccia, e sotto la fronte bassa, nel volto brunito dai lineamenti marcati, risaltavano gli occhi scuri dal taglio a mandorla, che gli conferivano una fisionomia straordinariamente esotica. Come la volta precedente indossava stivali da cacciatore e una camicia quadrettata da montanaro, con le maniche rimboccate sulle braccia.

«Avrei bisogno di parlarvi, ovviamente dopo che avrete fatto visita a mio padre. Non vi porterò via troppo tempo...è una faccenda breve.»

Lui aveva sorriso di nuovo: «Non è il tempo che mi manca, e sono lieto se potrò esservi di aiuto.»

«Grazie, per la vostra gentilezza. Vi attenderò sotto il patio.» Rebecca gli aveva indicato la struttura coperta dove era prima seduta con la sorella e la madre.

Giovanni Basile, toccandosi la falda del cappello con due dita, aveva fatto un cenno d'assenso.
 «A dopo.»  Aveva detto incamminandosi lungo il vialetto.


«Chi è l'uomo col quale stavi parlando?» Gemma aveva chiesto incuriosita.

«Giovanni Basile, lavora per papà.»

«E tu cosa hai a che fare con lui?»

«Vorrei capirne di più sull'ebanisteria.» Aveva risposto Rebecca, suscitando la risata divertita della sorella, a cui aveva replicato seria: «Non c'è nulla da beffeggiare, Gemma. Voglio una vita fuori dalle mura di questa casa e da quella futura, dove immagino sarò la moglie di qualcuno, intenta ad allevare figli, curare il giardino e ricamare centrini. E' questo a cui siamo destinate. Ed io non lo accetto. Voglio essere padrona della mia vita e delle mie scelte. Ti pare un desiderio così orrendo? » La domanda era stata accolta dal silenzio. Con dolcezza, Rebecca, aveva allora chiesto: «E tu cosa desideri, Gemma?»

«Essere amata.» Aveva risposto in un sussurro. Ma subito dopo, pentita di quella confessione, s'era allontanata correndo.

Rebecca non aveva tentato di trattenerla e neppure di rincorrerla. Non era stata freddezza la sua, ma rispetto, intuendo, da quell'amara, schietta dichiarazione, la tempesta di sentimenti, emozioni e dubbi che albergavano nell'animo della sorella. Una confessione, quella sua, alla cui luce andavano analizzati i suoi recenti comportamenti. Il loro padre l'aveva illusa sulla sincerità del suo affetto, e poi umiliata per consentire a lei di trionfare. L'abietta scala dei valori su cui lui s'era mosso pienamente giustificava quel suo rancore che ora s'era esteso anche lei che s'affannava a prenderne le difese, facendosi paladina di quella supposta innocenza paterna, tutt'altro che limpida, sulle cause della morte di Mimì Messinese.
No, averla lasciata andar via senza tentare di fermarla con un gesto o una parola, non era stata una buona cosa: quello che nelle sue intenzioni voleva essere un segno di rispetto doveva esserle sembrare, al contrario, d'indifferenza o di superiorità.
Doveva immediatamente chiarire l'equivoco con Gemma.


Entrata nell'atrio s'era incrociata con Giovanni Basile che s'apprestava ad uscire.

«A quanto pare è nostro destino incontrarci nel corridoio.» Aveva detto divertito lui, ma s'era subito fatto serio davanti all'espressione smarrita della giovane. «Tutto bene, Rebecca?» Aveva chiesto.
Rebecca lo aveva rassicurato: «Sì, tutto a posto, ma dobbiamo rimandare la nostra conversazione in un altro momento, se siete d'accordo.»

«Certo. Quando volete.» C'era un'impercettibile nota di delusione nella sua voce, che Rebecca, però, non aveva rilevato.

«La prossima volta che verrete in visita a mio padre, se per voi va bene.»

Giovanni Basile aveva annuito in segno di assenso.
Sulla porta s' erano salutati con una stretta di mano.


LA SCOPERTA DELL'INTIMITA'
Quando Rebecca era entrata nella stanza, Gemma, d'impulso, s'era alzata per uscire, ma stavolta, però, lei l'aveva trattenuta.

«Dobbiamo parlare, chiarire questo mostruoso equivoco che si è creato tra noi.» Aveva detto Rebecca tenendola per i polsi, ma Gemma, furiosa, l'aveva respinta facendola cadere a terra da dove, però,  s'era subito rialzata e, per impedire che l'altra guadagnasse l'uscita, l'aveva placcata cercando d'immobilizzarla per le braccia. Gemma, con un colpo di ginocchio all'inguine, l'aveva costretta ad allentare la presa, facendola ripiegare su stessa. Di nuovo a terra, dolorante, ma decisa a non mollare, Rebecca l'aveva afferrata per una caviglia. Perdendo l'equilibrio, Gemma le era ruzzolata addosso.
S'erano così ritrovate entrambe a terra, ansanti, esauste e scarmigliate, i cuori in tumulto, blocco unico in un angolo del pavimento: il loro primo vero, materiale contatto fisico.
D'istinto, Rebecca, tramutò la presa in un abbraccio e baciò la sorella su una guancia.
 Sorpresa da quel gesto, inusuale ed inaspettato, Gemma, confusa, si arrese a quell'intimità nuova, lasciandosi andare alle lacrime.

