Dedico questo blog a mia madre, meravigliosa farfalla dalle ali scure e dal cuore buio, totalmente priva del senso del volo e dell'orientamento e, per questo, paurosa del cielo aperto. Nevrotica. Elusiva. Inafferrabile.

domenica 24 maggio 2020

Solo quattrocentonove parole



LA MIA ESPERIENZA NEL MONDO DEGLI AUDIO RACCONTI IN WRITER MONKEY

SOLO QUATTROCENTONOVE PAROLE
Premetto che sono molto prolissa, quando scrivo e quando parlo, con una spiccata simpatia per gli aggettivi e gli avverbi di cui ne faccio un uso smodato, al limite della legalità.
Detta così sembra una cosa innocua, una peculiarità intellettuale o perfino un vezzo: un difettuccio se paragonato ad altri più invasivi anche nei confronti di terzi.
Peggio sarebbe stato se mi fossi ostinata a guidare la macchina, ad esempio, io che riuscivo a farla andare solo a zig zag, pur essendo sobria.
Naaa, lo sproloquio degli aggettivi e degli avverbi ricade interamente su di me anche se probabili, ma non mortali conseguenze, potrebbe averle riportate qualche incauto lettore.

Questa premessa, effimera e all'apparenza scollegata, in cui ho tirato in ballo alcuni dei miei disagi più blandi (di tutti gli altri, di ben altra portata, ne parlo solo con il mio psichiatra) era solo per arrivare a parlare degli audio racconti, l'ultima bellissima, iniziativa di Writer Monkey, ma ho scelto la strada più tortuosa, ho allungato la broda, come si dice in gergo, per dimostrare che non mentivo riguardo alla mia verbosità accertata e non supposta.
Mi sono cimentata anch'io il testo per un audio racconto, "Nel mio delirante universo dada", questo il titolo. Conteggio delle parole: quattrocentonove, non una di più non una di meno. Quattrocentodieci lo avrei preferito, mi piacciono i numeri pari, ma proprio quell'unica parola che avrebbe arrotondato non c'è stato verso di farcela entrare. Mi sballava tutto. E non parlo di avverbi o aggettivi, ma anche una semplice "e" di congiunzione o un "se" dubitativo: parliamo di minuzie, cose piccolissime, destinate a passare inosservate ma che per me avrebbero fatto la differenza psicologica di quel numero tondo.
Ma nonostante i miei molteplici, estenuanti tentativi, quel risultato non l'ho raggiunto, e sono rimasta inchiodata al numero quattrocentonove.

Ma poi...ma poi, mi sono soffermata a valutare più attentamente il tutto: cause e concause, motivazioni ed alibi, impedimenti e spalleggiamenti, al fine di capire questa mia inspiegabile, sopravvenuta impotenza all'inserimento forzoso di quell'unica particella grammaticale, operazione che in altri tempi avrei spensieratamente, e senza nessun inciampo, condotto in porto, ma che al presente, invece, non mi è stato possibile attuare perché finalmente anche io sono entrata nella fase 2 (il paragone con la fase 2 Covid era scontato ma irresistibile) quella dell'alleggerimento delle restrizioni, seppure a tutta prima questo, applicato al mio caso, può sembrare un paradosso dal momento che l'opportunità di un numero minore di parole s'attiene più ad un restringimento che ad un allargamento, ma...
ma, non è così: quello che appare non sempre è!

Sto imparando la sintesi, e tramite questa la riscoperta delle parole. Meglio ancora una nuova loro lettura.
L'esigenza di raccontare con un numero definito di vocaboli (nello specifico se ne richiedevano dai 500 ai 1000) senza però penalizzare lo scritto: atmosfera, pathos, descrizioni e dialoghi. Tutto in uno spazio ristretto ma non claustrofobico, essenziale ma non sciatto, minimal ma non spoglio. Un gioco di ossimori stuzzicante.
Un esercizio in piena regola di autodisciplina impostata alla scrittura!
Un impegno affascinante e una bella sfida, tirando in ballo capacità ed esperienza, intuizione ed istinto (anche quello serve e spesso è determinante) ricerca,(un solo aggettivo, ad esempio, ma il più significativo, il più rappresentativo, piuttosto che un corollario immaginifico, stravagante, colto o sorprendente).

