Dedico questo blog a mia madre, meravigliosa farfalla dalle ali scure e dal cuore buio, totalmente priva del senso del volo e dell'orientamento e, per questo, paurosa del cielo aperto. Nevrotica. Elusiva. Inafferrabile.

venerdì 30 ottobre 2020

Gina Colombo's Restaurant (cap. 3)

 


 Piani

Olimpia, dalla finestra, aveva visto Angie Rose rientrare, così l'attendeva sull’uscio e, senza darle il tempo di profferire parola, la tirò dentro.
«Devo mostrarti una cosa, ma tu, però, non devi dirlo a nessuno.» Disse cavando fuori dalla credenza della cucina una grossa sacca di cuoio verde.
«Guarda!» Esclamò, mostrandole la montagna di banconote al suo interno.
Angie Rose rimase un momento a fissare stupita quella ricchezza ordinatamente stipata, poi ritrovando la voce, domandò: «Da dove proviene tutto questo denaro?»
«Non lo so. La borsa l’ho trovata stamattina, quando sono uscita a gettare la spazzatura. Era sotterrata in una buca nel cortile, ma  forse non troppo in profondità. La pioggia ha smosso il terreno e un manico ne è fuoriuscito. È stato quello che ha attirato la mia attenzione. Ho scavato un pochino e tirato su senza fatica.» Spiegò eccitata Olimpia.
«Evidentemente chi l’ha nascosta aveva una gran fretta. Magari stava fuggendo. Ad ogni modo questi soldi non puoi tenerli, sicuramente sono il provento di qualche malaffare. Devi consegnarli alla polizia!»
A quelle parole, Olimpia indietreggiò, stringendo la borsa al petto: «Cosa dici? Pensavo mi potessi fidare di te. Che fossi mia amica.» Mormorò incredula, guardandola con sospetto.
«Sono tua amica!» Ribadì con fermezza Angie Rose «Ma questi soldi devi consegnarli alla polizia, perché chi li ha nascosti tornerà a riprenderseli e non trovandoli verrà a cercarli qui, in questo palazzo. Stai mettendo in pericolo la tua vita e quella di tutti noi, Olimpia.»
«Questo denaro è un dono della provvidenza. Potrò usarli per un bel po’ di cose, come il trasporto di Bob per trasferirci da Rose in California o da Margareth in Arizona. E ancora ne avanzerebbero per una casetta e una polizza sanitaria per entrambi. Siamo vecchi, non abbiamo troppe pretese.» Poi, guardandola con aria furba, aggiunse: «Ce ne sarà anche per te, se starai dalla mia parte.»
Angie Rose scosse il capo in segno di diniego: «Non miro ai soldi ma a farti ragionare sulle spiacevoli conseguenze che potrebbero scaturire da questa situazione se non li restituisci. Devi portare la borsa alla polizia e devi farlo subito, prima che quelli vengano a cercarla casa per casa. Vuoi far correre rischi anche a Bob?»
«No.» Sussurrò Olimpia, lasciando cadere la borsa sul tavolo.
Sollevata, Angie Rose disse con dolcezza: «Ti accompagno alla polizia. Salgo su a prendere il mio trolley per trasportare la sacca col denaro, daremo meno nell'occhio, e intanto telefono per un taxi.»
Olimpia fece cenno di si, ma quando la ragazza fu sul pianerottolo, chiuse la porta col chiavistello.
«Stai alla larga dalla mia casa o te ne pentirai.» Minacciò da dietro la porta sbarrata


