Dedico questo blog a mia madre, meravigliosa farfalla dalle ali scure e dal cuore buio, totalmente priva del senso del volo e dell'orientamento e, per questo, paurosa del cielo aperto. Nevrotica. Elusiva. Inafferrabile.

lunedì 26 aprile 2021

Il diario di Angie Rose


 

Le storie non sempre si chiudono con l'ultimo capitolo, e quella del "Gina Colombo's Restaurant" ne è un esempio, perché termina con un finale non definito...e da questo finale riparto per raccontare il destino dei protagonisti.



Una storia mai iniziata

Quel libro, scivolato dalla borsa di Angie Rose e raccolto da Simon, poteva essere il trait d'union per il proseguo della storia, ma così non fu, e i due non si rividero mai più.
Dopo il loro ultimo incontro al parco Simon era andò a cercarla a casa sua. Sul portone s'era imbattuto in Helen Bennet, alla quale aveva chiesto l'interno del suo appartamento: «Devo restituirle questo.» Mostrò il libro, perché lei lo guardava sospettosa.
Il titolo sulla copertina, "The Pover Of The Actor" la tranquillizzò: «Siete un suo compagno della scuola di recitazione?» Domandò curiosa. «L'ho vista prendere un taxi. Aveva una valigia...ed anche il suo cane.»
«Sa dov'è diretta?» S'informò lui, cercando di non mostrarsi troppo ansioso: «Oppure quando torna.»
Helen scosse il capo: «No, ma il libro può darlo a me. Glielo do io.» Tese una mano ma Simon aveva già infilato il libro in tasca: «Grazie, ma devo consegnarlo personalmente.» La ringraziò, ma prima di andar via le porse un bigliettino: «Se può essere così gentile, quando Angie torna, di dirle di chiamarmi.»
La sera stessa, Simon, andò al Colombo's Restaurant, per saperne di più su quella partenza, ma fece un buco nell'acqua. Nonostante i modi amabili, la proprietaria non gli fornì il minimo indizio.
Ostinato, il detective, continuò per qualche tempo a pattugliare il parco e ad appostarsi sotto casa della ragazza, nel frattempo ricorrendo anche ai contatti e ai canali di cui poteva avvalersi. Ma  le sue indagini non lo condussero a niente: Angie Rose sembrava essersi volatilizzata. Si rassegnò a non cercarla più solo quando scoprì che il contratto d'affitto del suo appartamento era stato rescisso
...e così, di lei, anche io persi le tracce. 



E' il 1985
E' il 1985, l'anno in cui si svolge il  racconto. Io allora avevo ventinove anni  ed ero  una scrittrice alquanto inesperta a  tenere nelle mie mani le redini della storia così da impedire ai personaggi di prendere il sopravvento,di  manipolare e modificare la trama. Se lo avessi scritto oggi avrei fatto in modo che Simon riuscisse a rintracciare  Angie Rose, o forse, io stessa, sarei riuscita ad impedirle di partire, e la storia avrebbe avuto un altro corso e un altro finale. Ma le cose andarono nel modo che conoscete, ed io, non sapendo come spicciarmela, archiviai questo pasticcio letterario nella cartella "racconti da rivedere", e me ne dimenticai
...fino al Settembre del 2020

 

