Dedico questo blog a mia madre, meravigliosa farfalla dalle ali scure e dal cuore buio, totalmente priva del senso del volo e dell'orientamento e, per questo, paurosa del cielo aperto. Nevrotica. Elusiva. Inafferrabile.

martedì 16 maggio 2023

La straordinaria avventura di Mauricio Duarte a Sponge Island

 


 Sponge Island

Quando Mauricio Duarte approdò su quel lembo di spiaggia ocra e cobalto, capì che il suo destino era compiuto e che nessun mezzo di terra, di aria e ancor meno di mare, lo avrebbe riportato al punto di partenza, e verso cui, neppure, vi avrebbe voluto far ritorno.
E al diavolo i rimorsi e i rimpianti, perché tutto quello che era stato nella vita passata non avrebbe mai potuto cancellarlo, ma con un po' di fantasia avrebbe però potuto ripensarlo in termini diversi, e più consoni, alla sua nuova ipotesi esistenziale. E d'immaginazione, di cui  Mauricio Duarte di certo non difettava essendo un romanziere, anche se più noto ai lettori di gossip che di narrativa.
Con un breve sguardo abbracciò il piatto paesaggio di acqua e di sabbia e sorrise soddisfatto di trovarsi completamente allo scoperto, visibile agli occhi di Dio e degli uomini, perché non c'è modo migliore di rendersi invisibili quanto quello di mostrarsi.
Pagò il prezzo pattuito al marinaio che lo aveva fin lì traghettato e, in aggiunta alla stretta di mano, lo elargì di una generosa mancia, che quello accettò con un largo sorriso.
Rimasto solo si tolse le scarpe e la giacca, e dopo essersi rimboccato le maniche della camicia, si sedette sulla sabbia a guardare l'orizzonte attraverso le lenti scure dei suoi occhiali da turista e, nell'attesa che quel lembo di mondo prendesse vita, s'accese una sigaretta.

«Dovete spegnere la sigaretta, sulla spiaggia vige il divieto di fumo. Non avete visto il cartello?»

La voce alle spalle lo fece sobbalzare. Si voltò verso la donna che lo aveva redarguito e, con un sorriso innocente, s'accinse a spegnere la sigaretta nella sabbia, ma lei, impaziente, lo ammonì di nuovo: «Spegnetela qui» Disse porgendogli una scatolina a forma di conchiglia. 
Mauricio, dopo aver deposto la sigaretta nel contenitore, alzò le mani in segno di resa: «Chiedo scusa, non ho visto il cartello».

La donna, da sotto il turbante multicolor, obiettò con un ironico: «Già» e dopo aver riposto la scatolina in una capace sacca di tela, s'allontanò senza neppure salutarlo.

«La ringrazio per il caloroso benvenuto» Le gridò dietro, in tono scherzoso, Mauricio.

Ma lei non si girò neppure.

La vide allontanarsi lungo il bagnasciuga; la gonna rossa avvoltolata  sulle generose cosce brune, e la sacca penzolante dalla spalla.

Qualche chilo di meno e sarebbe una donna strepitosa, pensò Duarte nell'osservarla allontanarsi.

«Quella è Yara, il nume tutelare dell'Isola. Io, invece, sono Anita...Anita e basta». La ragazza precisò porgendogli  la mano  con un sorriso amichevole. Dopo di che s'era seduta accanto a lui: «Benvenuto a Sponge Island» aggiunse con divertito sarcasmo.

«Piacere di conoscerla, Anita Io sono Mauricio Duarte». Nel presentarsi s'era tolto gli occhiali, curioso di vedere se il suo nome da vip producesse su di lei un qualche effetto. Ma la ragazza si limitò ad un cenno del capo e ad un sorriso. 

 «Siete qui per turismo, per devozione o per affari?» Domandò lei curiosa.

«Niente di tutto questo: sono qui per restare». Mauricio aveva risposto inforcando gli occhiali per studiare con più agio, e senza darlo a vedere, la ragazza che, decisamente, non rientrava nei suoi standard di bellezza femminile. Troppo pallida, troppo esile, quasi androgina, mentre lui prediligeva le donne brune e formose, quelle con le curve e le rientranze giuste.

«Davvero avete intenzione di rimanere qui?» La genuina sorpresa nella voce di Anita lo colpì in maniera diretta.  «Cosa avete commesso di così riprovevole per scontare una simile punizione?»

Il tono era scherzoso, ma solo all'apparenza, tanto che Mauricio, per rassicurare se stesso, si sentì in dovere di replicare: «Punizione? C'è il mare, il sole e bellissime donne.» Quest'ultima frase non era nei riguardi di Anita, ma pensò che fosse doveroso includere anche lei nell'ancora inesplorata fauna femminile dell'isola, gratificandola di uno sguardo insolente, da intenditore.

«Se lo dici tu!» Esclamò lei ridendo e dandogli del tu, prima di accomiatarsi con un sospiro di rammarico: «Devo proprio andare. E' stato un piacere conoscerti, Mauricio.»

«Piacere tutto mio, Anita.» S'era alzato per salutarla. «Ad ogni modo ci si rivede.»

«Sicuro.» Aveva confermato la ragazza .

Al primo affaccio, nel riquadro della finestra, un paesaggio fauves

Sponge Island propagava, nella luce meridiana, sullo sfondo cobalto e ocra, compatto e privo di sfumature, come sulla tela di un dipinto fauves. Mauricio Duarte, affacciato alla finestra della sua stanza del "Long Beach Hotels", alla vista di quel paesaggio fu quasi sopraffatto da un mancamento, col cuore che gli batteva pesante in petto, e un senso furioso di vertigine. A stento riuscì a ritrarsi dalla finestra, lottando con un'improvvisa fame d'aria e la conseguente sensazione d'asfissia. In qualche modo si riprese, rassicurato dall'interno anonimo della stanza, ma quella sensazione, forse meglio definirla emozione, fino a quel momento sconosciuta, lo aveva lasciato tremante. Disorientato e dissociato da se stesso. Lottando contro l'oscura fascinazione che ancora lo pervadeva, tirò i tendaggi per oscurare il paesaggio. Sedette sul divano con lo sguardo fisso sulle pareti rassicuranti della camera. Questo contribuì a riscuoterlo e collocarlo nella realtà. Andò in bagno e con una salvietta spugnò d'acqua fredda la fronte. Provò sollievo e, al ritrovato se stesso nello specchio, confidò, con incerta spavalderia: «un banale attacco di panico, vecchio mio». E dopo essersi calcato il panama in testa, strizzando l'occhio alla sua immagine, esclamò: niente che non si possa neutralizzare con una sana bevuta e una bella donna!

Al "Barrier", prove di cittadinanza

Il paesaggio, che sul far della sera s'era andato man mano scolorendosi, confondendo mare e sabbia in un' unica tavolozza antracite a cui una fievole luna disdegnava dar luce, e solo lo svogliato sciabordio delle onde lasciava intuire l'esiguo confine tra l'elemento marino e quello terrestre, non produsse alcun effetto alienante su Mauricio Duarte che, da parte sua, aveva già accantonato l'esperienza del pomeriggio etichettandola come attacco di panico, e nel frattempo predisponendosi ad una serata esplorativa della fauna femminile dell'isola.
Si lasciò guidare dall'insegna al neon "Barrier", che lampeggiava ad intermittenza, rossa e verde, come un semaforo notturno, sul frontale di un basso edificio. Spinse la porta e si ritrovò in un locale ampio, lindo, disadorno e deserto, tranne per le presenze di un ragazzo dietro il bancone e di un paio d'avventori che parlavano fitto tra di loro, nel rumoroso sottofondo di "Good Time" degli Chic propagata da un juke box. Duarte entrò dopo aver gettato un'occhiata sconfortata al locale.

«Dove sono finiti tutti...c'è il coprifuoco?» Domandò, cercando d'imprimere alla sua voce un'allegra nota di stupore ma che, invece, risuonò vagamente ansiosa

«Turista, eh?» Bofonchiò, con una risatina di sarcasmo, uno degli avventori. 