Angie Rose ed Hamlet quella sera giunsero in ritardo al ristorante, dove Gina, Jean Baptiste, Marta e Apache, erano intenti a cenare tutti insieme, come di consueto, prima dell’apertura del locale. Al suo ingresso Marta andò subito in cucina ad apparecchiare il suo posto con le pietanze tenute in caldo, mentre Hamlet le andava dietro festoso, già pregustando i bocconcini in serbo per lui.
«Eravamo preoccupati di non vederti arrivare, perché di solito sei sempre molto puntuale. Tutto bene?» Domandò Gina, alla quale non era sfuggita l'espressione pensierosa nello sguardo. 
«A dire il vero... non troppo.» Rispose, con un sorriso imbarazzato.
Apache si alzò per versarle un generoso bicchiere di vino rosso: «Butta fuori il rospo, piccola.» La spronò,  incoraggiante.
Lei lo guardò con gratitudine, ma scosse il capo: «Ho promesso di non dir nulla.»
«Ok.» Concordò lui, tornando a sedersi «Ma se avessi bisogno di un consiglio o di un aiuto... noi ci siamo.»
 
«Hai ragione, Angie Rose, la parola data va mantenuta.» Intervenne bruscamente Gina: «Ma se riguarda un problema di cui tu non trovi la soluzione, e di quella soluzione hai invece un disperato bisogno, significa che la faccenda ti tocca personalmente, e rimanendo fedele alla regola del silenzio metti il tuo destino nelle mani dell’altro. Riflettici.» 
Quel discorso, per certi versi duro, basava su una logica rigorosa che portò Angie Rose a considerare sotto una nuova luce l’intera vicenda, perché era vero che quella faccenda la riguardava personalmente, e non era solo il suo destino ad essere nelle mani di Olimpia, ma anche quello di tutti gli altri condomini. Mantenere la promessa l'avrebbe resa sua complice.
Così Angie Rose raccontò la storia della borsa trovata da Olimpia Collins.

«…ho creduto di averla convinta, ma quando sono uscita ha sbarrato la porta con il chiavistello.» Terminò il suo racconto, e poi disse. «Non voglio che le accada nulla di male, ma cosa posso fare? Denunciarla? Non me la sento. Senza di lei, Bob, il marito rimarrebbe solo e  probabilmente finirebbe in un ospizio. Olimpia è una donna perbene ma molto  provata dalla vita, e la vista di tutto quel denaro non la fa ragionare, ma è innegabile che con la sua testardaggine sta mettendo a repentaglio la sua vita e quella di tutti gli altri inquilini.» Concluse angosciata.
«Intanto, finché la faccenda non si risolve puoi venire a stare da me.» Le propose Gina. «Ho una casa grande e spazio in abbondanza anche per Hamlet.» Poi, guardandola negli occhi aggiunse: «Non riuscirei a dormire sapendoti in pericolo quindi prendila come la richiesta di un favore personale.
«Gina ha ragione.» Convenne Marta «Te lo avrei proposto anch’io se a casa mia ci fosse un angolo libero.»
Angie Rose, le sorrise grata.
«Ad ogni modo bisogna trovare una soluzione prima che accada il peggio. Una denuncia anonima?» Suggerì Jean Baptiste «E’ una vecchia signora, di cosa può venire incriminata?»
«Di complicità, ad esempio.» Rispose Gina
«Quei soldi non li ha mica rubati lei!» Ribadì Jean Baptiste
«Ma non li ha neppure restituiti. Appropriazione indebita, anche questo è un reato» Sottolineò Gina
«Angie Rose, però, non intende denunciarla, quindi bisogna trovare un’altra soluzione.» Intervenne Marta, riportando tutti al nocciolo del problema.
«Andrò io a recuperare quella borsa.» Disse Apache, che fino a quel momento era rimasto in silenzio. «Scalare l’appartamento di un secondo piano per me sarà un gioco da ragazzi, cosi come entrare in casa dalla finestra, praticando un foro nel vetro in prossimità della maniglia, con l’ausilio di una ventosa ed un diamante. L'anello di Gina  può benissimo fare al caso...e  poi uno sturalavandino…di sicuro ne avremo in cucina.» Guardò Jean Baptiste che parve non aver afferrato il senso della richiesta e lo fissava con aria smarrita.
«Una ventosa.» Specificò Apache.
«Ventouse! Oui oui, bien sur.» Confermò lo chef, con un largo sorriso.
«Perfetto, abbiamo tutto quello che ci occorre, allora possiamo passare... »
Gina lo interruppe «E se chi ha nascosto la borsa si fosse già messo in azione? Se nel frattempo avesse scoperto che è stata Olimpia Collins ad averla?»
«Gina ha ragione, Apache.» Disse Angie Rose «Non sappiamo cosa è accaduto in questo lasso di tempo, e neppure voglio che tu ti ponga in una situazione di pericolo. Domani troverò argomenti più convincenti per indurla ad andare alla polizia.»
«Domani potrebbe essere tardi.» Ribadì lui in tono deciso «Se davvero ti sta a cuore l’incolumità della tua amica non abbiamo tempo da perdere.»
Angie Rose guardò Gina che assenti: «Chiamerò Lucy per sostituirti ai tavoli.» Si sfilò l’anello col diamante che consegnò ad Apache: «Infrangerei con la mia voce quella finestra se fossi certa di non far rumore.»
«Lo so.» Rispose lui, sfiorandole una mano.
«Anche Hamlet è della partita?» Domandò Marta, indicando il cane accucciato ai suoi piedi che sentendosi chiamato in causa aveva aperto gli occhi «Altrimenti posso badarci io. Mi fermo a dormire qui e domattina, in tutta tranquillità, Angie Rose può venire a riprenderlo.»
«Preferirei venisse con noi, daremo meno nell’occhio. Una coppia che porta a spasso il cane non desta sospetti, e magari all’occorrenza Hamlet può esserci d’aiuto.» Suggerì Apache 
«Certo.» Convenne Angie Rose infilando il collare al cane che alla prospettiva di quell’uscita fuori programma, abbaiava festoso.
Jean Baptiste, nel frattempo, era tornato dalla cucina con uno sturalavandino, esibito come un trofeo, che la ragazza occultò nella sua capace borsa