Damian 
Nel settembre del 2020, tramite FB, mi contatta  Damian MacNeil che senza troppi preamboli mi sollecita per una videochiamata per parlare del passato "Un passato comune con molte cose da rimettere a posto", così mi scrive su Messenger.
Non ricordo di aver conosciuto nessun Damian MacNeil ed anche se la memoria spesso mi difetta nel rammentare i nomi, del suo, che è straniero, ne conserverei traccia. Cerco ragguagli nel suo profilo FB. La sua immagine di copertina è quella di un giovane uomo, occhi grigi e capelli biondo scuro, gli angoli della bocca leggermente all'insù conferiscono al suo volto un'espressione felice. Avrà l'età di mio figlio, quale passato comune potremmo mai avere? Sfoglio i suoi album e quel passato da lui evocato si materializza nella sua galleria fotografica in una sequenza d'immagini che mi riportano indietro d'una quarantina d'anni: Angie Rose ed Hamlet sullo sfondo di un parco; seduta ad un tavolo del Colombo's Restaurant con Apache e Gina e Marta (Jean Baptiste non è nel gruppo perché sta scattando la foto); la stessa istantanea, stavolta con Jean Baptiste. Ma ce ne sono altre che non ho mai visto come quelle di  Angie Rose il giorno del suo matrimonio con al fianco un giovane alto e snello, vestito di scuro; ancora con lei col pancione e poi con un neonato in braccio. Decine di foto per me inedite: le pagine mancanti al mio racconto. I sensi di colpa mi schiacciano perché in quelle foto sarei dovuto esserci anch'io.
Lo dico a Damian, nella videochiamata. Lui ha un espressione mortificata. Si scusa: «Mi spiace di averla fatta sentire in colpa, non era quella la mia intenzione né il mio scopo. A giugno la mamma è morta di Covid, non ho potuto né vederla né parlarle, ma nel mettere ordine fra le sue carte ho trovato un biglietto con la sua  richiesta esplicita, in caso di morte, di fare avere a lei il suo diario e le due lettere conservate fra le sue pagine. Non la sto giudicando, Mari, sto solo ottemperando alla volontà di mia madre.» Attraverso lo schermo i nostri sguardi s'incrociano. La sua somiglianza con Angie Rose mi commuove. Mi sorride, e poi mi confida con un po' d'imbarazzo: «Fino a ieri ignoravo l'esistenza di questo diario. L'ho letto, e le confesso che all'inizio ho provato una punta di gelosia perché quel diario non lo ha scritto per la nostra famiglia e neppure per sé stessa, ma per lei, Mari.» S'interrompe, aspettandosi che io dica qualcosa, che dia una risposta  spontanea quel suo "perché" inespresso ma che aleggia nell'aria. Come faccio a spiegargli che Angie Rose, sua madre, è una mia invenzione e lui è il figlio di quella mia invenzione, e che quindi nella realtà non esiste? «Un tempo eravamo amiche inseparabili, poi ci siamo perse.» Accoglie con un cenno d'assenso la mia risposta puerile, che non lo soddisfa né lo convince, ma si contenta di quella per non mettermi in imbarazzo. «Domani stesso provvederò all'invio. Ovviamente può farne l'uso che ritiene più opportuno e...» Lo interrompo: «Non farò niente senza la tua approvazione.» Mi sorride riconoscente: «E' bello da parte tua. Grazie» E' passato al tu e gliene sono grata, perché questo stabilisce una vicinanza.
Abbiamo parlato ancora a lungo, partendo dal passato per giungere al presente, motivo per cui del resto della conversazione non racconterò nulla poiché riguarda esclusivamente la vita di Damian, antecedente al periodo del Colombo's Restaurant. Fatti privati, che tali rimarranno.



Il diario di Angie Rose

Il diario di Angie Rose, consta in quattro quaderni dove gli eventi non sono cadenzati da date ma da titoli, allocando così ogni evento nell'ambito dei sentimenti anziché in quello del tempo.
Il diario inizia con la sua decisione di partire per un viaggio senza meta, per mettersi alla prova.

"«Non è una fuga, stavolta, ma un viaggio che prevede un ritorno» Ho detto a Gina, mettendola al corrente della mia decisione. Lei è rimasta in silenzio ma aveva gli occhi lucidi e mi ha abbracciato: «Devi fare quello che senti per non avere rimpianti, per questo non cercherò di trattenerti. L'ho fatto anch'io quel viaggio e mai me ne sono pentita.» Tutti, al Colombo's restaurant, si sono prodigati per rendermi agevole il viaggio e non troppo triste la partenza. Marta e Jean Baptiste mi hanno rifornito di una gran quantità di cibo e Apache consigli e dritte sperimentate. «Se ti cacci in casini troppo grandi hai due possibilità: far perdere le tue tracce oppure chiamarmi. In qualunque parte del mondo tu sarai, stai certa che arriverò.» L'ho abbracciato forte affinché mi trasmettesse un po' della sua forza e del suo coraggio. Lui deve avermi letto nel cuore perché si è tolto dal collo il suo amuleto, un laccio di cuoio con una freccia di turchese, e l'ha messo al mio: «Terrà lontano gli spiriti cattivi.»  Il dono di Gina è stato, invece, un assegno. Io non lo volevo, ma lei me lo ha infilato in tasca: «Non sei obbligata ad usarlo, ma in caso di necessità può fare la differenza.»

Il diario prosegue con il racconto del suo viaggio, che la mancanza di una cronologia temporale mi rende difficile quantificarne la durata, mentre il percorso geografico è specificato dal nome delle città e dei posti da lei visitati. Avventure e disavventure, scoperte ed esperienze, fino all'incontro, quando lei era già sulla via del ritorno, con Luke, a New Hope in Pennsylvania, .

"I nostri sguardi si sono incontrati nel riflesso di una vetrina e, nonostante gli anni trascorsi, ci siamo immediatamente riconosciuti e ritrovati. Fisicamente, Luke, non è cambiato da come lo ricordavo, tranne per i capelli che ora sono corti, ma non è più il ragazzo sfrontato di un tempo, è più pacato e consapevole. Ne sono rimasta piacevolmente sorpresa." 