Autodisciplina: una strana scoperta per me che sono anarchica nella scrittura (improvviso, vado a braccio, non tengo conto delle regole basilari della grammatica e spesso stravolgo, o personalizzo, i termini).
Ma qui sono stata ai patti, mi sono attenuta al dettame: mi sono messa in riga. E il risultato per me è stato straordinario!

Figurativamente mi vedo nell'atto di voler inserire forzatamente quell'unico vocabolo che invece rincula, punta i piedi e mi respinge. Mi manda a gambe all'aria mentre scappa via.
Alla distanza mi punta il dito contro e mi redarguisce: «Gli assembramenti sono vietati, e li dentro sono già in troppi .Io non entro!» Prima di darsi alla fuga, però, si volta per aggiungere sarcastico: «E smettila con questa storia dei numeri pari, Hemingway ha scritto "Quarantanove Racconti". Non cinquanta e neppure quarantotto. Cerca di crescere!»


martedì 19 maggio 2020

Nel mio delirante universo dada



Confesso che vorrei essere profondamente diversa da quella che sono, e così anche se non ho termini di paragoni con un'altra me stessa, talvolta mi assale il dubbio, o meglio la certezza, che io in origine fossi diversa. Ma di questo non ho alcuna  prova. E nessuno che possa smentire o confermare. Così
devo presupporre, ob torto collo, che io sia nata strutturata esattamente come sono.
La mia sfrontatezza intellettuale non ha limiti, concedo alla mia fantasia di tutto e di più.
Da questi stadi ne emergo estenuata, inebriata. Come drogata.
E' la passionalità la nota dominante del mio carattere. E una fantasia sfrenata, che sfoga irruenta come un vento desertico, polveroso e ardente, che punta alle terre più depresse, quelle refrattarie alla fertilità e all'ingravidamento. E più brulle sono le zolle più feconda è la mia fantasia. Deus ex machina: dove entro in scena io niente più è stabile, convenzionale, sacro o parallelo. Niente ha un nome. Niente ha un  senso. Ma tutto ha un'unica identità, la mia, transitoria e mutevole anche questa. Così come, transitorio e mutevole, in questi luoghi, è perfino il tempo, che qui scorre in verticale. Il tempo psicologico dei sonnambuli e degli insonni. E quello retroattivo dei narcolettici. Un tempo illusorio. Difforme. Controverso. Opposto a quello simmetrico e circolare dei calendari, compiuto e novello, uguale e diverso, nell'avvicendarsi degli anni e nel succedersi delle stagioni. Progressivo. Coerente e mansueto. Addomesticato ai bisogni quotidiani del convenzionale. Del pattuito. Del circoscritto. Un tempo cronologico limitato alle necessità primarie della semina e del raccolto e a quelle umane del sonno e della veglia, mentre in questo mio delirante universo dada tutto è invece frastagliato, folle e incoerente. Talmente assurdo, ai miei stessi sensi, del persuadermi della necessità di un teorema piano, esistenziale, a cui far riferimento e da cui trarre un conforto personale.
La grammatica impostata sulla scala della matematica: espressione di un baricentro programmato sul ciclo arcaico del sonno e del risveglio e, fra le due fasi, l'intervallo passivo dei sogni. Intervallo che io invece vivo ad occhi aperti, perché dei sogni, nel mio dissacrante fervore distruttivo ne ho cancellato ogni memoria. Tabula rasa. Solo nei brevi istanti in cui chiudo gli occhi, consegnandomi all'inquieto dormiveglia che io chiamo sonno, riesco ad intravederne qualche flash back molto sfocato e solo parziale. Remoto. Freddo. Una reminiscenza aliena che penso non mi appartenga.
Ma di questo non ho alcuna prova. E nessuno che possa smentire o confermare.