Raggiunsero il Queens in taxi, ma scesero un isolato prima e proseguirono a piedi per non destare la curiosità degli inquilini, in particolare quella di Olimpia Collins, anche se la presenza di Apache al suo fianco non sarebbe passata inosservata, poiché la sua fisicità s’imponeva allo sguardo. Ma questo avrebbe potuto essere un punto di vantaggio, la prova, qualunque cosa fosse successa, o dovesse succedere, della loro estraneità ai fatti, perché la prima preoccupazione di chi vuole commettere un reato è quello di rendersi irriconoscibile, e per Apache, questo, era davvero difficile. Oltretutto la sua zoppia, che volutamente ora accentuava per quella messinscena, lo avrebbe messo al riparo da qualsiasi sospetto di un suo coinvolgimento nel furto.
Giunti al cancello condominiale, Angie Rose guardò verso la finestra del secondo piano sperando di scorgere l’ombra di Olimpia dietro i vetri: quello sarebbe stato l’indizio che tutto era nella normalità. Ma lei non c’era e la luce era spenta, e questo la precipitò nell’angoscia perché Olimpia aveva l’abitudine di tenere sempre accesa una lampada nella camera di Bob. E la finestra era appunto quella.
«Potrebbe essere uscita dimenticandosi di accendere la luce.» Ipotizzò, Apache, per tranquillizzarla.
Angie Rose respinse con forza questa supposizione «Olimpia non esce mai a quest’ora così come non dimentica mai di accendere la lampada in camera del marito. E questo non fa presagire nulla di buono. Andrò da lei per verificare che sia tutto a posto.»
«Mi sembrava di aver capito che non gradisse più la tua presenza, probabile quindi che neppure ti apra.»
«Riuscirò a farmi aprire.» Disse in tono deciso: « E’ una precauzione necessaria prima che tu t’introduca nel suo appartamento. Io e Hamlet andremo a verificare.» Era lei ora a gestire la situazione.
Apache alzò il pollice in segno di approvazione.