   Angie Rose, si sofferma a lungo sulla conversazione chiarificatrice con Luke riguardo gli accadimenti che hanno stravolto le loro vite. Pagine molto intense di cui riporto un brevissimo sunto.

"Io e Luke abbiamo parlato con schiettezza di quello che era avvenuto: io del mio aborto e lui del suo esilio. Mi ha raccontato che i miei gli hanno reso la vita impossibile costringendolo di continuo a cambiare di città e, alla fine, a rinunciare agli studi: «Volevo diventare medico anestesista, ma ho dovuto accontentarmi di una laurea infermieristica.» Io gli ho detto del ricatto di mia madre, di cui  non sapeva nulla: o ti sposi o abortisci, altrimenti denunciamo Luke. «Mi avresti sposata?»  Gli ho chiesto.  Lui ha abbassato gli occhi e ha risposto di no «Non perché tu non mi piacessi, ma perché non ero pronto ad assumermi la responsabilità di un figlio e di una famiglia. Non sarebbe durato a lungo il nostro matrimonio.» 
 La sua sincerità mi ha alleggerito del peso di una responsabilità che in tutti quegli ha gravato come un macigno sulle mie spalle, perché ora so che qualunque risposta avessi dato all'ultimatum di mia madre i nostri destini non sarebbero cambiati. L'ho raccontato a Gina, al telefono, e lei ha convalidato le mie conclusioni: «Questo segna una pietra miliare in questo viaggio e nella tua vita. Ora forse, finalmente, riuscirai a perdonarti, o almeno ad essere più indulgente con te stessa.»"

Le pagine che seguono sono molto intime, incentrate sulla scoperta per entrambi di un amore più consapevole e maturo, diverso da quello esclusivamente sessuale della loro adolescenza.

"E' stata la nostra prima notte assieme, nel senso più sublime ed assoluto, perché nel passato non era mai accaduto di addormentarci e svegliarci nello stesso letto. Allora ero minorenne e vivendo in famiglia ero soggetta alle regole e agli orari imposti da mia madre. E' stato bellissimo. Non abbiamo fatto sesso ma abbiamo dormito abbracciati. Tra noi c'è sempre stata una forte attrazione fisica, ma questa notte trascorsa l'una nelle braccia dell'altro, completamente appagati dall'innocente contatto di quell'abbraccio, è stata rivelatoria della profondità dei nostri sentimenti.»

Angie Rose e Luke iniziano una convivenza che sfocerà poi nel matrimonio e nella nascita di Damian.
Dalle pagine del suo diario appare serena, appagata dalla sua nuova vita. Lavora in un vivaio dove le è permesso tenere Hamlet, e recita nella locale compagnia teatrale per la quale scrive anche i testi. Abbandonare il sogno di calcare i palcoscenici di Broadway non lo considera un fallimento, bensì una scelta. Così come scrive, in questo stralcio estrapolato dall'ultimo quaderno.

"Non smetterò mai di essere grata alla vita per tutte le cose belle che mi ha dato: Damian, mio figlio, il frutto luminoso del sentimento e della consapevolezza; l'amore di Luke per me e il mio per lui, e l'emozione intensa che provo ogni volta che mi sfiora o pronuncia il mio nome; l'affetto e il calore degli amici vicini e , ancor di più di quelli lontani, con le distanze che gli aerei annullano e la certezza di avere sempre un posto nel loro cuore. Ho una vita piena e felice, ho realizzato i miei sogni più belli, e per quelli che mi sono lasciata alle spalle non  nutro rimpianti, perché sono il risultato delle mie scelte e non l'esito dei miei fallimenti."

Ma fra tutte queste cose belle e positive, c'è il capitolo triste della morte di Hamlet, investito da una macchina nei pressi di casa. 

"Hamlet non c'è più, investito da un'auto proprio fuori il cancello di casa, non c'è stato nulla da fare, nonostante la mia disperata corsa dal veterinario, mi è morto tra le braccia. Non volevo lasciarlo andare. Non volevo che lui non ci fosse più. Ma non ho pianto...non mi è riuscito...il dolore mi si è annidato dentro coi suoi artigli crudeli a dilaniarmi...ma quando Luke, prima di deporre Hamlet nella cassettina, mi ha detto: «Dammi un tuo maglione, Angie Rose, per avvolgerlo dentro, così il tuo odore lo farà sentire al sicuro" quelle dita feroci hanno lasciato la presa e finalmente ho pianto. Lo abbiamo seppellito in giardino, a ridosso del cespuglio di ceanoto, lussureggiante di piccoli fiori azzurri e visibile dalla finestra della cucina." 