giovedì 14 maggio 2020

Tempo Imperfetto


Io parlo con i morti. No, non sono una veggente, non li vedo e neppure ho la sensazione che siano da qualche parte fluttuanti intorno a me come fantasmi. Non li vedo, ma ci parlo. Non sono una strega ma una pioniera delle comunicazioni dell'oltre. Quelli con i quali ho rapporti verbali più frequenti sono mia madre e il mio ex marito. Forse perché tra di noi ci ancora molte cose da chiarire e per questo non ci siamo detti veramente addio. Mia madre sono ormai tanti ani che è venuta a mancare, ma con lei non riesco a venirne a capo proprio come quando era in vita, praticamente siamo sempre al punto di partenza, ferme sulle nostre posizioni seppure io sono disposta a rivedere le mie, lei, invece, non lo è altrettanto: con me o contro di me. In sintesi, questo il suo pensiero. Ed ancora il suo modus vivendi, (se mi è concessa l'ironia) che neppure la morte è riuscita a modificare. Col mio ex marito le cose, invece, vanno molto meglio, che se avessimo trovato questa stessa intesa quando eravamo insieme di sicuro non ci saremmo lasciati. Anche se, a onor del vero, lo visualizzo sempre in un contesto antecedente il nostro divorzio, e con un sottofondo di romanticismo un po' barocco che né io né lui abbiamo mai avuto. Ma ora andiamo d'accordo, e questo è quanto.
Fino a qualche tempo fa erano queste le mie abituali frequentazioni con l'oltre: mia mamma, il mio ex marito e Zia Vincenza, una zia materna che noi chiamavamo Zi Zia, figura strana e affascinante. Gotica. La rivedo antica, in una scenografia di cassettiere d'epoca e quadri di santi alle pareti, mente si spazzola i capelli seduta sul bordo del letto. Era ritenuta stravagante per non definirla pazza. Ma tutte le donne della mia famiglia un po' di pazzia l'hanno sempre coltivata. Zi Zia mi appare nel riquadro della sua stanza  intenta a farsi la treccia, oppure già pettinata e vestita di scuro. Con lei però non c'è scambio di parole. Ero bambina e Vincenza, invece, era già avanti con gli anni, così non abbiamo mai stabilito un contatto vero se non quello formale dei baci e degli abbracci.
Va be', questa premessa era per chiarire che la mia frequentazione col mondo dei morti è limitata all'ambito della famiglia e a Mimmo, un amico fraterno recentemente scomparso.
Famiglia. Appunto!
Fino al giorno in cui è comparso anche lui: Gabriel.

Era già da un pezzo che sedevo davanti al computer in attesa dell'ispirazione che dopo giorni di amnesia desse l'imput alle mie dita per scrivere anche solo un breve paragrafo, sia pure da cancellare l'attimo dopo, salvando un solo rigo, rappresentativo, però, della fine della mia agonia cerebrale e l'inizio del mio viaggio verso un mondo ancora nebuloso ma non più irraggiungibile, tutto da scoprire.
Persa nella nebbia dei miraggi, in attesa di quella lucina al neon che misericordiosa mi guidasse verso un qualche luogo prima che io cedessi alla disperazione del naufrago che, nel silenzio totale e nel deserto del paesaggio, d'un tratto realizza di essere completamente solo. Un attacco di panico, comunque, non me lo sarei fatto mancare.

«L'ispirazione non da preavvisi.»

La frase era risuonata dentro la mia testa ma anche fuori, nella stanza. Istintivamente mi sono girata a guardare, consapevole che non avrei visto nessuno ma pur certa della presenza di uno sconosciuto con un accento spagnolo. Lui poteva vedermi (i paradossi non sono solo nella vita ma anche nella morte, così chi ha chiuso gli occhi vede ciò che noi ad occhi aperti non vediamo) mentre io, invece, non potevo nemmeno visualizzarlo dal momento che mi era sconosciuto. Estraneo ad ogni mio ricordo.


«Chi c'è nella stanza? Ci conosciamo?» Chiedo, inutilmente esplorando il vuoto intorno

«Una bella domanda: tecnicamente non ci conosciamo se per conoscenza s'intende l'aver avuto un qualche tipo di contatto fisico, ma  se invece ne  ipotizziamo di virtuali direi che lei mi conosce molto bene mentre io, invece, fino a qualche istante fa ignoravo la sua esistenza.» E dopo un attimo di riflessione, aggiunge «A ben pensarci, una situazione totalmente squilibrata a suo favore, che poteva sentirsi autorizzata ad immaginare e scrivere, qualsiasi cosa su di me senza che io lo sapessi e potessi contrastarla. Come spesso accade post mortem. Ma per mia fortuna, la sua opinione su di me è sempre stata altissima. O almeno così mi è stato riferito.» La voce è rilassata, e sull'ultima frase perfino divertita.

«Non possiamo formalizzare le presentazioni?» Chiedo ansiosa di avere conferma dell'inverosimile ipotesi che si è fatta strada nella mia mente.