Angie Rose salì di corsa le scale fino al secondo piano insolitamente silenzioso senza l’alto volume della radio di Olimpia. Bussò ripetutamente, ma senza esito. Fu l’inquilina della porta accanto, Helen Baker, a darle la notizia che Olimpia era al  Queens Center Hospital perché Bob aveva avuto una crisi respiratoria.
La ringraziò per quella informazione che almeno, al momento, la rassicurava sulla sorte dei Collins: erano al Queens Hospital un luogo di gran lunga più sicuro della loro casa. Scese a comunicare la notizia ad Apache, ed insieme stabilirono che questo facilitava il loro progetto perché nella casa vuota lui avrebbe agito con minor affanno. Seduti ad una tavola calda ripassarono il piano: Apache sarebbe penetrato dalla finestra della cucina che s’affacciava sul cortiletto interno privo d’illuminazione, avvalendosi del sostegno di un alberello ibrido i cui rami più alti quasi toccavano il davanzale della finestra di Olimpia. Una volta entrato avrebbe preso la sacca di cuoio verde nella prima anta in basso a destra della credenza in cucina, perché era lì che Olimpia l’aveva nascosta. Una volta recuperata la borsa si sarebbe diretto alla stazione dei taxi per far ritorno a Brooklyn, dove abitava. Il giorno dopo, in maniera anonima, avrebbe provveduto a recapitare la sacca coi soldi alla polizia.
Lei insistette per una sua partecipazione più attiva al piano: «Non è giusto che sia tu solo a rischiare per un qualcosa che neppure ti riguarda».
«Ma riguarda te». Ribadì lui, senza incertezze.
La ragazza accennò un sorriso che non riuscì, però, a nascondere la sua preoccupazione. Apache se ne accorse e le strinse forte la mano, poi sottovoce e con aria da cospiratore, cercò di rassicurarla: «Tranquilla non corro alcun pericolo perché il nostro piano è assolutamente perfetto.»
«Quasi perfetto.» Lo corresse lei «perché non abbiamo provveduto ad un paio di guanti per non lasciare impronte.»
«Non ci servono. Olimpia non andrà di certo a denunciare la scomparsa di una borsa piena di soldi che non le appartiene ma nasconde in casa. Penserà che gli autori del furto siano gli stessi malviventi a cui lei l'ha sottratta. Piuttosto mi toccherà creare un po' di scompiglio negli armadi per non farle sospettare che sei tu il mandante: l'unica a sapere dove la sacca è nascosta.»
Uscirono dalla tavola calda che era già buio. Percorsero un tratto di strada affiancati, con Hamlet che teneva il loro stesso passo, quasi avesse compreso la complessità del momento. Qualche metro prima del cancello condominiale si salutarono.
Angie Rose perorò di nuovo, appassionatamente, per un suo coinvolgimento nell'azione, ma Apache fu ancora una volta irremovibile: «Durante la mia carriera di stunt man ho scalato grattacieli e profanato finestre, alcune pure in fiamme, quindi cosa vuoi che sia per me arrampicarmi a quella di un secondo piano?» Concluse in tono scherzoso. Poi, tornato serio, la tranquillizzò un'ultima volta: «Andrà tutto come previsto, perché il nostro piano è assolutamente perfetto.»
Lei fece cenno di si col capo. «Promettimi che se qualcosa non fila nel verso giusto troverai il modo di farmelo sapere. Io e Hamlet saremo due sentinelle in allerta.»
«Promesso, piccola.» La rassicurò Apache allontanandosi nel buio.