Angie Rose, dunque, non è più tornata a Brooklyn e si è stabilita a New Hope, ma ha continuato a mantenere i legami con la sua famiglia del Colombo's restaurant: è Apache ad accompagnarla all'altare, ed è Gina la madrina di battesimo di Damian. Nel frattempo Jean Baptiste si è preso una cotta per Abey, la nuova cameriera, innocentemente all'oscuro di quella sua infatuazione, di cui, invece, Marta ha avuto sentore. Angie Rose, informata da Gina, racconta il disastroso evolversi della vicenda.


 « Al telefono Gina mi ha detto che Jean Baptiste ha sempre la testa fra le nuvole, per fortuna che c'è Marta in cucina a sopperire alle sue dimenticanze, anche se ora lei e Jean Baptiste bisticciano più spesso e solo in francese, e questo la preoccupa. Per riportare la pace dovrebbe licenziare Abey, ma non le pare giusto (ed anch'io la penso allo stesso modo) dal momento che è una ragazza a posto e con un figlio da mantenere. E' una situazione davvero spinosa, dove qualsiasi soluzione risulterà ingiusta e sbagliata.»

Questa infatuazione di Jean Baptiste per Abey era stata una doccia fredda per Marta, convinta di occupare un posto privilegiato nel cuore di lui. La piccola messicana dai nobili sentimenti, aveva però fatto incredibili sforzi per non far trapelare la sua delusione, ma davanti all'aria imbambolata di lui, ridicola e tenera, tipica gli innamorati, alla fine aveva ceduto e si era licenziata.

"E' andata via in lacrime, irremovibile nella sua decisione. A niente sono valse le preghiere per un suo ripensamento. «D'improvviso la cucina è diventata un luogo freddo e silenzioso, Asettico. Disertato dalle voci e perfino dagli odori, mentre Jean Baptiste è diventato, se possibile, ancora più intrattabile.» Così ha commentato Gina al telefono."

"Al ristorante c'è un nuovo vice cuoco, Louis Ishikawa, di origine giapponese, diplomato alla "Chef Accademy" ma che non soddisfa le aspettative di Jean Baptiste. Non lo confesserà mai ma sono convinta che Marta deve mancargli terribilmente, solo che lui è così orgoglioso che non lo ammetterebbe neppure sotto tortura. Lei sapeva come prenderlo e le loro baruffe sapevano di gioco amoroso. Gina, mi ha detto che Jean Baptiste con Louis non litiga, anzi non parla affatto, si limita a togliergli il mestolo dalle mani e con una mimica muta, ad estrometterlo dai fornelli. E' molto sconfortata, perché tutto questo sta mettendo a dura prova la sua pazienza e quella di Apache."

Presumo che la faccenda sia andata avanti ancora per un certo tempo su questi toni e senza novità di rilievo, poiché Angie Rose, per molte pagina, non ne fa più menzione, fino a quando ritorna a parlarne, e stavolta con un sorriso.

"Come Gina temeva, Apache ha perso la pazienza e senza troppi preamboli ha imposto a Jean Baptiste di andare da Marta per chiederle scusa e implorarla di ritornare., o altrimenti poteva considerarsi licenziato. «Va da lei, stupido» gli ha intimato «e dille che ti manca, che l'ami e che la tua  vita è nelle sue mani. E credimi lo è davvero, perché se non le fai cambiare idea e la riporti qui, puoi considerarti disoccupato.» 

Marta non era tornata e Jean Baptiste non era stato licenziato, anche se ora passava tutto il suo tempo al telefono con lei a scambiarsi ricette e giuramenti d'amore. Ovviamente in francese. Jean Baptiste, il cui umore, a beneficio di tutti, era notevolmente migliorato, poteva trascorrere tutto quel tempo ad amoreggiare al telefono perché sapeva, anche se non l'avrebbe mai ammesso, che la cucina era nelle capaci mani di Louis Ishikawa, ottimo cuoco e raffinato sperimentatore d'inedite ed ardite mescolanze, ad arricchire, di esotiche contaminazioni, il fantasioso menù del Colombo's restaurant.
Nel contempo, Abey, assolutamente ignara d'essere stata lei la causa del terremoto che aveva scosso per un momento le fondamenta del Colombo' restaurant, s'era con naturalezza integrata nel nucleo famigliare, così quando non c'erano i suoi genitori a far da baby sitter al piccolo Axel di quattro anni,  lei se lo portava dietro. Il bimbo era diventato il nipote di tutti, ed esclusivamente per lui era stata ristrutturata, ed abbellita, la stanza che un tempo era stata di Apache.


