Dedico questo blog a mia madre, meravigliosa farfalla dalle ali scure e dal cuore buio, totalmente priva del senso del volo e dell'orientamento e, per questo, paurosa del cielo aperto. Nevrotica. Elusiva. Inafferrabile.

domenica 18 aprile 2021

Gina Colombo's Restaurant (cap 6)


 

Incontri/Scontri

Il suono della radio propagava ad alto volume lungo le scale, segno che Olimpia Collins era tornata. Il primo istinto di Angie Rose fu quello di farle visita per avere notizie di Bob, ma desistette per tema di un’accoglienza fredda, o peggio ancora di una scenata, quando la porta si aprì e Olimpia s’affacciò sulla soglia. 
«Ciao, Rose. Hai un momento?» Con un cenno del capo Olimpia la invitò ad entrare.
«Certo» rispose Angie Rose «Come sta Bob?» Chiese, entrando in casa.
«Meglio». Rispose asciutta la vecchia signora, poi saltando ogni preambolo, disse«Durante la mia assenza qualcuno è entrato in casa e mi ha derubato»
«Mi spiace. Hai sporto denuncia?».
«Perché me lo chiedi? Sai bene che non avrei potuto!» Esclamò stizzita Olimpia.
Angie Rose si limitò ad un’alzata di spalle: «Perché no? Se si sono portati via cose di tua proprietà».
«Qualcuno è entrato nel mio appartamento, ha frugato messo in subbuglio i cassetti e gli armadi e...e se fossi stata in casa magari mi avrebbe uccisa!»
«Io te lo avevo detto che le cose potevano mettersi male».Ribadì paziente, Angie Rose.
«Oh si, tu mi avevi avvertito e guarda caso è proprio quello che è avvenuto!».
«Cosa intendi dire?» Domandò esterrefatta la ragazza
Che la borsa l’hai rubata tu» Sibilò Olimpia, puntandole un dito contro.
Angie Rose, davanti a quell’accusa rimase per un attimo frastornata poi, cedendo alla rabbia, l’afferrò per un braccio e la condusse alla porta: «Salicontrollare a controllare!» Le intimò furiosa, mentre Hamlet ringhiava di sottofondo.
L’anziana donna si liberò dalla stretta e proruppe in una risata sarcastica: «Non ti faccio così stupida! Avrai nascosto la borsa da qualche altra parte al sicuro».
«Sei davvero meschina, Olimpia. Non abbiamo altro da dirci». Mormorò amareggiata Angie Rose, andando via.