 «No, sono qui per restare.» Rispose Mauricio avvicinandosi al bancone. 

Con un gesto della mano fece segno al barista di riempire i bicchieri, ma il ragazzo lo aveva prevenuto: «Questo giro lo offre la casa, in segno di benvenuto.»

L'avventore che aveva parlato per primo s'era diretto al jukebox e dopo aver  selezionato "Sunshine Day" degli Osibisa, era tornato verso il bancone. Era un tipo asciutto, con la faccia piena di rughe, da pescatore. 

«Perché vuole restare?» Domandò a Duarte, guardandolo incuriosito.

«Già...perché? » Gli aveva fatto eco il secondo avventore, forse parente dell'altro, perché si somigliavano.

«Mi sembra un buon posto dove potersi fermare.»  Duarte, fece cenno al barista di versare un secondo bicchiere.

«Mi spiace signore, ma l'ora della mescita è terminata. Dopo il tramonto, sull'isola, non si servono più liquori di alcun tipo.» Disse il ragazzo chiudendo la bottiglia e riponendola sullo scaffale.

«Ok, allora dammene una a portar via. Me la berrò in solitudine.» Mauricio sospirò teatralmente, cercando con un'occhiata la complicità degli altri due ma ricavandone, invece, solo una smorfia di disappunto.

«Non è possibile neppure l'asporto.» Obiettò il barista, in tono dispiaciuto.

«Ma a chi vuoi  che importi, non c'è nessuno  a controllare!|» Esclamò, e poi indicando i due uomini aggiunse in tono scherzoso: «A meno che non facciate la spia». Rise.
I due si limitarono ad una scrollata di spalle, guardandolo senza simpatia.

«Niente da fare, signore. Non vogliamo noie di nessun tipo: le leggi, sull'isola, si rispettano». Concluse il ragazzo in tono gentile ma deciso, che non ammetteva repliche.

I due avventori avevano ripreso a parlottare fra loro, ignorandolo, e a Duarte non rimase che inforcare la porta e poi la strada del ritorno.

Le coltivatrici di spugne

Attirato dalla luce della prima mattina, Mauricio, memore delle sensazioni respingenti della sera prima, s'avvicinò con cautela alla finestra che s'apriva sul vasto, piatto paesaggio di sabbia ed acqua,  visibilmente alienata dalla bassa marea del mattino, e dalle cui secche emergevano busti femminili con le teste protette dal sole, a quell'ora già dirompente, da grandi cappelli di paglia o da ampi fazzoletti, munite di maschere da snorkeling e boccagli, ognuna intenta ad armeggiare in silenzio, con reti e secchi, nel proprio appezzamento d'acqua delimitato da boe e funi. Il paesaggio animato non lo respinse come era accaduto nel pomeriggio precedente anche se, a dire il vero, era solo l'oceano ad essere movimentato dalle donne immerse, che la spiaggia, invece, risultava deserta. Anche il porto, posizionato qualche chilometro più avanti, con i pescherecci attraccati a riposo al rientro della pesca notturna, e le piccole imbarcazioni diurne che scivolavano silenziose sul dorso sottile delle onde a prendere il largo, sembrava deserto. I richiami dei marinai atti alla loro quotidianità, giungevano impaludati in una muta eco marina, con le voci roche attutite e smorzate dall'aria che andava velocemente scaldandosi. Tra i copricapi femminili di diversa foggia e colore, alcuni perfino deliziosamente strambi, riconobbe il turbante multicolor di Yara, intenta con movimenti lenti ed armoniosi, (acquatici, aveva pensato Mauricio nell'osservarla) ad armeggiare tra le boe e le funi, sparire con la fiocina sott'acqua ed emergerne con prede incolori  cautamente poste a dimora in una borsa di rete. Ad ogni movimento di Yara, i lembi della sua gonna rossa tingevano di fiamma il blu cobalto dell'acqua, mentre il seno generoso si disegnava, bruno e sodo, attraverso la tela bianca della camicetta bagnata, esercitando un sensuale, muto richiamo di sirena che lo indusse a scendere in spiaggia per tentare un approccio con la sensuale dea, il nume tutelare dell'isola, così come l'aveva definita l'incolore Anita.
Indossò il panama e gli occhiali, e dopo una rapida occhiata di approvazione allo specchio, uscì.

Jukebox mania 

La hall era deserta, non c'era nessuno, nemmeno il portiere, ma da qualche spiraglio dell'etere s'erano insinuate le note vivaci  di "Happy Days" di Pratt e McClain
Sembra che qui imperversi la mania dei juke box e delle allegre canzoni da hit, si ritrovò a riflettere Mauricio, scorgendo l'apparecchio dietro la reception. Sorrise di questa che gli sembrava una buffa fissazione degli isolani, ed uscì in spiaggia.
Ragazzini si rincorrevano sulla spiaggia mettendo a rischio l'ambulante che con fatica trainava, nella sabbia, il suo banchetto di frutta fresca e granite. Un nutrito gruppo di turisti, (tedeschi, ipotizzò Duarte), vestiti con bermuda e camice hawaiane e muniti di cellulari scattavano foto, entusiasti e rumorosi, si davano grandi pacche sulle spalle..
...ma la spiaggia, intravista dal riquadro del "Long Beach Hotels" non era quella!
Dove sono finite le coltivatrici di spugne? Duarte s chiese, smarrito, davanti a quell'ordinario panorama acquatico increspato di onde e di bagnanti.

«Dove sono finite le coltivatrici di spugne?» Domandò al barman intento ad asciugare bicchieri dietro al bancone del "Barrier".

«Quali coltivatrici di spugne?» Gli fece eco una voce incuriosita alle sue spalle.

 Si girò e riconobbe uno dei due avventori della sera precedente. 

«Le ho viste affacciandomi alla finestra del "Long Beach Hotels" dove alloggio. Tra loro c'era anche Yara...la conoscerete di certo Yara, la dea dell'isola». Esclamò incerto davanti allo sguardo perplesso dei due.


«Di cosa farneticate, amico?  Yara è morta e qui non si coltivano spugne da almeno un decennio, vi sarete lasciato influenzare dal nome dell'isola o, molto più probabilmente, da qualche drink di troppo». Obiettò l'uomo, guardandolo severo.

«Nessun drink. Neppure un goccio. Come avrei potuto ubriacarmi dal momento che su questa dannata isola esistono solo divieti?». Domandò sarcastico, e vagamente minaccioso, Duarte.

L'altro, raccogliendo il tono poco amichevole, gli si era fatto sotto, ma intervenne il barman a prevenire una probabile, inopportuna discussione.

«Niente risse qui!» S'intromise perentorio.

«Temi che si spaventino i clienti?» Domandò Duarte, indicando con disprezzo il locale vuoto

«Niente risse!» Ripeté il ragazzo.

«Ok...niente risse, allora riempi il bicchiere con qualcosa di forte. O c'è ancora il coprifuoco?»

«Niente da fare, siete troppo su di giri, e non sarebbe salutare né per voi, né per noi, un'ubriacatura. A me toglierebbero la licenza e voi finireste in gattabuia». Obiettò, stavolta in tono più conciliante, il barman.

«...e scommetto che anche lì ci troverei un juke box che suona briose canzoncine di benvenuto». Lo irrise Duarte, prima di andarsene.

Anita

«Mauricio...ehy, Mauricio, ti ricordi di me? Anita...»
Lui s'era voltato sorridendo: «Certo che mi ricordo di te, Anita, l'unica persona non ostile su quest'isola». Declamò, teatrale, Mauricio.
Lei aveva riso, prendendolo sottobraccio.
Indossava un cappellino blu con visiera e un prendisole rosso dai disegni minuti.
Sembrava molto giovane, ma anche molto sicura di sé. 

«Immagino ti riferisca agli isolani. Non badarci. Sono gelosi della loro isola e non amano troppo i turisti. Ma hanno bisogno di loro per sopravvivere. La fragile economia di questo luogo è legata ad un eco sistema molto vulnerabile..» s'interruppe indicando, con un gesto vago, il paesaggio «qui è tutto così...evanescente... per questo ci sono tanti divieti, per non...».