 «Gabriel Garcia Marquez, senora.»
Pronuncia il suo nome con un sorriso nella voce.
Sono impallidita e poi arrossita. Le mani sulla bocca e gli occhi sgranati: la mimica della sorpresa che sta per erompere in gioia incontenibile. Selvaggia. Ma io non so esternare in quel modo. Non sono una che si lascia andare...be', non con chiunque, e ancor meno davanti al mio dio che, neppure invocato, è sceso dal suo Olimpo a soccorrermi. Portarmi conforto. Di questo miracolo non ne parlerà nessuno e sono certa che se lo raccontassi nessuno ci crederebbe.

«Gabriel Garcia Marquez» Ripeto il suo nome estasiata. Una volta, due, tre...

«Si, senora, sono proprio io. » Mi rassicura in tono gentile.

«Ho letto tutti i suoi libri. Proprio tutti.» L'enfasi con cui pronuncio queste banalità reca traccia del mio tumulto interiore.«Ma la sua biografia...quella ancora no, e ne sono davvero mortificata.»

«La prossima volta che torno gliela racconterò io la mia biografia, ma non sarà autorizzata a parlarne né a scriverne, tanto meno reinterpretarla. Insomma...non ne potrà fare neppure l'uso indiretto di una storia verosimile dove alla fine si specifica che ogni riferimento a fatti e persone è puramente casuale.»
L'avvertimento è solenne. E severo.

Annuisco estasiata, disposta a giurare sulla mia vita, quella di mio figlio e quella dei miei gatti, che neppure sotto tortura rivelerei mai le sue confidenze, mentre nell'affanno delle emozioni cerco qualcosa di non troppo scontato con cui replicare. La prima cosa che mi viene in mente è quella di chiedergli se ha letto qualcosa di mio. O se sa che anche io scrivo. Ma non ne ho il coraggio. Assolutamente sfrontata quando scrivo, nella vita reale sono una persona piuttosto timida.
La domanda che invece gli pongo è: «Gabriel...perché proprio io? »

« Perché lei, senora, ama esprimersi nel tempo verbale dell'imperfetto, e non riesce a correggersi. Non può farne a meno, perché l'imperfetto è un tempo mentale incerto, non ben definito, che provoca disordine. Un tempo informe, che esprime la durata di un evento ma non stabilisce il momento preciso in cui è accaduto. E' un tempo eterogeneo e instabile. Rappresentativo. Fluttuante, così come sono i ricordi. E i ricordi non necessitano della precisione per essere veri. L'imperfetto è il tempo di chi parla coi morti: è l'imperfetto che mi ha portato a lei.»

Queste rivelazioni, fatte in modo garbato, educata ironia e un meraviglioso accento spagnolo, mi hanno gettato nel caos più eccitante.
Come faccio a pensare se fatico perfino a respirare?
Il mio dio è sceso sulla terra, mi ha parlato, ha perfino letto i miei racconti.

Un breve attimo di silenzio, quello che precede l'imminente congedo, mentre ci si prepara ai saluti.
Frasi ovvie, di circostanza. Ma lui è Gabriel Garcia Marquez, un uomo fuori dal comune, e così ancora mi sorprende: «La prossima volta mi piacerebbe avere una sua opinione sul mio nuovo romanzo. La trama un po' la riguarda: è la storia di una donna che parla coi morti e racconta di loro nel tempo dell'imperfetto. Ci vede qualche analogia con lei?» Ride del mio stupore. Una risata genuina. Cordiale. Nessuna presa in giro quando mi dice: «La mia ispirazione l'ho appena trovata, sono sicuro che anche lei troverà la sua.»

 «Mi perdoni, Gabriel, ma lei come può scrivere se è...» Non termino la frase perché risuonerebbe ingiuriosa come una bestemmia.

 «Come faccio a scrivere se sono morto?» Conclude per me con un sorriso, che se non posso vedere posso però intuire «Perché il destino di uno scrittore è continuare a scrivere. Per sempre.»

martedì 12 maggio 2020

Rebecca (cap.19)