Entrata in casa azionò la segreteria telefonica. Tra i messaggi c’era quello di Christine Logan che le comunicava che Andrew Saint Just era uscito dal coma e se poteva richiamarla. Cosa che fece immediatamente.
Dall’altro capo del filo le rispose Christine, cordiale e rilassata: «Andrew si è risvegliato».
«E’ una notizia splendida».
«Sta bene e non ha riportato nessun tipo di trauma. Direi che le cose vanno indirizzandosi nel verso giusto.
«Giusto, per chi?» Angie Rose domandò ironica
«Per tutti, visto che Andrew non intende denunciare Peter Newton e neppure Alfred Hayden» Ribatté tranquilla l’altra.
«Christine...pensi davvero che sia giusto? Poteva morire o riportare gravi conseguenze, così ...».
«Ma per fortuna, non è successo » La interruppe impaziente, Christine: «E’ la decisione di Andrew, e va rispettata. Ti consiglio di non prendere iniziative personali, di non metterti di traverso, perché non troveresti nessuno dalla tua parte».
«Neppure Andrew, scommetto, troverebbe qualcuno disposto a supportarlo in caso di denuncia. E’ per questo che ha lasciato perdere?».
«Sei un’irriducibile idealista, amica mia. E se fosse per un ricco risarcimento? Una cifra con molti zeri?»
«Lo sai per certo?» Domandò delusa Angie Rose.
«E’ quello che si dice dopo la visita precipitosa di Hayden al capezzale di Andrew e l’espulsione di Peter Newton dall’Accademia». Concluse, sarcastica, Christine Logan.
Terminata la telefonata, Angie Rose si sentì pervadere dalla rabbia e dal disgusto, verso il mondo e verso sé stessa, soggiogata dal peso della sua impotenza a poter cambiare le cose e permettere alla verità e alla giustizia di trionfare. Christine Logan l’aveva definita “irriducibile idealista”, ma non era vero perché altrimenti, a dispetto della volontà di Andrew, avrebbe lei stessa denunciato l’abominevole baratto del denaro in cambio della verità. Si guardò intorno in cerca di una via di fuga, così come aveva fatto nel passato, quando non riuscendo ad opporsi a sua madre e far valere le sue ragioni, era fuggita. Ma allora, dalla sua, aveva le attenuanti della giovane età: una giustificazione che non riteneva più valida nel presente. Nell’ultimo periodo aveva disertato le lezioni, ma nessuno pareva essersene accorto. Nessuno l’aveva cercata, tranne l’ufficio amministrativo che con una lettera le ricordava che a fine semestre le sarebbero state addebitate anche le lezioni a cui non aveva partecipato. Un mondo cannibale, quello della “Alfred Hayden’s Acting School”, dove non contavano le persone ma i ruoli, e la sua assenza aveva costituito per qualcuno la possibilità di prendere il suo posto. Anche se nessuno, in verità, poteva reclamare il proprio posto, perché quello veniva stabilito, di volta in volta, dagli umori di Hayden.
La nausea l’assalì prepotente e corse in bagno a vomitare. Hamlet la seguì, arrestandosi sulla soglia. Conscia della sua presenza, Angie Rose, si chinò su di lui stringendolo in un abbraccio: «Grazie di esserci, amico» mormorò, accarezzandolo. Il cane la gratificò di uno sguardo adorante e di un guaito d’intesa.


«Angie » Sentendosi chiamare col suo nome dimezzato, s’era voltata sorpresa, mentre Hamlet, con un agile scarto, era corso verso l’ingresso del parco abbaiando festoso verso Simon ed Aretha.
Simon, liberata Aretha dal collare, la raggiunse: «Ciao, come va?» domandò, e senza attendere risposta aggiunse: «Speravo di ritrovarti».
«Deve essere il tuo giorno fortunato, allora» Disse lei, se con una punta d’ironia.
«Direi proprio di si» Rispose Simon, che non aveva rilevato il sarcasmo. «Ma a dire il vero la fortuna c’entra poco, in realtà ti ho aspettato tutti i giorni».
«Ha tutta l’aria di un appostamento: non è che sei uno stalker?».
«Se lo fossi mi avresti trovato sotto casa tua».
«Ma avresti prima dovuto scoprire dove abito».
«Non è così difficile per un detective».
Angie Rose si fermò e lo fronteggiò furiosa: «Sei un detective? Su incarico di chi stai lavorando? Di mia madre o di mio padre? Tanto non fa differenza, non voglio averci a che fare con nessuno dei due. Puoi riferirglielo e, in quanto a te, non farti più vedere».
«Aspetta!» Esclamò lui, cercando di trattenerla: «Deve esserci un malinteso... non so niente delle tue storie di famiglia e nessuno mi ha incaricato di rintracciarti. Il nostro incontro è stato del tutto casuale».
«Come questo? Scusami, ma mi riesce difficile crederti» Disse mentre metteva il collare ad Hamlet che attirato dalle voci concitate era tornato indietro seguito da Aretha.
«E invece dovresti! Se le cose fossero come tu immagini, cosa ci avrei ricavato a dirti che sono un detective?». Le urlò dietro esasperato.
«Stai lontano da me!» Lo ammonì infuriata, correndo verso l’uscita.
Nella concitazione del momento, dalla sua borsa era scivolato un libro “The Power Of The Actor”, declamava il titolo. Simon lo raccolse e la rincorse: «Ehy... Angie...il tuo libro».
Ma lei era già andata via.
«Dobbiamo ritrovarla per restituirle questo» Disse ad Aretha, mostrandole il libro « ma soprattutto per chiarire il malinteso. Sei d’accordo?» Aretha approvò dimenando la coda.