«...per non indurre nessuno a restare?» La interruppe lui con una smorfia divertita. Ma il tono era serio.

«Probabile». Assentì lei, ridendo. 

Il sole picchiava forte e il suo bagliore incandescente penetrava la schermatura scura degli occhiali.
In cerca di ristoro sedettero sotto un porticato che ombreggiava una fila di cabine in muratura, bianche e azzurre, e al momento disabitate. In un angolo campeggiavano un jukebox e un flipper.

Brevemente le raccontò lo scambio di battute avute con i due avventori del "Barrier", a proposito di Yara e delle coltivatrici di spugne.

«Io le ho viste, quando mi sono affacciato alla finestra della mia camera d'albergo, c'erano tutte queste donne in acqua intente al loro lavoro. C'era anche Yara». Disse, senza preamboli, Mauricio Duarte. Il tono era quello di un'affermazione netta che, per sicumera o per timore, non contempla smentite. 

«Yara è morta, e le spugne non si allevano più da circa dieci anni». Disse Anita, in tono incolore, confermando la veridicità dell'informazione.

«Come può essere morta se l'abbiamo incontrata ieri su questa spiaggia? Ci ho parlato e l'hai vista anche tu!» Esclamò stizzito, togliendosi gli occhiali per meglio valutare le reazioni della ragazza che si limitò, invece, ad un sorriso pensieroso.

«Yara è morta» Ripeté lei paziente «Ma questo non significa che tu...anzi, noi, non la posiamo vedere».

Duarte la guardò perplesso e poi feroce, stringendola malamente per un polso: «Mi stai prendendo in giro?»  

Anita, da quella stretta, cercò di liberarsi «Mi stai facendo male» Lo disse senza alcuna ostilità, come se volesse renderlo consapevole di un danno involontario che andava perpetrando nei suoi confronti.

Lui lasciò la presa: «Se provi dolore significa che sei viva». Rispose beffardo

«Non necessariamente chi prova dolore è vivo, ma si, io sono viva, almeno quanto te». S'era tolta gli occhiali e attraverso il tavolo gli tese la mano, ma Mauricio, deliberatamente ignorò il gesto.

«E le allevatrici di spugne? Anche loro morte?»

«Non tutte, solo quelle che hai visto. Intendo dire che non tutte le coltivatrici di spugne sono morte, ce ne sono ancora sull'isola, ma è un'attività che non si pratica più».

Mauricio scosse la testa: «Non credo a niente di quello che hai detto».

«Posso dimostrarlo». Anita s'era alzata ma lui era rimasto al suo posto.

«Non voglio convincerti di nulla. Voglio solo farti vedere, toccare e capire»

«Cosa fate qui? Depredate i turisti della loro volontà e poi dei loro averi? E' questa l'attività che ha preso il posto del commercio delle spugne?» 

«Vieni con me e capirai» Rispose la ragazza paziente, tendendogli di nuovo la mano.

Quella notte, quando la luna s'allontanò dalla terra

Percorsero il camino a ritroso, senza scambiarsi una parola, finché Anita ruppe il silenzio: « E' accaduto su quest'isola, circa un decennio fa, qualcosa d'inspiegabile. Avvenne una notte, quando una fitta cortina di buio avvolse Sponge Island, totalmente oscurando ogni cosa. Un buio labirintico, impenetrabile, così assoluto da confondere i sensi ed annullare le percezioni. All'inizio si ipotizzò una straordinaria eclissi di luna, ma poi i nostri scienziati convennero fosse dovuto ad un breve, imprevedibile, allontanamento della luna dalla terra. Ma non dall'intero pianeta, perché il blackout coinvolse solo, per qualche manciata di minuti, questa minuscola protuberanza di terra nel Pacifico. Poi...».

Ma Duarte la interruppe scettico: «...se fosse vero quello che tu dici il fenomeno avrebbe avuto risonanza mondiale, non credi? Non si può tener nascosto un evento del genere. Lo avrebbero di sicuro rilevato le postazioni della NASA presenti sul suolo lunare». 

Anita scosse la testa: «Deve essere accaduto qualcosa, in quei minuti che ha escluso dal rilevamento degli eventi la NASA. Non c'è altra spiegazione e, viste le conseguenze che per Sponge Island ne sono derivate, il nostro governo ha pensato bene di mantenere il silenzio su ciò che era accaduto, ma da quella notte, qui, niente è stato più come prima».

«E cos'è accaduto poi di così straordinario su questo fazzoletto di terra? Tranne per il sole assassino che crea scompensi alla vista e alla testa, e procura visioni non reali agli sconsiderati turisti sottomessi a divieti inflessibili, mi sembra che tutto sia nella norma». Obiettò Duarte, scoppiando in una risata forzata.

«Da quella notte, qui, niente è stato più come prima». Proseguì Anita testarda, volutamente ignorando il tono irridente di Mauricio. «Ma ora vedrai con i tuoi occhi, perché siamo giunti a destinazione». Annunciò, fermandosi nello spiazzo del "Barrier".

Ai bordi di una realtà limitrofa

Con sorpresa, Duarte, si accorse della presenza di tavolini e ombrelloni disseminati  nella piazzola del "Barrier", che nelle sue visite precedenti non c'erano. Stava per dirlo ad Anita, ma lei aveva già varcato la soglia. Il locale era gremito, voci estere si sovrapponevano al sottofondo discreto della musica e al tintinnio ghiacciato dei bicchieri. Le pareti erano tappezzate di stampe di Henry Matisse e Andrè Derain,  e, dietro al bancone, campeggiava un grande specchio rettangolare. A servire i clienti, due ragazze brune e formose, distribuivano drink e sorrisi, ricevendo in cambio generose mance, mentre una terza,  vestita di micro shorts e una camicetta annodata sotto il seno, faceva la spola tra i divanetti interni ed i tavoli esterni.

Quando vide Anita la salutò e con un cenno d'intesa le indicò un tavolino appartato, nel fondo del locale dove Duarte, frastornato, la seguì.

«Dove diavolo siamo?» Chiese in tono forzatamente neutro, ma percependo i sintomi dello smarrimento del pomeriggio precedente.

«Al "Barrier"». Rispose lei con naturalezza.


«Non è il "Barrier" dove io sono stato. Non c'erano  tavolini, né quadri e neppure specchi. A dirla breve non c'era niente, tranne un jukebox».

Per tutta risposta, Anita fece un cenno alla cameriera in shorts di avvicinarsi per poi chiederle: «Il mio amico dice che questo non è il "Barrier", per favore, Gracia, puoi confermargli che nei dintorni non c'è un altro locale simile?».

«Non ce ne sono altri, signore, il "Barrier" è l'unico». Confermò la ragazza in tono gentile e poi, in quello professionale domandò se volevano ordinare.

 «Ho bisogno d'aria». Duarte s'alzò di scatto facendo cadere la sedia e s'avviò a precipizio all'uscita. 
Fuori all'aria aperta, lottò contro la sensazione d'asfissia che lo lasciò tremante ed esausto e totalmente disorientato. 

«Ti prego dimmi che non sto diventando pazzo». Mormorò ad Anita che lo aveva raggiunto.

 «Non sei pazzo» Lo rincuorò lei, stringendogli la mano «E' l'effetto che l'isola produce sulle nostre sensazioni. Non su quelle di tutti, ma solo su chi è predisposto. Come me e te. E Yara». Disse Anita indicando la donna che pattugliava la battigia con un retino, ripulendola dalle intemperanze dei turisti.

«E' un fantasma. Un inganno della mente». Duarte, obiettò rancoroso, con un gesto della mano a voler scacciare la visione.

«E' qualcosa di più complesso di un fantasma o di un inganno della mente, e paradossalmente più spiegabile. In realtà Yara non è morta, ma è scivolata nel varco di un universo parallelo. Un passaggio che si è aperto nello spazio-tempo quella notte, quando la luna s'allontanò dalla terra». Tacque, per dar tempo a Duarte di elaborare la spiegazione e fare domande. Ma lui, invece, scoppiò in una risata senza allegria.