 

mercoledì 28 ottobre 2020

My Dreames

 A questo punto della vita cerco conferma ai miei sogni, non più per realizzarli ma per non dimenticarli.



martedì 13 ottobre 2020

Gina Colombo's Restaurant (cap. 2)


 

Universi

Angie Rose ed Hamlet s’erano avventurati al parco nonostante il tempo minacciasse pioggia. Sarebbe stata una passeggiata breve ma indispensabile alle esigenze del cane che quella sera probabilmente, proprio a causa del cattivo tempo, non avrebbe potuto portare con sé.
Era stato un inizio di primavera freddo e piovoso, con pochi colori e senza troppa poesia. Le piogge frequenti avevano infoltito il suolo di erbette e fiori spauriti, che schiaffeggiati dal vento e insultati dall’acqua, sfiniti declinavano le corolle ancora acerbe a marcire in quell’humus vegetale. Hamlet, attratto dalle loro ingannevoli macchie nell’erba, si fermava ad annusarli nel loro ultimo, evanescente profumo, per poi mestamente tornare sui suoi passi, Avevano raggiunto l’area riservata ai cani, Angie Rose lo aveva sciolto dal collare, lasciandolo  libero di correre ed esplorare, mentre lei, seduta su una panchina, si predisponeva a leggere un libro, senza però perdere di vista Hamlet che  ora giocava con altro cane, anche quello un lupo, a rincorrersi e  riportare indietro una palla rossa che qualcuno, dall’altra parte del viale, lanciava. Dei soliti che frequentavano il parco con i loro cani, e con i quali aveva un cordiale scambio di saluti e di battute, a quell’ora non ve n’era nessuno, ma Hamlet aveva comunque trovato un compagno di giochi, e lei l’opportunità di terminare la sua lettura.
S’era alzato un vento leggero che recava stille di pioggia frammiste ad un lieve sentore di fragola, ed era ormai ora di avviarsi verso casa dove avrebbe velocemente pranzato per poi correre alle lezioni di Alfred Hayden. Diede di voce ad Hamlet che, accomiatandosi dal nuovo compagno di giochi, era prontamente corso al suo richiamo.


Lungo le scale propagava un buon odore di cucina e Angie Rose sospirò alla prospettiva del suo pasto preconfezionato, inodore ed insapore. Avrebbe comunque recuperato con la sempre ottima cena al ristorante di Gina, prima dell’orario di apertura, insieme a tutti gli altri dello staff.
Era giunta al pianerottolo del secondo piano quando cui Olimpia Collins, in tuta e bigodini, aprì la porta.
«Ciao Rose (la chiamava solo Rose perché quello era il nome di una delle sue figlie)  hai tempo? Vorrei mostrati una cosa». Con un cenno della mano la invitò ad entrare.
Olimpia Collins aveva sempre un pretesto per farti entrare a casa sua per scambiare due parole. Angie Rose ricordò la prima volta che era stata abbordata dalla vecchia signora con la scusa d’infilarle un ago da cucito.

«I miei occhi non sono più buoni, nonostante questi.» Le aveva sorriso e indicato gli occhiali dalla montatura antiquata
«Forse dovrebbe rifare le lenti» Aveva suggerito, con garbo, Angie Rose.
Con un gesto della mano, Olimpia, aveva scacciato quell’ipotesi e indicando lo spiraglio della porta della camera da letto da cui s’intravedeva un uomo adagiato supino, aveva detto «Ho altre priorità.»
Così aveva conosciuto anche Bob, il marito di lei, affetto da una malattia degenerativa che gli aveva atrofizzato prima i muscoli e poi i sensi. Le loro due figlie, Rose e Margareth, vivevano in altri stati, e la lontananza e il tempo avevano reso sempre più sporadici i loro incontri, che alla fine s’erano ridotti ai solo contatti telefonici. A casa dei Collins la radio era sempre accesa e ad un volume piuttosto alto, e questo era costante motivo di discussione con gli altri inquilini: «Ma perché non la metti in camera di Bob così può ascoltarla ad un volume più basso?» qualcuno le aveva suggerito.
«Bob è completamente sordo, che se ne fa della radio?» Aveva risposto Olimpia: «Sono io che l’ascolto, ma ad un volume più basso non potrei sentirla da una stanza all’altra.»