L'UOMO DELLE FORESTE
Giovanni Basile era figlio di Saro, un oscuro calzolaio che aveva inutilmente tentato, come tanti, la fortuna in terra d'America, prima a New York poi a Detroit. Nel frattempo mise su su famiglia con Elsie, una giovane indiana di etnia Pueblo che morì di setticemia poco dopo aver dato alla luce suo figlio. La mancanza di lavoro, e le difficoltà ad allevare da solo il bambino, indussero Saro a tornare nel borgo natio di Terrasini, nell'entroterra di Palermo. Giovanni fu allevato con riluttanza dai nonni che non gli riconoscevano, per via della madre indigena e non cristiana, l'appartenenza al loro stesso ceppo, e crebbe quasi misconosciuto allo stesso  Saro che, trasferitosi a Catania con la sua  nuova famiglia, lo aveva lasciato alle loro cure. La nonna lo nutrì di un affetto aspro e frettoloso. Era già avanti con gli anni quando Saro le aveva messo tra le braccia quel fantolino dalla pelle di terracotta, i capelli lisci e gli occhi a mandorla, così diverso da tutti gli altri suoi nipoti, riccioluti e con gli occhi tondi. Il nonno, quel piccolo straniero, che portava il suo stesso nome, non lo respinse ma si limitò a trattarlo con la cortesia dovuta all'ospite. Con gli anni, però, le distanze fra loro s'erano accorciate: uniti dalla passione per la pesca e per il silenzio, si riscoprirono consanguinei. Seduti sullo stesso ciottolo, le gambe immerse nell'acqua, erano un tutt'uno, senza bisogno di parlarsi.

«Te vogghiu beni, abbrazzami.» Gli disse il nonno prima di morire.
Era la prima volta che glielo diceva Era anche la prima volta che gli chiedeva qualcosa.
Giovanni si stese nel letto accanto a lui e lo strinse fra le braccia.
Fu quello il loro primo abbraccio. E quella la loro ultima battuta di pesca.
Il vecchio gli aveva lasciato in eredità, oltre la dichiarazione del suo affetto, anche una piccola somma di denaro che Giovanni spese per intraprendere il suo primo viaggio in America, nel Michigan, sulle orme della madre. Ma l'unica traccia che trovò di lei fu una lapide disadorna e dimenticata. Nemmeno una fotografia, o il ricordo di qualcuno che l'avesse conosciuta: di Elsie, il mondo aveva perso la memoria. Ma l' America lo attraeva coi suoi cieli enormi sotto cui anche il più sconfinato dei paesaggi rimpiccioliva alla dimensione di una cartolina. Sotto quei cieli immensi e deserti si sentiva al sicuro. Decise di rimanere. Iniziò una vita nomade e frastagliata, continuamente interrotta e continuamente ripresa, secondo il suo umore e i suoi bisogni. Non aveva legami fissi e neppure li cercava. Non aveva particolari esigenze personali se non quelle di una presa di tabacco. Si spostava continuamente da uno stato all'altro, libero di scegliere se dormire in una stanza al coperto o all'addiaccio sotto le stelle. Non aveva un progetto esistenziale, viveva di piccoli lavori temporanei e non impegnativi, poiché non era alla stabilità economica che mirava ma alla libertà, che intendeva a largo raggio.
Niente legami. Niente contratti. Nessun vincolo.
In virtù di questo accettò l'incarico di aiutante sul campo di Albert Young, un giovane, intraprendente biologo che s'apprestava a mappare tutte le specie, vecchie e nuove, delle formiche predatrici nella foresta di Semuc Champey in Guatemala, per ottenere finanziamenti per un suo rivoluzionario progetto nell'ambito della genetica.
«Quello che le offro, Giovanni, è un  lavoro faticoso e certosino, in un ambiente caldo-umido, difficile. La paga non è gran ché ma il panorama è mozzafiato.» Lo irretì il biologo, e lui consapevolmente si lasciò irretire. E non se ne pentì mai: Albert Young era stato di parola, perché il paesaggio era quello verde smeraldo di un mondo impenetrabile, nebbioso ed incantato, del quale immediatamente s'innamorò. Ad incarico ultimato, con il compenso ricevuto comprò un cavallo, si lasciò crescere i capelli che legò in una treccia, e iniziò la vita da esploratore delle grandi foreste pluviali del centro America, dal Belize a Panama. Si guadagnava da vivere come guida per chiunque fosse interessato a scoprire i  segreti e gli splendori di quei paesaggi grezzi, ancora selvaggi ed incontaminati.
Albert Young, che quei finanziamenti aveva poi ottenuti, non si dimenticò di lui, e provvide a fargli avere un extra sul compenso pattuito, riconoscendogli pubblicamente in un intervista rilasciata a "La Hora" il quotidiano più diffuso nella capitale Città del Guatemala, un ruolo fondamentale nel successo della sua impres: per la sua intelligenza pratica, la prodigiosa memoria visiva, lo straordinario senso d'orientamento, l'audacia temperata dal buon senso. Doti che nel loro soggiorno nella foresta di Semuc Champeny li avevano tratti d'impaccio da alcune situazioni rischiose.
Quella pubblicità gli procurò fama e clienti, trasformandolo in un personaggio da film.
Fu così che nacque  "l'uomo delle foreste".