«Non sono io il pazzo ma piuttosto voi tutti su quest'isola. Avete orchestrato una combutta per i turisti gonzi...però, di fantasia non difettate...magari mi avvarrò di questa trama per scrivere un romanzo. Confesso che a me non sarebbe mai venuta in mente... ma ultimamente difetto in materia». 

Anita, ignorando il sarcasmo nelle parole di Duarte, proseguì in tono paziente la sua narrazione: «Quella notte una parte di noi venne inghiottita in questo varco, ma non ci rendemmo subito conto di cosa era realmente accaduto, ma il giorno dopo scoprimmo che centinaia di persone erano scomparse. Li cercammo ovunque, scandagliammo per giorni il fondo dell'oceano nonostante la temperatura dell'acqua si fosse elevata di diversi gradi, così come quella dell'aria. Il disastro ambientale fu di proporzioni immani. Molte specie marine, tra cui le spugne, su cui proliferava la nostra economia, si estinsero, e l'aria irrespirabile fece strage tra i fragili e gli anziani. Temendo il terremoto mediatico non demmo notizia dei fatti realmente accaduti quella notte, e attribuendo l'incremento delle temperature ad un drastico, inspiegabile surriscaldamento climatico. Degli scomparsi decretammo la morte, fino al momento in cui alcuni di noi iniziarono a vederli. Vedevamo loro e loro vedevano noi. E a pochi privilegiati, come è accaduto a te per inspiegabili ragioni, perfino d'interagire. Quello che tu hai visto dalla finestra del tuo hotel è una visione di Sponge Island come era prima di quella notte. Quella parte dell'isola, che ora non esiste più, restituita dalla visione dell'universo parallelo che l'ha inglobata. Stessa cosa per la tua esperienza al "Barrier", le persone con le quali tu hai parlato erano tra gli scomparsi. Ma il "Barrier" dove tu sei entrato non esiste più da molto tempo, soppiantato ormai da molti anni dal nuovo "Barrier". Riesci ora mettere a fuoco la differenza tra il prima e il dopo?».

«Prima vivevate in una società basata sui divieti e sulle cen...»

«No, era una società basata su scelte ecologiche consapevoli. Non erano divieti ma modus vivendi acquisiti ed accettati. Turismo selezionato e d'avanguardia. La nostra economia basata sulla sostenibilità ambientale non ammetteva infrangimenti alle regole. Poi, dopo quella notte, tutto è cambiato. Per sopravvivere abbiamo dovuto dar spazio al turismo di massa, accettare compromessi e tutto al ribasso. Anche se le temperature dell'aria e dell'acqua col tempo si sono stabilizzate su valori sopportabili, seppure all'insegna di un caldo desertico, Sponge Island non è più il paradiso terrestre. Non in questo universo, almeno». Concluse sconsolata.

«Il paradiso lo si può concepire in tanti modi, e il vostro, a mio avviso era alquanto noioso. Non sarei mai rimasto nella vecchia Sponge Island e dubito che nessuno lo abbia mai fatto» Ribatté ostile, al solo scopo di contraddirla.

«C'è qualcuno che voglio farti conoscere». Disse lei prendendolo sottobraccio e, senza dargli tempo di replicare, lo stava già guidando lungo il sentierino oltre il "Barrier".


Fernando Rey e  dog Rey

La stradina terminava di netto davanti al cancello di ferro battuto di una grande casa dai muri ocra e le persiane blu cobalto. Un cartello con l'effige minacciosa di un molosso rossiccio, con la bava alla bocca e gli occhi gialli, ordinava perentorio "Andatevene!".  Anita suonò il campanello e dal fondo del vialetto, come una saetta, s'avventò contro il cancello, abbaiando furiosamente, un meticcio di media corporatura, dal pelo arruffato Lo seguiva un uomo alto, stempiato, dall'andatura svogliata e un sigaro all'angolo della bocca. Quando vide Anita, sulla sua faccia comparve un ampio sorriso.

«Buono, Rey. Lei è di famiglia... anche se non la si vede quasi mai da queste parti». Il tono era ironico ma con un fondo di dolcezza.

 «Ciao papà. Hai preso un cane?». Domandò Anita, dandogli un bacio sulla guancia.

«Non è un cane, dog Rey è il mio body guard. Vero, dog Rey?» Sentendosi appellare per nome, il meticcio, dopo aver chiarito con un ultimo minaccioso ringhio che quello era proprio il suo ruolo nei confronti di Fernando, si pose al suo fianco, in silenzio e in vigile attesa.

«E il tuo amico chi è?» 

«Mauricio Duarte». Si presentò Mauricio, tendendogli la mano.

«Fate parte anche voi della consorteria dei nostalgici della vecchia, morigeratissima, Sponge Island?» Squadrò curioso Duarte che scosse la testa stupito: «Non ne so nulla, sono solo di passaggio». 

L'affermazione di Duarte, tra il pavido e l'impacciato, scatenò la brusca  risposta di Anita: «Avevi detto che restavi!»

«Le atmosfere di Sponge Island confondono le idee. Siete saggio a non fare progetti. Soprattutto non ascoltate mia figlia». Lo prevenne divertito Fernando, venendogli in soccorso. 

«Papà!» Esclamò, offesa, Anita.

Dog Rey, cogliendo il disappunto nel tono di Anita, s'intromise con un sordo, minaccioso, sibilo.

Fernando fece accomodare l'ospite nel salotto arieggiato da un'enorme ventilatore a soffitto munito di cinque pale, anche se il refrigerio era dato in massima parte da un più discreto, e meno scenografico, condizionatore. Ma in realtà, Mauricio notò, che tutta la stanza era arredata in maniera sofisticata e molto personale. Non c'era la mano di un architetto ma solo il gusto di Ferrnando Rey.

«A cosa devo l'onore di questa visita?» Aveva aperto lo stipite un fornitissimo mobile bar e, con un gesto della mano, invitato Duarte a servirsene.

«Mauricio, non solo riesce a vedere ma perfino ad interagire con la vecchia Sponge Island. Mi ha descritto il "Barrier" esattamente come era un decennio fa, e non essendo di qui non capisco come possa averlo fatto. E poi ha visto Yara...l'avevo vista anche io, ma lui ci ha anche parlato.» Raccontò Anita, in preda all'euforia.

«Ancora con questa storia, bambina?« Chiese in tono indulgente, scuotendo il capo. E poi, a Duarte, in tono marcatamente scettico: «Dunque, a quanto afferma mia figlia, avete conosciuto Yara. Anita vi ha detto che Yara è morta da un bel po' di anni ormai?»

«Si, me lo ha detto.» Confermò, Duarte a disagio.

«Siete un veggente, Mauricio? Di quelli che affermano di avere rapporti con l'al di là? E cosa davvero avete visto? O sarebbe più corretto chiedervi cosa vi è sembrato di vedere?» Domandò cortese, ma con nel sottofondo una nota di scherno.

«Cosa mi è sembrato di vedere...» Duarte era confuso. Mortifcato.

«Sembrare. Credere. Pensare. Non sono affermativi.» Obiettò, in punta di fioretto, Fernando.

«Papà, smettila! Lo stai volutamente confondendo.» Insorse esasperata Anita.

«No, a questo, ci hai già pensato tu » Replicò sarcastico Fernando. Poi, rivolto al suo ospite, nello stesso tono, confidò «Sono decenni che gira la leggenda di questo fantastico blackout cosmico che avrebbe colpito Sponge Island, e della voragine spazio-temporale, che avrebbe inghiottito, in un universo parallelo, una porzione d'isola coi suoi abitanti. Una fiaba a cui fanatici ecologisti, tra cui mia figlia, pur senza alcuna prova, si ostinano a dar credito.»

«Ecco...appunto... Anita, mi ha raccontato di quella notte, quando la luna si è allontanata dalla terra e...»

Fernando, sconsolato, allargò le braccia: «Mauricio, siete un uomo colto ed intelligente, davvero potete credere che né gli americani, o i russi, che hanno sul suolo lunare postazioni sofisticate e potenti, avrebbero potuto non rilevare tale evento?» Domandò incredulo, guardandolo negli occhi.