Il diario di Angie Rose termina qui, con il racconto del ritorno della pace e dell'armonia, dopo che Jean Baptiste s'è finalmente dichiarato a Marta. Un meritato lieto fine che io stessa, se fossi andata avanti col racconto, avrei programmato.
Ma la storia non si conclude con l'ultima pagina del diario ma con le due lettere, quella di Gina per Angie Rose, e quella di Angie Rose per me.


La lettera di Gina
"Angie Rose, per la festa del ringraziamento non dovete mancare perché Marta è ormai prossima al parto e così avrete modo di conoscere questo nuovo bambino/bambina, di cui non sappiamo il sesso perché Jean Baptiste e Marta hanno preferito fosse una sorpresa per loro e per noi.

Nel frattempo, Apache ed io, stiamo pensando di ristrutturare il ristorante dotandolo di una cucina più ampia, o magari due, perché Jean Baptiste e Louis, spesso in disaccordo, sproloquiano l'uno in francese e l'altro in giapponese, fronteggiandosi come tori nell'arena, e scalpitando fra mestoli e tegami, in uno spazio ormai esiguo per le loro dispute. Quei due non  s'intenderanno mai, seppure si stimano e in segreto apprezzano le peculiarità delle reciproche pietanze.
Ma questo loro darsi di voce, in maniera teatrale e molto divertente, è diventato uno dei punti di forza del ristorante, come un tempo lo è stato il mio frantumare vetri e cristallerie con la potenza della mia voce. Ho smesso di esibirmi per via di certi dolori al petto, ma anche perché sono convinta che bisogna lasciare spazio alle novità e al rinnovamento, senza però abiurare al passato: cambiamento di pelle ma non di anima. Motivo per cui vi aspettiamo, per un'ultima volta nel vecchio locale."



La lettera di Angie Rose

"Mari, quella che Damian ti ha consegnato è l'ultima lettera che ho ricevuto da Gina, perché una settimana dopo è morta, stroncata da un infarto. A distanza di un paio di mesi Apache l'ha seguita: il suo cuore non ha retto al dolore. Lui, così spericolato e audace, questa volta, si è spontaneamente consegnato al nemico. Il ristorante, secondo le loro volontà, è andato in eredità a Marta e Jean Baptiste, che lo gestiscono  tutt'oggi, consapevoli custodi dell'inestimabile valore di quel lascito, avvalendosi dell'aiuto di Gina, la loro primogenita. Della loro nidiata di figli, tutti battezzati con un doppio nome, spagnolo e francese, lei è l'unica ad averlo singolo e italiano. Ma c'è anche un Russel Joseph, (il vero nome di Apache) ed è il mio secondogenito, concepito l'anno dopo la sua morte. Quando Russsel Joseph è nato, invece della catenina del battesimo, gli ho messo al collo l'amuleto che Apache mi aveva donato quando sono partita, il suo laccio con la freccia di turchese, perché diventasse  simile a lui nel coraggio e nella determinazione. Devo confessarti una cosa Mari: il mio amore per quell'uomo forte e gentile ha convissuto, in tutti questi anni, con la stessa intensità di quello che ho per mio marito, in perfetta armonia e senza sensi di colpa, neppure nei confronti di Gina che, sono certa, lo avesse intuito.
Jean Baptiste e Louis Ishikawa continuano a contendersi i primati ai fornelli, ma lo show è ora privato e messo in scena solo per dilettare sé stessi che continuano a bisticciare, l'uno in francese e l'altro in giapponese, sulle soglie delle rispettive cucine, ma senza mai alzare la voce. Abey, è rimasta a servire ai tavoli fino al giorno in cui è stata assunta alle poste, poi ha continuato a frequentare il locale come cliente, e tutti noi, perché anche lei parte della nostra meravigliosa famiglia.
 L'unica assente, in tutti questi anni sei stata tu, Mari, però nessuno te ne serba rancore, ma se capiti dalle parti di Brooklyn fai una capatina al ristorante, nonostante il locale abbia subito una radicale ristrutturazione, lo scoprirai uguale a come era nel 1985, perché il Colombo's Restaurant ha solo  cambiato la pelle ma non la sua anima. 


domenica 18 aprile 2021

Gina Colombo's Restaurant (cap 6)


 