Era il silenzio, l’assillo di Olimpia. E la solitudine. Per questo stazionava sulla porta per abbordare chi era di passaggio, e ascoltare la radio, ventiquattro ore su ventiquattro, ad un volume elevato.
Angie Rose lo aveva capito e avrebbe voluto fare qualcosa per lei, ma oltre ad accettare un invito per un caffè o scambiare due parole sul pianerottolo, non aveva tempo per altro.
«Scusami, Olimpia, ma oggi vado proprio di fretta.» Cercò di tagliar corto, ma l’altra la trattenne per un braccio: «A qualunque ora rientri, prometti di venire a vedere. E' della massima importanza.»
Angie Rose promise.


Dal Queens, dove lei abitava, raggiunse in metro il quartiere Dumbo, dove in una ex cartiera ristrutturata risiedeva la prestigiosa “Alfred Hayden’s Acting Shool”, e fece il suo ingresso proprio mentre stava andando in scena la parte finale di una furibonda lite tra Alfred Hayden e Jason Taller, uno degli studenti.
E non stavano recitando.
«…ti assicuro, Taller, che non metterai più piede in nessun'altra scuola di recitazione di questo stato.» Hayden scandì la minaccia con rabbia, stringendo i braccioli della sedia a rotelle e sporgendosi col busto in avanti, nel tentativo di mettersi in piedi per sbatterlo lui stesso fuori dall’aula.
Jason accolse quella minaccia con un’alzata di spalle: «Vorrà dire che passerò direttamente al palcoscenico.»  Poi, in tono amaro, aggiunse: «Hayden, nel tuo passato sarai stato anche un grande attore ma nel presente, come uomo, vali meno di zero.» Disse avviandosi alla porta
«Cosa ne sai Taller di come deve essere un uomo?» Lo schernì sarcastico, Hayden
A quella provocazione Jason era tornato indietro col chiaro intento di sferrargli un pugno, ma poi si fermò: «Non mi abbasserò al tuo livello, Hayden.» Lanciò un’occhiata circolare al silenzioso auditorio degli studenti: «Per quanto ancora continuerete a farvi bullizzare da lui?» Domandò tagliente.
Senza attendere risposta, uscì dall’aula.«Visto che non lo sai, Taller, di come deve essere un uomo?» Urlò Hayden. Poi, in tono gelido, congedò i suoi allievi: «Per oggi la lezione è terminata.»
Nessuno di loro obiettò.


Fuori, in gruppo, si stava ancora commentando l’accaduto e Angie Rose chiese spiegazioni sui motivi del litigio.
«Ha tolto a Jasmine Wright la parte di “Anna Christie”, adducendo che lei non era all’altezza di quel ruolo che competeva, invece, ad una prima donna del calibro di Jason Taller.» Spiegò Peter Newton ridendo divertito «Poi ha chiesto chi di noi ragazzi si proponeva per la parte di Mat.» Rise ancora più forte «C’è da dire che Hayden ha un perverso senso dell’umorismo.»
«Peter, sei un povero stronzo!» Christine Logan esclamò con disprezzo, accingendosi a spiegare ad Angie Rose la dinamica dei fatti: «Jason aveva lo smalto alle unghie, è stato quello a mandare Hayden in paranoia, così quando Jasmine ha iniziato a leggere le sue battute lui l’ha interrotta dicendo che non era nel personaggio, che Anna Christie era una prostituta abituata a mentire sulla sua vera identità, per cui quella parte sembrava scritta proprio per Jason Taller, che di certo l’avrebbe meglio, e più di chiunque altro, realisticamente interpretata: “oltretutto, Taller, si è presentato in costume di scena” il riferimento era, appunto, allo smalto alle mani»
«Non c'è niente di divertente» S’intromise Andrew Saint Just vibrante di rabbia: « Hayden è un maledetto figlio di puttana»
«Ammettilo, vorresti anche tu smaltarti le unghie ma non ne hai il coraggio.» Lo schernì Peter Newton.
A quella provocazione Andrew gli si avventò contro gettandolo a terra. «Non vali i miei pugni e neppure il mio disprezzo.» Disse, voltandosi per andar via. Ma Peter si rialzò, lo afferrò per le spalle e con una violentissima spinta lo mandò a sbattere contro un muro. Andrew cadde al suolo privo di sensi.
«E’ stato lui ad iniziare. Lui mi ha mandato a terra. Lo avete visto tutti. Io mi sono solo difeso.» Peter Newton, smarrito, cercava conferma tra quelli che avevano assistito alla scena.
Nel frattempo era stata chiamata un’ambulanza e avvertita la famiglia di Andrew.
Alfred Hayden, messo al corrente dell’accaduto, uscì sul piazzale ammonendo gli studenti ad essere accorti nell’uso delle parole con i poliziotti e con i giornalisti, che di sicuro la stampa si sarebbe interessata alla vicenda, e una pubblicità negativa non avrebbe giovato a nessuno: «Quello che è accaduto è un deprecabile incidente senza intenzione di dolo, e come tale va trattato.» 
L’autoambulanza e la polizia erano giunte a sirene spiegate nello stesso momento. Andrew venne caricato sulla prima e Peter Newton sulla seconda, mentre venivano prese le generalità e raccolte le testimonianze di quelli che avevano assistito all'accaduto: tutti concordarono sulla versione dell’incidente.
Immobile, dietro i vetri della finestra del suo ufficio, Alfred Hayden aveva assistito a tutta la scena.