«In effetti è stata la mia prima obiezione al racconto». Ribadì Duarte, intimidito. Ma l'altro non gli diede tempo di uscire dall'angolo in cui lo aveva cacciato, per stenderlo definitivamente: 
«La verità, unica incontrovertibile è che, nonostante le demenziali politiche ecologiche perversamente basate sui divieti, a Sponge Island si è verificato un catastrofico rialzo delle temperature che ha distrutto le fonti  su cui basava l'intera economia di cui la stessa Yara era stata appassionata fautrice. Sua l'idea delle Sponge Farms e di quel turismo eco sostenibile che ha trasformato l'isola in una prigione a cielo aperto, inducendo gran parte degli abitanti ad andarsene. A causa delle intransigenti politiche ambientaliste Yara si era fatta molti nemici, ed è probabile che con lei non siano andati per il sottile. Mentre gli isolani scomparsi, di cui vaneggia mia figlia, non sono morti e neppure stati inghiottiti dal multiverso, semplicemente sono scappati verso esistenze più libere. Anche i turisti, quando hanno scoperto quanto restrittive erano le regole di questo paradiso, hanno cominciato a disertare l'isola. Il cambiamento climatico, disastroso ma in qualche modo provvidenziale, è stato l'alibi per nascondere il fallimento dell'impresa e giustificare il ritorno ad una società più inquinata ma molto più tollerante.» lo redarguì severamente, in tono quasi paternalistico «Per l'amor di Dio, Mauricio, lasciate questa storia inverosimile ad uso e consumo dei ragazzini e degli ecologisti più fanatici, e non dategli alcun credito. Sapete perché Anita vi ha portato qui? Per convincermi, tramite voi, ad aderire alla sua stramba causa, perché sono molto ricco ed è risaputo che gli ideali da soli non portano alla vittoria.» Concluse puntando il dito contro la figlia.

Quel gesto accusatorio scatenò la reazione incontrollata di Anita nei riguardi, però, di Mauricio: «Perché mi stai facendo questo? Perché rinneghi quello che hai visto e sentito? Yara non solo l'hai vista ma ci hai anche parlato. E mi hai fatto un'accurata descrizione del vecchio "Barrier", dove tu non sei mai stato ed ignoravi, fino ad oggi, la sua esistenza. Poi, quando sei venuto con me in quello che ora è il "Barrier", sei rimasto sconvolto. Non era il locale dove tu Gracia, una delle cameriere, ne è testimone.»

 Fernando, a sua volta, prese a pungolarlo provocatorio: «Avete davvero parlato con Yara o ve lo siete solo immaginato? Questo sole assassino non solo danneggia la vista ma provoca allucinazioni. Come avrete notato qui il paesaggio è abbacinante e il riverbero del sole non dà tregua. Non ci sono ombre né sfumature. Sponge Island è il luogo più innaturale del pianeta dove è facile essere preda delle suggestioni.»

Nell'ultima parte del discorso il tono di Fernando s'era sempre più ammorbidito, fino a diventare comprensivo. Solidale. Gli stava tendendo un appiglio per uscire dalle sabbie mobili dove s'era maldestramente impantanato, fornendogli una motivazione con cui giustificare la sua stupida credulità. Mauricio lo capì e s'affrettò ad afferrare quel ramoscello: «Razionalmente? Convengo con voi che non si è trattato altro che di suggestioni.»

«Me ne vado. Non ce la faccio a sentire i tuoi discorsi. La tua miscredenza, papà, anche davanti a prove evidenti, è oltraggiosa altrettanto come la tua disonestà intellettuale, Mauricio». Urlò furiosa ad entrambi, ed intimò a Duarte: «Andiamo via!».

La reazione scomposta di Anita, aveva allertato dog Rey, già pronto a scattare, ma Fernando lo prevenne: «Buono dog Rey, Anita ringhia ma non morde: è solo giovane ed intransigente. Una pulzella d'Orleans molto perentoria e poco educata, che non vi ha chiesto se volete andare oppure rimanere aper un altro bicchiere. Così ve lo chiedo io: rimanete? Non mi capita spesso di avere ospiti con i quali sono in così completa sintonia». 

«Accetto volentieri l'invito». Rispose pavido Duarte, gettando un'occhiata ingorda al mobile bar così ben provvisto. E poi, ad Anita «Non ti dispiace, vero?»

Per tutta risposta lei uscì sbattendo la porta. Solo allora Fernando vide che  aveva dimenticato gli occhiali da sole. 

«Scusate, Mauricio, la rincorro e glieli porto perché il riverbero del sole, a quest'ora del giorno, è micidiale. Ma vi prego, in mia assenza non fate complimenti e servitevi pure». Disse indicandogli una bottiglia di "Ron  Abuelo Centuria".


In attesa
 

Fernando Rey corse fuori e trovò Anita in attesa, vicino al cancello.

«Allora, cosa ne pensi di lui?» Domandò la ragazza, presagendo, però, la risposta.

«Non è adatto. E' troppo instabile ed influenzabile. Hai visto con quanta prontezza ha rinnegato la sua esperienza? Il nostro alleato dovrà essere psicologicamente solido, avere fede  nella sua capacità di giudizio ma, soprattutto credere nella sua missione. In poche parole non dovrà assolutamente essere manipolabile. Duarte, invece, è l'esatto contrario: egocentrico, malleabile, corruttibile ed incoerente. Puoi scommetterci che domani salirà sul primo traghetto senza neppure passare a salutarti.»

Anita, assentì con un sospiro. Fernando le porse gli occhiali: «Pazienza, tenteremo ancora. Non bisogna scoraggiarsi, prima o poi riusciremo a trovare qualcuno che possa per noi varcare quel confine e ricongiungerci agli altri.» 

«Con Duarte, però ci siamo scoperti forse troppo. E se  raccontasse a qualcuno di questa storia? Ci siamo sempre preoccupati che rimanesse segreta, che di quella notte nulla trapelasse.»

«E' uno scrittore, penseranno che è frutto della sua fantasia anche se, nel borsino della critica, Mauricio Duarte è da lungo tempo ormai in caduta libera. "Gioia di vivere," il suo libro d'esordio, è l'unico, nella sua scarna produzione, ad aver riscosso un certo successo, poi solo una sequela di libercoli senza alcun valore. Duarte è un donnaiolo, dedito essenzialmente ai piacere della vita piuttosto che a quelli della letteratura. Con le sue credenziali il nostro segreto è al sicuro, e con la sbornia che gli farò prendere magari non ricorderà più niente.» Rise, senza allegria

Anita era delusa «Un altro fallimento. Mi chiedo se troveremo mai qualcuno in grado di agire per noi.»

 «Non lo so, ma quello che posso garantirti è che continueremo a cercare. Te lo prometto.» La rassicurò Fernando, prima di tornare dal suo ospite.

domenica 29 gennaio 2023

Cagliostro e Drugo: amici/nemici/fratelli

 