STORIA DI UN'AMICIZIA
Concetto Scalavino, già affermato nel settore del legname, aveva saputo di Giovanni Basile da un articolo nel "Giornale di Sicilia", dove il botanico Guglielmo Gaudio raccontava il suo soggiorno nella foresta umida di Sierra de las Minas in Guatemala, esaltando la pregiatissima qualità e la prodigiosa varietà delle specie degli alberi presenti "pini, ebani, cipressi, querce e abeti, alti come torri e solenni come cattedrali" Nell'ultima parte dell'articolo, lo studioso menzionava l'italiano come la straordinaria guida che lo aveva protetto dalle nebulose insidie della foresta, "perché anche le foreste, come tutte le creature viventi, hanno un'anima esterna, fluttuante e luminosa, ed una interna, più fitta e buia"


Espandere, ma anche differenziare la sua azienda nel mercato del legname, era stato per Concetto Scalavino, fin dagli inizi della sua attività imprenditoriale, il traguardo prefissato, non solo per un fattore economico ma anche, e soprattutto, per esaudire la sua passione per l'arte dell'ebanisteria.
Quell'articolo sul "Giornale di Sicilia" era stato per lui illuminante, fortificandolo nei suoi progetti di espansione aziendale. Dalle foreste del centro America avrebbe importato il legname più pregiato per i maestri ebanisti siciliani, e di quelli oltre confine. Sarebbe stata l'eccellenza del suo prodotto a giustificarne i costi  elevati: la differenziazione, il salto di qualità che gli avrebbe permesso, se non il monopolio nel settore, di sicuro il predominio.
S'imbarcò alla volta del Guatemala, nonostante la sua predisposizione al mal di mare e la sua scarsa propensione ai viaggi, con l'intento di convincere "l'uomo delle foreste" a lavorare per lui. Un tentativo andato a vuoto, che gli riuscì  solo quando Giovanni Basile, ammalatosi di febbre gialla, dovette rinunciare al suo lavoro di guida perché l'ambiente delle foreste gli era diventato ostile. Tornato in Sicilia per il periodo della convalescenza, Concetto Scalavino gli rinnovò la sua offerta di arruolamento, e questa volta Vanni accettò.
«Non voglio un ufficio, non intendo occuparmi di scartoffie. Il mio lavoro lo svolgo all'aria aperta, nei miei tempi e nei miei modi.» Fu la prima richiesta di Giovanni Basile alla firma del contratto. Concetto Scalavino non si oppose a questa come a nessun'altra delle sue condizioni.
In realtà di un ufficio Giovanni Basile non aveva affatto bisogno visto che il suo compito era quello di visitare le piantagioni di alberi dell'America centrale e selezionare il legname da esportare, mentre delle pratiche e dei contratti  se ne sarebbe occupata la rappresentanza della "Scalavino Timber Exported "a Città del Guatemala.
Un sodalizio, il loro, che s'era trasformato nel corso degli anni in un'amicizia ruvida ed onesta. Un'amicizia alla distanza ma più solida di quelle a stretto contatto, perché necessitava di una fiducia illimitata nel reciproco operato, vista l'impossibilità delle verifiche sul campo e in tempo reale.

Al momento dei fatti Giovanni Basile era tornato in Sicilia per comunicare a Concetto Scalavino la sua intenzione di lasciare il lavoro ed imbarcarsi per l'Argentina dove avrebbe messo su un allevamento di cavalli e, se non era troppo tardi, anche famiglia. Gli avrebbe dato il tempo, però, di trovare un sostituto. Lui stesso avrebbe potuto proporgli dei nomi e provvedere, prima della partenza, a tornare in Guatemala ed espletare in sua vece tutte le formalità.
La vita nomade lo aveva deteriorato. Era stanco. La solitudine l'opprimeva e il silenzio lo immalinconiva. La sensazione di fluttuare nel vuoto lo induceva ad ancorarsi al suolo. Consapevole della sua impotenza a gestire quel suo malessere, iniziò a soffrire d'insonnia. Passava la notte a rigirarsi nel letto in preda ad un'oscura angoscia che neppure la presa di tabacco, fortificata dall'hashish, rendeva sopportabile
...ma lo stato critico in cui versava l'amico lo indusse a tacere sui suoi propositi e a rimandare la partenza.