 Era pomeriggio inoltrato quando Angie Rose fece ritorno al suo appartamento. Imbruniva, ma le nubi s’erano diradate allontanando la minaccia di pioggia, e avrebbe potuto portare con sé Hamlet. Questo la rasserenò, distogliendola per un momento dal malessere per quanto accaduto accaduto, quel pomeriggio, alla “Alfred Hayden’s Acting Shool”. Il dubbio di aver troppo frettolosamente avvallato come incidente la vigliacca aggressione di Peter Newton ai danni di Andrew Saint Just la tormentava.  Era vero che Andrew era stato il primo a menar le mani, ma la reazione insensata di Peter, che lo aveva assalito alle spalle non giustificava la legittima difesa. Posta in questi termini la faccenda non poteva essere etichettata come "incidente". Forse avrebbe dovuto rivedere la sua testimonianza. Ne avrebbe parlato con Christine Logan.

Salendo le scale, diretta al suo appartamento, si ricordò della promessa fatta ad Olimpia Collins, ma in quel lungo pomeriggio erano saltati tutti gli orari e aveva appena il tempo di una doccia e di un cambio d’abiti, e poi di nuovo in metro alla volta di Brooklyn, per il suo turno di lavoro al ristorante, già valutando l'ipotesi, se fosse stata troppo stanca per il viaggio di ritorno, di fermarsi a dormire nella stanzetta adiacente alla cucina. In origine un piccolo vano ristrutturato per offrire una stanza ad Apache, e usato poi per le situazioni d’emergenza. Angie Rose aveva pensato più volte di trovarsi un appartamento nelle vicinanze del ristorante, ma gli affitti nella zona erano troppo alti in aggiunta alle spese per la scuola di recitazione, e il suo stipendio di cameriera, nonostante i generosi arrotondamenti di Gina, non sarebbe bastato per tutto. Avrebbe potuto cercarsi un lavoro più vicino al quartiere dove lei ora abitava, ma da nessun’altra parte avrebbe trovato il calore e l’empatia del “Gina Colombo’s Restaurant”. Gina, Marta, Apache e Jean Baptiste erano come una famiglia: si comprendevano e si sostenevano. Questioni gravi, fra loro, non c’erano mai state, almeno da quando lei vi lavorava: era tutto alla luce del giorno. I mugugni non avevano ragione di sostare nelle profondità delle viscere, quando portati in superficie trovavano una voce, uno sfogo e quasi sempre una soluzione.
Comparò il mondo luminoso e caldo di Gina Colombo a quello buio e freddo di Alfred Hayden: due universi asimetrici e incompatibili, distanti fra loro anni luce.
E lei vi sostava nel mezzo.