Ho raccontato molto dei miei gatti e, nonostante stiano con me ormai da molto tempo (otto anni Cagliostro e quattro Drugo) continuano ogni giorno a sorprendermi con l'innocenza, la spontaneità e, in alcuni momenti, la stravaganza delle loro performance.
Guardarli è come sfogliare un fumetto o assistere a un film della Disney: il sorriso mi si stampa in automatico sulla bocca, qualunque sia il mio umore.
Così schiettamente diversi, Cagliostro e Drugo, non hanno mai ipocritamente tentato, come spesso è nella natura umana, di falsificare le carte e spacciarsi per quello che non sono o, addirittura, voler essere l'altro.
Fieri di essere indiscutibilmente se stessi, non hanno mai tentato di addomesticarsi ai miei desideri neppure per il miraggio di un premietto.
... e, a tal proposito, cosa se ne fanno del mio benestare se Cagliostro, ormai abile scassinatore di credenze e cassetti, se ne approvvigiona autonomamente, spartendo le ruberie col suo coinquilino?
Mangiano insieme la refurtiva, seppure Drugo, più agile e vorace, soffia all'altro l'ultimo boccone. Cagliostro, a tutta prima, pare non aversene a male, anche se continua per un po' ad annusare il pezzetto di pavimento dove prima c'era il bocconcino trafugato. Terminato il pasto, fuori menù e fuori orario, in sincronia, seppure dislocati in angoli diversi, i due sodali si leccano i baffi e le zampe, si stiracchiano e sbadigliano.
Drugo, come consuetudine, dopo ogni pasto s'appisola, Cagliostro, invece, la tira per le lunghe. Lui, che pure è tipo da letargo, diventa tutto ad un tratto irrequieto, quasi che passata la botta di adrenalina della malefatta, abbia bisogno di ripetere l'esperienza. Stavolta, ad essere scassinata è la porta di casa. La maniglia cede dopo il primo vigoroso, maschio assalto, destando dal sonno Drugo che, attratto da quello che gli sembra un nuovo gioco, scansa Cagliostro seduto indifferente sulla soglia e cerca la via dell'avventura lungo le scale. Ovviamente mi precipito affannata a recuperare il fuggitivo mentre lo scassinatore resta immobile sull'uscio. Quando risalgo con Drugo in braccio, lui, con aria di sufficienza, si sposta quel tanto che basta a lasciarci passare e, senza alcuna sollecitazione da parte mia, rientra in casa.
«Volevi smammarlo?» Lo sgrido, mentre mi fissa impassibile. Poi, dopo aver chiuso a chiave la porta, puntandogli il dito contro, lo avviso: «Se lo rifai ancora sarai tu a sloggiare, capito?» Cagliostro non si scompone alla minaccia e placidamente ignorandomi s'avvia al divano sotto cui Drugo, dopo che l'ho sgridato, per prudenza s'è rifugiato e dove, nel frattempo, ha scovato una pallina che con abilità calcia e poi rincorre per la stanza, proponendosi nel doppio ruolo di attaccante e difensore. Nell'enfasi del gioco la scaglia in un angolo da cui rimbalza e finisce tra le zampe di Cagliostro, che fino a quel momento ha seguito annoiato il trambusto prodotto dall'altro, che se ne impossessa senza dar mostra di restituirla. E' nella sua area e a quanto pare non intende rimetterla in campo. Drugo, sulle prime, fraintende l'intenzione dell'altro ipotizzando la sua adesione al gioco, così rimane in attesa del rilancio, ma quando questa si prolunga, lo sollecita dapprima con brevi, amichevoli miagolii, poi, capita l'antifona tenta, con l'irruenza che gli è propria, di riprendersela e, con un'acrobazia felina, gliela soffia via, correndo sotto il letto. Cagliostro non ci sta e parte all'attacco per ritrovarsi entrambi in un turbinio rarefatto di peli sopra il letto a suonarsele di santa ragione. Cagliostro è di stazza maggiore ma l'altro non si fa intimorire, glissa le zampate e se ne frega delle soffiate, con un agile mossa lo scavalca e si catapulta a terra. La lotta continua in tutti gli angoli della casa, sopra e sotto i mobili, perfino nella lettiera dove Drugo, sconsideratamente, s'è andato ad infilare. Il rumore della sabbia che dalla cassetta travasa sul pavimento m'induce ad intervenire. Di solito non m'intrometto nelle loro faccende se non per controllare, discretamente, che nessuno dei due si faccia male e non mi distruggano casa. E' un gioco, quello della lotta...per Drugo lo è di sicuro, Cagliostro però è fumantino e credo non abbia dimenticato che una volta, in questa casa, era tutto suo, d'esclusiva proprietà perché non c'era nessun cacacazzi a fottergli i bocconcini onestamente rubati.
«Adesso basta!» Li rimprovero severa nell''intento di riportare, tra i due gladiatori, una pace seppur forzata.
Due paia di occhi color ambra mi fissano. Due code svettano.
Non capisco se è una resa o una minaccia.
«Meow». Miagola Drugo, consenziente, scrollandosi vigorosamente di dosso residui di sabbietta, che sparpaglia fin sotto la porta.
Cagliostro, che è un aristocratico, lo guarda disgustato (se non fosse total black, giurerei di avergli visto alzare il sopracciglio), poi, con noncuranza s'avvia alla credenza della sala da pranzo.
Drugo lo segue e gli si pone a lato. Affiancati nel minuscolo spazio di una mattonella, di nuovo uniti, in attesa che io entri e apra quella credenza, per il rito della sera, quello della spartizione di uno snack
«Meow». Implora, con un vocino dolce, Drugo., guardandomi coi suoi occhi tondi da bambino.
Contrasta il silenzio di Cagliostro che per me, invece, è molto eloquente: «Ci dai il premietto di tua spontanea volontà o quando dormi dovrò forzare la credenza?»

Marilena

lunedì 16 gennaio 2023

Una favola dark nel fragore della notte di San Silvestro



"Se volete un lieto fine, questo dipende, naturalmente, da dove interrompete la vostra storia"
(Orson Welles)

Passata la mezzanotte, quando le striature di fiamma degli ultimi fuochi d'artificio sono tramutati in liquide gocce d'inchiostro per essere subito dopo inghiottite dal buio dell'ultima notte dell'anno, mentre mi accingo a chiudere la finestra, sono balzati sul davanzale, e poi sul pavimento della mia camera da letto, due strane creature: un elfo con un cappello a punta e una coda di gatto che fuoriesce dal retro dei pantaloni alla zuava, e ai piedi indossa buffe scarpe con la punta ricurva. Con lui c'è una donnina somigliante ad bambola di pezza, vestita da una mantellina rossa dal cui cappuccio, calato sulle spalle, fuoriescono biondi riccioli di stoppa che incorniciano, nel viso di porcellana, due occhi enormi, color fiordaliso. La donnina stringe in una mano l'archetto di un violino.
Ho solo il tempo di tirarmi indietro che quelli, come un lampo, sono catapultati sul mio pavimento: l'elfo atterrando saldo sui propri piedi, la donnina di pezza, invece, flettendosi lievemente sulle ginocchia, ma riconquistando subito dopo, e con inaspettata grazia, la posizione eretta.
Dal canto mio non aspettavo visite, se non quelle che, data l'ora notturna, si fanno nei sogni o, come nel mio caso, nell'insonnia
Restiamo immobili, per un lungo momento, a studiarci nella luce bianca e fredda della stanza che mette in risalto, con dovizia di particolari, le straordinarie peculiarità dei miei inattesi ospiti, i quali, però, non sembrano gradire di essere al centro di quel troppo illuminato palcoscenico. Ed ecco che l'elfo, con uno schiocco di dita, ammorbidisce i toni crudi della lampadina al neon riportando la stanza alla penombra.

«Meglio, Ombretta?» domanda premuroso alla sua compagna, che muovendo l'archetto su un invisibile  violino gli risponde con la languida nota.

«Chi siete?» M'intrometto pronta a far valere i miei diritti di padrona di casa.

«Lei è Ombretta ed io sono Osv Ald». Risponde l'elfo con la voce affascinante di un doppiatore cinematografico, del quale, però mi sfugge il nome.

Colgo una nota irridente nella risposta dell'elfo, quasi che fosse sufficiente quella striminzita presentazione a giustificare l'irruzione a casa mia. Così ribadisco puntigliosa: «Si, ma oltre a questo, che ci fate qui? Cosa volete da me?».

«Ci siamo smarriti a causa delle improvvise, violente luci assordanti che, squarciando il cielo, ci hanno fatto perdere il senso dell'orientamento, deviandoci dalla nostra traiettoria». Recita l'elfo.

Luca Ward! ecco chi è il famoso doppiatore di cui mi sfuggiva il nome. Osv Ald ha la stessa voce di Luca Ward. Ma le similitudini si fermano a questo, perché la figuretta infantile, da libro di fiabe, non ha null'altro in comune con l'affascinante attore/doppiatore/conduttore radiofonico. E questa constatazione mi riporta al presente: «Qui, però, non potete stare». Polemizzo spalancando i vetri della finestra. «Prego» E con un gesto della mano l'invito ad andarsene. 

Mi risponde la nota straziante del violino invisibile di Ombretta. Una nota prolungata e singhiozzante come il pianto di un bambino strappato alla culla. 