Unite in quell'abbraccio, il cucciolo di lupo e il cucciolo di cane, sperimentavano, entrambe per la prima volta, la confidenza del contatto fisico. Quell'intimità silenziosa, profonda, che non scaturisce dalle parole o dal legame del sangue, ma dal sentimento, e fino a quel momento a loro preclusa perché sconosciuta.

Rebecca, con quell'abbraccio spontaneo, aveva compiuto l'atto materiale del ricongiungimento con la sorella, abbattuto gli steccati dietro cui erano confinate e legittimato l'accesso illimitato nel proprio territorio: non una resa, quella sua, ma un'offerta, che forse Gemma avrebbe accettato oppure respinto. Ma non era quello il momento delle verifiche. In quell'angolo di pavimento, trasformato in una culla, Rebecca e Gemma s'erano addormentate abbracciate. Riappacificate, come accade sovente alle sorelle dopo un litigio.

martedì 14 aprile 2020

Rebecca (cap.16)


IN PUNTA DI PIEDI
Brigida era entrata in punta di piedi nella camera di Concetto Scalavino, per chiudere le tende che il sole, nonostante volgesse all'imbrunire, ancora smerigliava di rosso le pareti, prendere ordini per la cena e sincerarsi delle sue condizioni, che quel giorno, contrariamente al solito, la campanella di servizio aveva suonato solo una volta perché venisse fornito di pennino e carta da lettere. I fogli, malamente scarabocchiati, erano scivolati a terra quando lui s'era addormentato. Scrivere in quella posizione scomoda non era facile, così come il trascorrere intere giornate immobilizzato a letto.
Quanto doveva pesare ad un uomo d'azione come lui quella forzatura e la conseguente dipendenza da lei, per le veci nella casa, e da Giovanni Basile, per quelle negli affari!
Ma se poteva fidarsi di loro per le pratiche quotidiane così non era per quelle più intime, e a causa dell'incidente, sospese e d'improvviso incerte, e che pure dovevano tremendamente angosciarlo non potendo, per queste, affidarsi ad alcun vice.
Brigida aveva raccolto i fogli, tirato le tende, e senza far rumore era uscita dalla stanza.
 Nell'ingresso aveva intercettato Rebecca e ponendole le lettere in mano, aveva detto: «Sono certa che avete una grafia migliore di quella di vostro padre. Ricopiatele e, se occorre, correggetele.»

«Cosa sono?» Aveva chiesto sorpresa la ragazza sbirciando i fogli fittamente coperti da una scrittura maschile puntuta e irregolare, a tratti illeggibile.

«Lettere d'affari: il vostro possibile passaporto per l'indipendenza.» Le aveva risposto Brigida seria.

«Davvero siete convinta che copiare in bella grafia queste lettere di mio padre, per di più trafugate dalla sua camera, mi varrà un suo encomio? »

« Avete ragione, sarà molto arrabbiato con voi, ma anche colpito sbalordito dall'intraprendenza del  gesto e dall'audacia di aver osato entrare in un contesto che sicuramente lui giudica non alla vostra portata. Sono altrettanto certa, però, che voi saprete tenergli testa.» Aveva ribadito sicura la governante.

Rebecca l'aveva guardata perplessa: «Non riesco a seguirvi: perché mio padre dovrebbe trovare significativo questo mio gesto? Si vede che non lo conoscete e avete avuto poco a che fare con lui. E' un despota che vorrebbe tutti piegati alla sua volontà, e dove non arriva col convincimento usa la coercizione, tanto che ...»

«Ma è anche un uomo terribilmente solo.» L'aveva interrotta Brigida. «Lo attestano quelle sue lettere faticosamente scritte a causa della posizione precaria a cui l'immobilità lo costringe, e per questo illeggibili. Poteva chiedere aiuto a me, a voi o a Gemma, ma non l'ha fatto. Per stupido orgoglio, direte voi, ma anche perché crede di non avere nessuno di cui potersi fidare. La morte di Mimì Messinese ha reso evidente questa mancanza accentuando la sua solitudine.»

«C'è quel Giovanni Basile, il suo braccio destro. Di lui dovrebbe fidarsi.» Aveva obiettato seccamente Rebecca

«Confondete la fiducia con l'intimità. Sono cose diverse. Rifletteteci.» Brigida aveva detto lasciandole nelle mani il pacchetto delle lettere, per sparire poi nella cucina.