continua...

martedì 5 maggio 2020

Rebecca (Cap.18)




UN UOMO SULL'ORLO DI UNA CRISI DI NERVI
La morte di Mimì Messinese aveva gettato Concetto Scalavino in uno stato di depressione profonda, a cui in maniera determinante avevano contribuito il forzato isolamento, la mancanza di notizie esterne, e la tanto attesa visita di Giandomenico, che seppur non programmata, sarebbe stata opportuna per definire la consegna del mogano per il mobilio di papa Leone XIII, nel caso che Mimì non avesse fatto in tempo a riferirgli i dettagli stabiliti, a tal proposito, con lui nella sua ultima visita.
Al ricordo di Mimì gli occhi gli si inumidivano: rivedeva l'amico seduto al suo capezzale col bicchiere di acqua e zammù fra le mani, e imponeva alla sua mente l'enorme sforzo di ricordare tutte le  parole da lui dette e visualizzarne i gesti, in un estremo tentativo di capire se già v'erano le avvisaglie di quella sua morte imminente, e se lui, scorgendole, avrebbe forse potuto impedire. Ma per quanti sforzi facesse non balenava nella sua testa nessun particolare di rilievo, nessuna stonatura percepita. Non c'era stato nessun preavviso. Era il Mimì di sempre, timido e goffo, forse solo un po' stanco...ecco... si...gli era parso stanco, e a rifletterci bene anche assente, come se la sua mente fosse altrove. E anche la sua visita era stata piuttosto breve
...ma se qualcuno gli avesse detto che era lui il soggetto dell'ansia di Mimì Messinese, causa della sua morte, e che era proprio da lui che aveva fretta di allontanarsi per paura di cadere di nuovo nei suoi tranelli psicologici e motivo di attrito con il figlio, non l'avrebbe creduto vero, imputando questa  malevola considerazione alle invidie per quel loro futuro apparentamento, dove l'arte sposava la bellezza. E neppure avrebbe creduto che quella ignobile diceria fosse lo stesso Giandomenico spietatamente ad imputargliela, e senza possibilità di appello.
Ma ancor meno avrebbe ritenuto possibile che a schierarsi in sua difesa fosse proprio Rebecca, la sua figlia ribelle.

Confinato nella sua camera da letto ignorava ciò che all'esterno accadeva, e la costrizione all'immobilità lo rendeva, secondo il caso, irascibile o taciturno. E sospettoso.
Immaginava scenari oscuri. Ostili. E sempre più andava prendendo forma nella sua mente l'ipotesi di un complotto ordito alle sue spalle e con la complicità di tutti: l'inconsapevole moglie; le due figlie ribelli; il dottore che lo aveva relegato in quel letto; la governante, alla quale, senza davvero conoscerla, aveva affidato la sua casa e la  sua famiglia.
Aveva sbagliato a fidarsi di lei, anche se in quella sua particolare situazione non aveva avuto scelta.

«Stai diventando paranoico, Nino, non c'è nessun complotto ai tuoi danni. A quale fine poi? Ma se nutri dei dubbi sulla tua governante puoi sempre mandarla via!» Era esploso, Giovanni Basile, al culmine dell'esasperazione, dopo l' ennesima reiterazione, da parte del mercante, dei suoi sospetti nei riguardi di Brigida Catalano.

 «E' quello che intendo fare...ma prima la inchioderò alle sue responsabilità. Nel frattempo vorrei che tu consegnassi a Mimì Messinese una mia lettera. Devi darla a lui personalmente.»

«Mimì Messinese è morto, forse intendevi Giandomenico.» Lo aveva corretto Giovanni Basile, preoccupato dello stato di agitazione emotiva in cui l'altro versava. «Ma proprio dalla famiglia Messinese ero venuto a parlarti, perché ho ricevuto questa mattina la visita di Giovanni, il figlio maggiore, in veste di neo amministratore, per rescindere il contratto con la nostra azienda. Ne sapevi niente?»