«Chi siete?» chiedo di nuovo quando il suono svanisce, e invano tento di focalizzare nella penombra l'invisibile strumento che lo ha generato.

«Lei è Ombretta ed io sono Osv Ald. Ci siamo smarriti a causa delle improvvise, violente luci  assordanti che, squarciando il cielo, ci hanno fatto perdere il sen...». 

«Questo  l'ho capito, ma non basta!» Sbotto impaziente avviandomi verso l'interruttore della luce.

L'elfo schiocca di nuovo le dita e il pavimento, man mano che avanzo, duplica, triplica, quadruplica, quintuplica nel suo perimetro, allontanando sempre di più l'interruttore.

«Non serve la luce per vedere. Non ti fidi dei tuoi occhi? Hai visto tutto quello che c'era da vedere ma ancora dubiti di te stessa, ti ostini a cercare quello che non c'è ed ignorare, invece, quello di cui hai contezza». Osv Ald  mi guarda con tristezza e scuote la testa con disappunto. «Mi fai davvero pena perché pur avendo il dono della vista sei del tutto cieca». 

A sottolineare questa drastica affermazione c'è il suono malinconico del violino che si diffonde nell'aria come l'amaro profumo dell'artemisia, mentre Ombretta dirige con dita sicure l'archetto sulle corde invisibili del suo immateriale strumento. Quando la melodia tace, mi fissa coi suoi grandi occhi color fiordaliso che diventano azzurro violetto quando incontrano quelli di Osv Ald. Confusa ne distoglie lo sguardo, e le lunghe ciglia disegnano una mezzaluna scura sotto le palpebre socchiuse, come un morbido ventaglio di piume. 
Non ho mai avuto bambole con occhi così belli. Così vivi. E, ancor meno, che suonassero il violino, o interagissero con qualsiasi altro oggetto in maniera così veritiera. Così realista.
Ho avuto una bambola parlante, ma il suo vocabolario si limitava a poche, infantili parole, scandite con voce meccanica. Per farla parlare dovevo darle la carica attraverso un pulsante posizionato sulla schiena e lei diceva "sonno" "fame" "cacca" con tono incolore. In quel suo coinciso lessico mancavano le frasi "ti voglio bene" o "prendimi in braccio". La mia bambola parlante difettava dei vocaboli dell'amore. 

«Il violino è la voce di Ombretta che, per tua informazione, non è una bambola.». Fa eco ai miei pensieri la voce fascinosa di Osv Ald.
 
«Sai leggere il pensiero?» Domando incredula «Perché stavo giusto pensando ad una mia bambola»

«So fare molte cose». Risponde con una piroetta che lo trasporta, con un solo movimento, nella parte opposta della stanza, a scalarne le pareti, a camminare a testa in giù sul soffitto e poi, con agilità felina, cadere sui piedi. «So fare questo ed altro, come dilatare o restringere lo spazio; proiettare l'esterno nell'interno e viceversa; agire sulla forza di gravità e sulle dimensioni temporali multiple. A questo lungo elenco delle mie peculiarità, manca però la dote di mentalista. Ma voi siete così elementari e prevedibili che capire cosa vi passa per la testa non è affatto difficile». Mi fissa ironico, e poi procede con disappunto: «Una bambola! E' un pensiero davvero scontato nei confronti di Ombretta. E' quello che tutti pensano quando la vedono per la prima volta. E anche la seconda, e la terza, e così via di seguito. Una bambola di pezza, un essere inanimato, priva di anima e di pensiero. Una banale imitazione di voi esseri senzienti. Nessuno osa credere che Ombretta, esattamente come me sia di carne ed ossa».

«Mi stai dicendo che siete umani?» chiedo perplessa.

«Bè, la parola umani non è la più appropriata ma è l'unica similitudine che le vostre menti limitate, ma pure così straordinariamente arroganti, sono in grado di capire. Non esistete solo voi nell'immenso universo. Ci sono mondi strepitosi e diversi dal vostro che non vedete ma, ancor peggio, quando avete la fortuna d'incapparvi, li denigrate. Li disprezzate. Nella migliore delle ipotesi l'ignorate».

«Quindi voi due, così diversi, allora non provenite dallo stesso mondo».

«Non capisco se questa tua è una domanda o un'affermazione». Al tono divertito di Osv Ald fa eco il trillo brioso del violino di Ombretta. I due si scambiano uno sguardo d'intesa ed allora a rispondermi è lei, e lo fa a modo suo, attraverso quel suo violino fantasma, con una melodia di una tenerezza struggente che trapassa l'anima e i sensi. E quella musica è di certo la voce di un angelo o di una sirena, o di una donna innamorata che racconta la storia di un sentimento che sfida le differenze e le diffidenze, che non conosce barriere e s'affida alla incorrotta, e incorruttibile, certezza dell' amore.

 Quando il violino tace, Osv Ald riprende il discorso: «Si può essere diversi e non esserlo. Questo non significa abiurare la propria natura, disconoscere le proprie dissomiglianze ma, al contrario, farne un punto di forza e con quello costruire una più complessa, e completa, armonia. Io sono in perenne movimento, lei ha bisogno di un punto d'approdo. Io sono la trottola e lei è il perno su cui giro, la forza di gravità senza la quale rotolerei velocemente verso il nulla. Se Ombretta ha bisogno del mio movimento io, altrettanto, necessito della sua stabilità. Insieme ci completiamo. Insieme siamo un unico».

Confesso di provare una punta d'invidia per questa loro storia dove c'è materiale per un film Tim Burton. Lo penso d'istinto, senza tradurre il pensiero in parole.

«...o Guillermo del Toro» mi fa eco Osv Ald. Ma forse è solo la mia immaginazione.

Decido di tenere per me questo dubbio dal momento che mi è chiaro che lui, poiché gli fa gioco, non  ammetterà mai di avere doti da mentalista, così  mi limito a sorridere e ad assentire con il capo.
Ma pure ha ragione quando afferma che noi umani siamo elementari, prevedibili. Scontati. Per cui non ci sarebbe niente di diabolico nella sua capacità d'interpretare la logica umana e prevenirne il pensiero, essendo egli un attento osservatore, un fine psicologo, e un persuasivo affabulatore.
 Lo guardo per verificare se questa mia ultima, insinuante riflessione riesce a provocare una sua qualche istintiva reazione. Ma niente. La sua espressione non tradisce nulla. 
Sorrido del mio puerile riscontro, consapevole che se davvero possedesse capacità telepatiche, di ogni mia strategia programmata per indurlo a svelarsi, lui ne verrebbe, in tempo reale, a conoscenza, neutralizzandomi.
Contraccambia il mio sguardo con un misto d'indignazione ed ironia, poi si volta verso la sua compagna:« Ora che i cieli si sono placati, potremmo rimetterci in cammino, mia cara, naturalmente se non sei troppo stanca, e togliere così il disturbo, dal momento che qui non siamo i benvenuti».
Ombretta non ha il tempo di una risposta che lui l'ha già presa per mano, e la guida verso l'uscita
Lei si gira verso di me e mi guarda malinconica, con quei suoi splendidi occhi fiordaliso dove tutta la tristezza del mondo pare essersi, d'un tratto, annidata. 

D'improvviso, il sospetto che la donnina di pezza possa essere ostaggio dell'elfo, si fa strada nella mia mente. E il timore che il racconto del suo violino non fosse quello di una tenera storia d'amore, ma una sommessa, accorata invocazione di aiuto, diventa plausibile, così mi precipito verso la porta: «Di solito non sono così scortese.Vi prego di scusarmi. Non so cosa mi abbia preso. I botti di fine anno e quelli dei fuochi d'artificio innervosiscono anche me. Potete rimanere» Mi rivolgo ad Osv Ald, cercando di non far trapelare l'affanno nella mia voce: «Ombretta è visibilmente stanca. Lasciamola riposare ancora un pochino».