Incontri/Scontri

Il suono della radio propagava ad alto volume lungo le scale, segno che Olimpia Collins era tornata. Il primo istinto di Angie Rose fu quello di farle visita per avere notizie di Bob, ma desistette per tema di un’accoglienza fredda, o peggio ancora di una scenata, quando la porta si aprì e Olimpia s’affacciò sulla soglia. 
«Ciao, Rose. Hai un momento?» Con un cenno del capo Olimpia la invitò ad entrare.
«Certo» rispose Angie Rose «Come sta Bob?» Chiese, entrando in casa.
«Meglio». Rispose asciutta la vecchia signora, poi saltando ogni preambolo, disse«Durante la mia assenza qualcuno è entrato in casa e mi ha derubato»
«Mi spiace. Hai sporto denuncia?».
«Perché me lo chiedi? Sai bene che non avrei potuto!» Esclamò stizzita Olimpia.
Angie Rose si limitò ad un’alzata di spalle: «Perché no? Se si sono portati via cose di tua proprietà».
«Qualcuno è entrato nel mio appartamento, ha frugato messo in subbuglio i cassetti e gli armadi e...e se fossi stata in casa magari mi avrebbe uccisa!»
«Io te lo avevo detto che le cose potevano mettersi male».Ribadì paziente, Angie Rose.
«Oh si, tu mi avevi avvertito e guarda caso è proprio quello che è avvenuto!».
«Cosa intendi dire?» Domandò esterrefatta la ragazza
Che la borsa l’hai rubata tu» Sibilò Olimpia, puntandole un dito contro.
Angie Rose, davanti a quell’accusa rimase per un attimo frastornata poi, cedendo alla rabbia, l’afferrò per un braccio e la condusse alla porta: «Salicontrollare a controllare!» Le intimò furiosa, mentre Hamlet ringhiava di sottofondo.
L’anziana donna si liberò dalla stretta e proruppe in una risata sarcastica: «Non ti faccio così stupida! Avrai nascosto la borsa da qualche altra parte al sicuro».
«Sei davvero meschina, Olimpia. Non abbiamo altro da dirci». Mormorò amareggiata Angie Rose, andando via.

Entrata in casa azionò la segreteria telefonica. Tra i messaggi c’era quello di Christine Logan che le comunicava che Andrew Saint Just era uscito dal coma e se poteva richiamarla. Cosa che fece immediatamente.
Dall’altro capo del filo le rispose Christine, cordiale e rilassata: «Andrew si è risvegliato».
«E’ una notizia splendida».
«Sta bene e non ha riportato nessun tipo di trauma. Direi che le cose vanno indirizzandosi nel verso giusto.
«Giusto, per chi?» Angie Rose domandò ironica
«Per tutti, visto che Andrew non intende denunciare Peter Newton e neppure Alfred Hayden» Ribatté tranquilla l’altra.
«Christine...pensi davvero che sia giusto? Poteva morire o riportare gravi conseguenze, così ...».
«Ma per fortuna, non è successo » La interruppe impaziente, Christine: «E’ la decisione di Andrew, e va rispettata. Ti consiglio di non prendere iniziative personali, di non metterti di traverso, perché non troveresti nessuno dalla tua parte».
«Neppure Andrew, scommetto, troverebbe qualcuno disposto a supportarlo in caso di denuncia. E’ per questo che ha lasciato perdere?».
«Sei un’irriducibile idealista, amica mia. E se fosse per un ricco risarcimento? Una cifra con molti zeri?»
«Lo sai per certo?» Domandò delusa Angie Rose.
«E’ quello che si dice dopo la visita precipitosa di Hayden al capezzale di Andrew e l’espulsione di Peter Newton dall’Accademia». Concluse, sarcastica, Christine Logan.
Terminata la telefonata, Angie Rose si sentì pervadere dalla rabbia e dal disgusto, verso il mondo e verso sé stessa, soggiogata dal peso della sua impotenza a poter cambiare le cose e permettere alla verità e alla giustizia di trionfare. Christine Logan l’aveva definita “irriducibile idealista”, ma non era vero perché altrimenti, a dispetto della volontà di Andrew, avrebbe lei stessa denunciato l’abominevole baratto del denaro in cambio della verità. Si guardò intorno in cerca di una via di fuga, così come aveva fatto nel passato, quando non riuscendo ad opporsi a sua madre e far valere le sue ragioni, era fuggita. Ma allora, dalla sua, aveva le attenuanti della giovane età: una giustificazione che non riteneva più valida nel presente. Nell’ultimo periodo aveva disertato le lezioni, ma nessuno pareva essersene accorto. Nessuno l’aveva cercata, tranne l’ufficio amministrativo che con una lettera le ricordava che a fine semestre le sarebbero state addebitate anche le lezioni a cui non aveva partecipato. Un mondo cannibale, quello della “Alfred Hayden’s Acting School”, dove non contavano le persone ma i ruoli, e la sua assenza aveva costituito per qualcuno la possibilità di prendere il suo posto. Anche se nessuno, in verità, poteva reclamare il proprio posto, perché quello veniva stabilito, di volta in volta, dagli umori di Hayden.
La nausea l’assalì prepotente e corse in bagno a vomitare. Hamlet la seguì, arrestandosi sulla soglia. Conscia della sua presenza, Angie Rose, si chinò su di lui stringendolo in un abbraccio: «Grazie di esserci, amico» mormorò, accarezzandolo. Il cane la gratificò di uno sguardo adorante e di un guaito d’intesa.