Concetto Scalavino a quella notizia s'era fatto di ghiaccio. A stento aveva ritrovato la voce per  dire: «Non ho più avuto contatti con nessuno di loro dal giorno della morte di Mimì.» E subito dopo, con feroce ironia, aveva aggiunto: «Sei ancora convinto che non si trami alle mie spalle?»

«Il nuovo amministratore ha valutato scelte diverse, tra cui quella di voler pagare la fornitura del mogano di cui avevi fatto dono a Giandomenico per i suoi lavori a Roma, ma che invece, secondo le testuali parole del neo amministratore "verrà data in beneficenza, in nome di Carmine Messinese (Mimì), al Comune della città affinché ne disponga come legname per le bare dei poveri" Questo più che un complotto ha l'aria di un affronto, e da subire, per le  sue modalità, in silenzio.»

Concetto Scalavino, era terribilmente impallidito, affannato, in carenza di aria e di voce, aveva tentato di tirarsi fuori da letto, ma Vanni Basile era stato pronto a trattenerlo.

«Non fare stupidaggini, Nino. Manteniamo la lucidità e cerchiamo di  scoprire i motivi dell'affronto. Non è una faccenda difficile da venirne a capo, ma devo sapere cosa è realmente accaduto fra voi dal momento che tu  sospetti un complotto.» Aveva detto cercando di tranquillizzarlo.

Concetto Scalavino gli aveva raccontato dei progetti suoi e di Mimì Messinese riguardo al matrimonio, non ancora formalizzato, dei loro figli, Rebecca e Giandomenico. «Cosa quasi fatta... se Mimì non fosse morto.» Aveva sospirato affranto.

Giovanni Basile, a quest'ultima affermazione aveva sorriso: «Cosa quasi fatta non significa compiuta.» E poi in tono ironico aveva chiesto: «Chi dei due promessi sposi non era d'accordo su questo matrimonio?»

«Mia figlia, Rebecca.»

«Ne conosci il motivo?»

«Il motivo? E' una bastian contraria, con idee anarchiche. Colpa della madre che non si è mai curata di impartirle la buona educazione e il giusto rispetto.»

«Le altre tue figlie non ti hanno mai creato problemi?»

 «Nessuna di loro.»

«Eppure la madre è la stessa.»

«Certo che è la stessa!» Aveva risposto piccato lo Scalavino: «Dove vuoi arrivare?» Aveva domandato sospettoso


«A farti riflettere che la medesima cosa non funziona per tutti alla stessa maniera: le altre tue figlie hanno accettato le tue decisioni, magari non erano d'accordo ma non le hanno contrastate, piegandosi ad una volontà, la tua, per loro superiore e indiscutibile, che la tua ultimogenita, invece, non ha riconosciuto  e messo in discussione.»

«Un padre sa sempre cosa è bene per i figli.»

Giovanni Basile aveva sorriso di quell'affermazione dettata dalla sicumera: «Dammi quella lettera: sarà il pretesto per la mia visita alla famiglia Messinese.» Ma subito dopo aveva aggiunto: «Prima, però, parlerò con tua figlia.»

Il mercante, dapprima stupito s'era poi incollerito:« Perché devi parlare con lei? Hai bisogno di una convalida alle mie parole? »

«Ho bisogno della sua versione.»

«...la sua versione.» Gli aveva fatto eco il mercante. «La necessità di una conferma al mio racconto sminuirà la mia autorevolezza.»

«Al contrario, accettando il confronto potresti uscirne rafforzato. Ad ogni modo la tua autorevolezza è già stata messa in discussione, segno evidente che il tuo metodo non ha funzionato. Proviamo col mio. Fidati di me e dammi quella lettera.»

«Mi pare che io non abbia altra scelta.» Aveva ribadito in tono sconsolato Concetto Scalavino, frugando con la mano sotto il cuscino. «Non c'è!» Aveva esclamato furioso, dopo che la sua ricerca s'era rivelata infruttuosa.

«Forse è scivolata nel fondo.» Giovanni Basile aveva esplorato nelle cavità del guanciale e nei meandri del letto, ma della lettera non v'era traccia.

«L'ha presa lei, la governante, mentre dormivo.» Aveva ribadito con forza. «Insieme al resto della corrispondenza.»

«Come fai ad asserirlo con questa certezza? Potrebbe essere stata Rebecca?»

Concetto Scalvino, a quell'ipotesi, aveva scosso la testa: «Lei non l'avrebbe mai fatto.»