«Prima ci cacci e poi cambi idea. Ora ti preoccupi della stanchezza di Ombretta. Sei ben strana, anche per essere un'umana». Mi guarda sarcastico: «Ah, se solo potessi leggerti nella mente!». Non mi dà il tempo di rispondere che già è rivolto alla violinista e le domanda premuroso: «Sei ancora stanca, mia cara? Quanto stanca? Perché per la nostra ospite lo sei visibilmente». 

Ombretta poggia il suo violino fantasma sulla spalla e con l'archetto trae una piccola nota lamentosa, poi una breve pausa, e ancora la stessa nota, succeduta da un'altra pausa, e poi di nuovo, finché  Osv Ald, con un gesto della mano interrompe quella monotona esecuzione e, rivolgendosi a me, conferma: «Ammette di essere ancora stanca, così ci toccherà approfittare ancora un po' della tua squisita ospitalità ». Non mi sfugge il tono ironico con cui pronuncia l'ultima frase.

«Può stendersi sul mio letto». Suggerisco indicando un punto nella stanza.

Osv Ald, la prende fra le braccia e la depone sul letto, accomodandola sotto le coltri le toglie l'archetto dalle mani. Lei tenta un vago gesto per riprenderselo, ma poi rinuncia, cedendo a quel calore consolatorio. 
Nella stanza è calato il silenzio. Io e l'elfo, senza troppe finzioni, apertamente  ci stiamo studiamo. E' lui il primo a rompere gli indugi e a dare il via ad una probabile belligeranza: «Il gioco intuitivo mi annoia, anche perché per me è facile arrivar per primo al traguardo, quindi giochiamo a carte scoperte». 
La sua non è una proposta ma piuttosto un' ingiunzione.

«Come vuoi» rispondo io, in un finto tono di distacco. «Chi sa leggere il pensiero è di sicuro, in questo frangente, avvantaggiato». Butto lì, provocatoria. 

Lui non abbocca e specifica caustico: «Io sono oltre la mentalizzazione: io sono nella tua mente». Accomodandosi sulla poltroncina ai piedi del letto. Accavalla le gambe mettendo in mostra quelle sue buffe scarpe a punta a forma di gondola, sullo stile dei Leningrad Cowboy. Noto anche che la coda è sparita.

«Dov'è finita la tua coda?» Chiedo stupita.
 
«Ah, quella è retrattile. serve a confondere le idee. Me l'ha fornita Behemoth, ma se continui a fissarmi così tra poco mi spunteranno anche i suoi baffi da cavalleggero». Ride sottovoce, per non svegliare Ombretta.

«Chi sei? Cosa a che fare Behemoth con te?»

«E non mi chiedi di queste scarpe? Sono di Vladimir, il manager dei Leningrad Cowboys, me le ha prestate, dovresti saperlo visto che sei stata tu l'intermediaria».

«Io?» Domando incredula «Ma quando?»

«Quando?  Decenni fa, mia cara, prima che io nascessi. Meglio ancora, che mi assemblassi. In quegli anni, che potremmo definire della tua formazione, hai piluccato qua e là dettagli e assaporato atmosfere letterarie e musicali, molte delle quali, a mio avviso, discutibili, o che forse avresti dovuto approfondire, motivo per cui io sono come sono. Ma anche lo stravagante concepimento di Ombretta  è opera tua....lei è figlia delle tue malinconiche, romantiche tiritere esistenziali post adolescenziali, e di quelle successive, agguerrite e femministe». Scuote il capo e sorride.

«Non ricordo niente di tutto questo, ma in compenso mi sta venendo un gran mal di testa». Dico in tono dolorante.

Osv Ald, mi punta il dito contro: « E' il minimo!» Esclama alzandosi per dirigersi verso il letto, e un pezzetto di coda fa capolino dal retro dei suoi pantaloni.

Qual è il nesso tra il piccolo elfo e Behemoth, il diabolico gatto del romanzo "Il maestro e Margherita"? E quale, quello col gruppo musicale finlandese dei Leningrad Cowboys?
E qual è il ruolo di Ombretta in tutto questo?

Complice o vittima di Osv Ald? Rifletto in silenzio.

«E se, invece, fosse lei quella dalla quale guardarsi?» La voce di Osv Ald mi giunge da dietro le spalle.

 Mi volto. Sono entrambi davanti a me, si tengono per mano e mi sorridono enigmatici. 

 «Un'ipotesi che non hai nemmeno preso in considerazione, perché la muta, dolce ed indifesa Ombretta, forse un po' tocca, di certo stravagante, perché suona un violino che nessuno vede, ispira sentimenti di benevolenza e compassione, mentre io, invece, con questa coda di gatto, queste scarpe da clown, e le mie strepitose peculiarità acrobatiche, potrei essere, senza alcun dubbio, l'incarnazione del diavolo».  S'interrompe per darmi modo di elaborare la logica nel suo ragionamento. Poi, indicando la sua compagna, riprende il discorso: «Complice o vittima? Non l'hai mai, però, vista come una possibile minaccia. Ti sei fatta incantare da lei e ti  saresti battuta per lei. E se fossi io la sua vittima? Ipnotizzato da quel suo diabolico violino e sedotto dalla sua natura all'apparenza dolce, remissiva. Precaria. E tu...» prorompe in tono melodrammatico: « tu, saresti stata la prossima. L'ultima di un'interminabile serie».  

  Osv Ald guarda Ombretta e si sorridono complici. Lei si avvicina e lui le prende una mano. Le bacia le dita una ad una, e poi il braccio, tutto, fino alla spalla, dove indugia tra i capelli e l'orecchio, per posare, infine, la sua bocca sulla sua. Un lungo, sensuale bacio. E di quel bacio, Ombretta, ne risplende tutta. Sirena e fata. Madonna e cortigiana. Donna.
Poi l'elfo, premuroso, le porge l'archetto e lei, dal suo violino fantasma, trae note aliene, criptiche, di un linguaggio musicale a me sconosciuto. Indecifrabile. Ma che pure, in maniera inequivocabile, giunge al cuore e ai sensi.

Quando la musica tace, Osv Ald, con un guizzo mi si pone di fronte e senza darmi il tempo di obiettare nulla, incalza: «C'è sempre una terza via, mia cara, e in alcuni casi anche una quarta e forse una quinta. Mai fermarsi alla prima, potrebbe essere un tranello. Di queste vie, fino ad ora vagliate, quale sceglierai? Guillermo del Toro ha detto che la vera scelta politica oggi è scegliere l'amore e non la paura. Per il finale di questo racconto sceglierai l'amore o la paura? Noi lo sapremo solo a giochi fatti, e non ci resterà che accettare la tua scelta. Come vedi, tra i nostri tanti poteri, non abbiamo quello di decidere il nostro dest...». 

Sfuma la voce seducente di Osv Ald /Ward, quando le stelle residue di un fuoco d'artificio clandestino deflagrano, improvvise, accendendo la notte di bagliori psichedelici, e il rimbombo apocalittico di quell'ultima fiammata frantuma i vetri della finestra e una spessa, acre cortina di fumo, inonda la stanza. 

Con gli occhi che lacrimano, a tentoni, nella stanza d'improvviso deserta, cerco indizi a testimonianza dello straordinario passaggio dell'elfo con la coda di gatto e della bambola di pezza e del suo violino fantasma.
Li chiamo, e mi risponde il silenzio. Di loro più nessuna traccia.
Mi affaccio alla finestra sperando in un rewind, che la pellicola si riavvolga e tutto accada di nuovo.
Ma il mondo, oltre la barriera degli alberi e l'alta cinta dei palazzi, è tornato solitario e quieto.

Nella stanza silente riecheggiano le parole di Osv Ald: Guillermo del Toro ha detto che la vera scelta politica oggi è scegliere l'amore e non la paura. Per il finale di questo racconto sceglierai l'amore o la paura? 

L'amore, senza alcun dubbio, perché scegliere l'amore non è solo un lieto fine ma una rivoluzione. 
Lo sussurro nella mia mente, ma sono certa che Osv Ald ed Ombretta, in qualunque altro luogo dello sconfinato, inesplorato universo siano, presto lo scopriranno.

Scruto la notte, dove la densa cappa di fumo si è finalmente diradata e le stelle, con fervore, sono tornate a splendere.