...e con quelle aveva fatto il suo ingresso nella camera che divideva con Gemma.
Assorta nei propri pensieri, Rebecca, non s'era accorta della presenza della sorella rimasta in silenzio ad osservarla selezionare e disporre in bell'ordine i fogli sullo scrittoio.
Solo dopo, alzando gli occhi, l'aveva vista, , davanti a quello sguardo provocatoriamente irridente per la prima volta in vita sua, s'era sentita a disagio, come colta in fallo.
Una sensazione nuova e difficile da decifrare per lei, cucciolo di lupo, avvezza ad espletare ogni cosa limpidamente alla luce del sole, in piena autonomia, libera da qualsiasi pregiudizio e inganno.
Chiaramente, però, aveva percepito che la recente, sottile trama, su cui s'andava imbastendo il legame nuovo e inesplorato con Gemma, rischiava, alla luce dei recenti malintesi, di lacerarsi, perché sebbene entrambe perseguissero lo stesso progetto i contrasti erano ora sul metodo per realizzarlo.
Non era, per nessuna delle due, questione di orgoglio ma era mancato loro l'imprinting alla condivisione, per cui erano cresciute insieme sotto lo stesso tetto ma distanti ed estranee l'una all'altra.
L'unico vero sentimento che le legava era quello del rispetto piuttosto che dell'affetto.
Se non c'era stata fino a quel momento tra loro complicità tanto meno c'erano state discordie o baruffe, l'una rispettosa della presenza dell'altra, vissuta naturalmente senza l'ingombro di quei sentimenti forzati in nome della comune matrice di nascita.
Ma ora che gli schemi s'erano rotti, e il mondo esterno, con le sue orribili distonie aveva invaso i loro perimetri esistenziali, tracimando col pesante carico delle contraddizioni, delle incoerenze e dei sofismi psicologici, la fragile impalcatura su cui basava la loro intesa iniziale, rischiava di non reggerne l'urto.


«Ora svolgi per lui mansioni di segretaria? » Aveva domandato ironica Gemma. Poi, senza darle il tempo di rispondere aveva aggiunto: «Tu e la signora Catalano parlavate nell'ingresso così, mio malgrado, ho ascoltato la vostra conversazione.» Quella puntualizzazione avrebbe potuto avere apparenza di scuse, ma il tono sarcastico, e il sorriso canzonatorio, chiaramente smentivano essere tale.

«Mi ha chiesto di riscrivere in grafia leggibile queste lettere di papà. Tutto qui.» Rebecca non aveva raccolto la provocazione consapevole che nessuna spiegazione, per quanto improntata al buonsenso, l'avrebbe convinta.

«Farai qualsiasi cosa lei ti chiederà?» La domanda suonava come uno sberleffo.

«No. Solo quello che riterrò opportuno.» Aveva risposto Rebecca guardandola negli occhi.

«Come immaginavo: hai già dimenticato tutto, mentre io, invece, non dimentico niente.» C'era delusione nella voce di Gemma. Ma anche una sfida.



PUNTI DI VISTA ESTERNI E DISCORDANTI
«Non ho dimenticato neppure io, ma ora la situazione è cambiata. Mimì Messinese è morto e con lui anche il progetto di nostro padre, ma nonostante il suo riprovevole agire, trovo ingiusto che Giandomenico e la sua famiglia lo reputino colpevole della sua morte: non lo ha ucciso lui, Mimì.» Aveva ribadito con forza Rebecca.

«Ne sei davvero convinta? Sbagli a difenderlo, perché lui ha ucciso anche la mamma.» In quella sentenza inappellabile, la voce di Gemma era risuonata gelida, in contrasto, però, con lo sguardo compassionevole rivolto alla sorella prima di uscire dalla stanza.

Rebecca, rimasta sola, aveva gettato un'occhiata pensosa ai fogli sparsi sullo scrittoio chiedendosi se quella silenziosa collaborazione, per altro non richiesta da suo padre, ma caldeggiata dalla signora Catalano, non fosse una trappola.
Abituata a far riferimento solo a sé stessa e al suo istinto, si trovava ora a doversi districare in un coacervo d'ipotesi, di verità vere o presunte, di punti di vista esterni e discordanti, eppure tutti allo stesso tempo plausibili.

Aveva ragione Gemma nell'affermare che il loro padre avesse ucciso la mamma, seppure lei era ancora viva e, al di là dello smarrimento mentale, godeva di una salute di ferro, ma continuava a credere, però, che non fosse responsabile della morte di  Mimì Messinese, seppure lui fosse realmente morto, stroncato da un infarto provocato dall'ansia, dalle pressioni, e dalla sua incapacità a barcamenarsi in una situazione dove non aveva visto via d'uscita, ma che lui stesso aveva contribuito a creare.
 In base a questo ragionamento, allora, erano colpevoli anche lei e Giandomenico, che pur non accettando quella situazione, per motivi diversi l'avevano comunque tollerata. E protratta.
 E se così fosse, qual'era il grado individuale di colpevolezza?
Perché un'intelligenza sensibile come quella di Giandomenico non aveva vagliato questo punto di vista?
O forse lo aveva fatto, e se ne era ritratto inorridito.