«Angie » Sentendosi chiamare col suo nome dimezzato, s’era voltata sorpresa, mentre Hamlet, con un agile scarto, era corso verso l’ingresso del parco abbaiando festoso verso Simon ed Aretha.
Simon, liberata Aretha dal collare, la raggiunse: «Ciao, come va?» domandò, e senza attendere risposta aggiunse: «Speravo di ritrovarti».
«Deve essere il tuo giorno fortunato, allora» Disse lei, se con una punta d’ironia.
«Direi proprio di si» Rispose Simon, che non aveva rilevato il sarcasmo. «Ma a dire il vero la fortuna c’entra poco, in realtà ti ho aspettato tutti i giorni».
«Ha tutta l’aria di un appostamento: non è che sei uno stalker?».
«Se lo fossi mi avresti trovato sotto casa tua».
«Ma avresti prima dovuto scoprire dove abito».
«Non è così difficile per un detective».
Angie Rose si fermò e lo fronteggiò furiosa: «Sei un detective? Su incarico di chi stai lavorando? Di mia madre o di mio padre? Tanto non fa differenza, non voglio averci a che fare con nessuno dei due. Puoi riferirglielo e, in quanto a te, non farti più vedere».
«Aspetta!» Esclamò lui, cercando di trattenerla: «Deve esserci un malinteso... non so niente delle tue storie di famiglia e nessuno mi ha incaricato di rintracciarti. Il nostro incontro è stato del tutto casuale».
«Come questo? Scusami, ma mi riesce difficile crederti» Disse mentre metteva il collare ad Hamlet che attirato dalle voci concitate era tornato indietro seguito da Aretha.
«E invece dovresti! Se le cose fossero come tu immagini, cosa ci avrei ricavato a dirti che sono un detective?». Le urlò dietro esasperato.
«Stai lontano da me!» Lo ammonì infuriata, correndo verso l’uscita.
Nella concitazione del momento, dalla sua borsa era scivolato un libro “The Power Of The Actor”, declamava il titolo. Simon lo raccolse e la rincorse: «Ehy... Angie...il tuo libro».
Ma lei era già andata via.
«Dobbiamo ritrovarla per restituirle questo» Disse ad Aretha, mostrandole il libro « ma soprattutto per chiarire il malinteso. Sei d’accordo?» Aretha approvò dimenando la coda.



La luce filtrava morbida, schermata dagli studiati panneggi delle tende alla finestra del lussuoso ufficio di Alfred Hayden. Quando Angie Rose entrò lui era alla scrivania intento a firmare delle carte, e al suo ingresso non alzò gli occhi a guardarla e neppure le fece cenno di sedersi. Solo dopo aver terminato il suo lavoro, e riposto la penna nell’astuccio, la fissò freddamente e le porse i fogli su cui l’attimo prima stava scrivendo.
«Le sue dimissioni dall’Accademia, signorina Hathaway».
Angie Rose prese il fascicoletto dalle mani di Hayden e rimase incerta, in piedi davanti a lui.
«Non c’è altro. Può andare» Disse congedandola e tornando a concentrarsi sui fogli di una cartella.
Ma lei era rimasta ferma al suo posto, costringendolo ad alzare lo sguardo e prendere atto della sua presenza.
«Non me ne vado senza prima renderle note le ragioni per cui lascio la sua scuola»
«Non m’interessano i suoi motivi». Replicò indifferente
«Ma io intendo comunque dirglieli, e non me ne andrò di qui senza averlo fatto» Angie Rose si avviò alla porta e la chiuse a chiave.
«Cosa diavolo pensa di fare? E’ sequestro di persona, questo!» Scattò rabbioso. Era impallidito e una grossa vena pulsava sulla sua tempia sinistra.
«Io lo definirei un confronto privato su riguardo quanto accaduto ad Andrew Saint Just».
«Chiamo la polizia» Disse Hayden allungando la mano verso il telefono.
«Faccia pure. Quando chiederanno spiegazioni avrò molte cose da raccontare. In ogni caso sarebbe un secondo “incidente” che accade nella sua scuola, a distanza di pochi giorni. » disse guardandolo ironica «e credo che qualche sospetto lo desterebbe. Una cattiva pubblicità per la sua Accademia».
Alfred Hayden scoppiò in una risata: «L’ho sopravvalutata, signorina Hathaway, non è poi una così brillante attrice come avevo creduto. E sta recitando un copione già visto».
«Esattamente come lei, che da anni interpreta un unico ruolo: sé stesso. E vive di luce riflessa». Disse indicando gli attestati e i premi della sua passata carriera.
«Ma questi cimeli non sono bastati a riempire la sua vita non più sotto la luce dei riflettori, mentre lei voleva si continuasse a parlare di lei. E lo ha fatto con la collera di un uomo frustrato che ogni giorno scarica sui suoi studenti il suo livore, solo per ricordare a loro, e a sé stesso, la sua trascorsa grandezza. La odiano tutti ma a lei non importa, perché è da quest’odio che trae lo spunto per le sue piccole angherie quotidiane con cui umilia i suoi studenti, colpevoli di avere un futuro mentre lei ha solo un passato».
In un impeto d’ira tentò di mettersi in piedi ma non gli riuscì, e così afferrò un pesante fermacarte e glielo lanciò contro. Poi s’accasciò sul sedile della carrozzina, tremante e con il fiato smorzato.
Qualcuno prese a battere con forza alla porta, dopo aver tentato inutilmente di aprirla.
« Alfred...cosa sta succedendo?» Chiese preoccupata una donna dietro l’uscio : «Per l’amor di Dio, rispondi!»
Angie Rose aprì la porta e quella quasi la travolse, nel precipitarsi a soccorrere Hayden.
Nel cortile s’imbattè in Christine Logan e Jasmine Wright, ma le ignorò tirando dritta per la sua strada.


Splendida nel suo abito da sera rosso, un colore inusuale per lei che preferiva le tinte fredde, come il verde e il turchese, che risaltavano i suoi occhi, Gina Colombo s’era esibita, poco prima della chiusura, nello spettacolo della rottura dei bicchieri, infrangendo, con la potenza della sua voce, quelli apparecchiati sulle tavole e quelli nelle vetrine. Gli avventori, che erano stato adunati in una zona sicura del ristorante dove le schegge non potevano arrivare, applaudivano alla pioggia di cristallo e alla dea vestita di rosso che l’aveva provocata. Gina li aveva stregati con la sua voce e la sua presenza, ma i suoi occhi guardavano il fondo della sala dove c’era Apache. Angie Rose intercettò quello sguardo ma se ne distolse imbarazzata, come stesse violando un segreto che non le apparteneva, anche se, in quel momento, tutto pareva intriso di magia, palpitante e chiaro: alla luce del sole. Solo il suo cuore rimaneva buio, amareggiato dalle menzogne del mondo fuori la porta del Colombo’s Restaurant. Quel mondo a cui inevitabilmente avrebbe dovuto far ritorno quando il ristorante avrebbe spento le luci e chiuso i battenti. Ma di tornare a casa non se la sentiva e avrebbe chiesto a Gina di potersi fermare a dormire li, nella stanza che un tempo era stata di Apache. Hamlet era con lei e non c’era nessun altro a cui avrebbe dovuto rendere conto del suo mancato rientro.
«Puoi venire da me. La mia stanza degli ospiti è di certo più confortevole» Le propose Gina.
«Grazie» Rispose riconoscente « ma se per te va bene, vorrei stare qui».
Gina assentì, comprensiva: «A volte si ha necessità di restare soli...che è diverso, però, dall’essere soli...così di qualunque cosa tu abbia bisogno, chiamami». Disse indicando il telefono.
Già sulla strada, tornò indietro per un ultimo abbraccio.



Rimasta sola,
Angie Rose uscì con Hamlet nel cortiletto della cucina. La notte primaverile, brulicante di stelle, profumava di gelsomino. In lontananza si snodava il nastro scuro della strada punteggiato dalle luci dei fari delle auto in transito. Il paesaggio era tutto lì, racchiuso in quegli scarni fotogrammi: non c’era altro da vedere. Si sedette sulla soglia ed Hamlet le si accucciò accanto, col muso nel suo grembo. C’era una gran pace. Tornò a guardare la strada che, attraverso le assi orizzontali dello steccato, appariva segmentata in porzioni ordinatamente intervallate, nella distanza e nell’ampiezza. Ogni tratto d’asfalto conduceva verso luoghi e destini diversi. Quello percorso da lei l’aveva portata fin lì. Punto d’arrivo o di partenza?
Angie Rose non lo sapeva ancora, e forse non era poi così importante stabilirlo in quel momento.