La luce filtrava morbida, schermata dagli studiati panneggi delle tende alla finestra del lussuoso ufficio di Alfred Hayden. Quando Angie Rose entrò lui era alla scrivania intento a firmare delle carte, e al suo ingresso non alzò gli occhi a guardarla e neppure le fece cenno di sedersi. Solo dopo aver terminato il suo lavoro, e riposto la penna nell’astuccio, la fissò freddamente e le porse i fogli su cui l’attimo prima stava scrivendo.
«Le sue dimissioni dall’Accademia, signorina Hathaway».
Angie Rose prese il fascicoletto dalle mani di Hayden e rimase incerta, in piedi davanti a lui.
«Non c’è altro. Può andare» Disse congedandola e tornando a concentrarsi sui fogli di una cartella.
Ma lei era rimasta ferma al suo posto, costringendolo ad alzare lo sguardo e prendere atto della sua presenza.
«Non me ne vado senza prima renderle note le ragioni per cui lascio la sua scuola»
«Non m’interessano i suoi motivi». Replicò indifferente
«Ma io intendo comunque dirglieli, e non me ne andrò di qui senza averlo fatto» Angie Rose si avviò alla porta e la chiuse a chiave.
«Cosa diavolo pensa di fare? E’ sequestro di persona, questo!» Scattò rabbioso. Era impallidito e una grossa vena pulsava sulla sua tempia sinistra.
«Io lo definirei un confronto privato su riguardo quanto accaduto ad Andrew Saint Just».
«Chiamo la polizia» Disse Hayden allungando la mano verso il telefono.
«Faccia pure. Quando chiederanno spiegazioni avrò molte cose da raccontare. In ogni caso sarebbe un secondo “incidente” che accade nella sua scuola, a distanza di pochi giorni. » disse guardandolo ironica «e credo che qualche sospetto lo desterebbe. Una cattiva pubblicità per la sua Accademia».
Alfred Hayden scoppiò in una risata: «L’ho sopravvalutata, signorina Hathaway, non è poi una così brillante attrice come avevo creduto. E sta recitando un copione già visto».
«Esattamente come lei, che da anni interpreta un unico ruolo: sé stesso. E vive di luce riflessa». Disse indicando gli attestati e i premi della sua passata carriera.
«Ma questi cimeli non sono bastati a riempire la sua vita non più sotto la luce dei riflettori, mentre lei voleva si continuasse a parlare di lei. E lo ha fatto con la collera di un uomo frustrato che ogni giorno scarica sui suoi studenti il suo livore, solo per ricordare a loro, e a sé stesso, la sua trascorsa grandezza. La odiano tutti ma a lei non importa, perché è da quest’odio che trae lo spunto per le sue piccole angherie quotidiane con cui umilia i suoi studenti, colpevoli di avere un futuro mentre lei ha solo un passato».
In un impeto d’ira tentò di mettersi in piedi ma non gli riuscì, e così afferrò un pesante fermacarte e glielo lanciò contro. Poi s’accasciò sul sedile della carrozzina, tremante e con il fiato smorzato.
Qualcuno prese a battere con forza alla porta, dopo aver tentato inutilmente di aprirla.
« Alfred...cosa sta succedendo?» Chiese preoccupata una donna dietro l’uscio : «Per l’amor di Dio, rispondi!»
Angie Rose aprì la porta e quella quasi la travolse, nel precipitarsi a soccorrere Hayden.
Nel cortile s’imbattè in Christine Logan e Jasmine Wright, ma le ignorò tirando dritta per la sua strada.


Splendida nel suo abito da sera rosso, un colore inusuale per lei che preferiva le tinte fredde, come il verde e il turchese, che risaltavano i suoi occhi, Gina Colombo s’era esibita, poco prima della chiusura, nello spettacolo della rottura dei bicchieri, infrangendo, con la potenza della sua voce, quelli apparecchiati sulle tavole e quelli nelle vetrine. Gli avventori, che erano stato adunati in una zona sicura del ristorante dove le schegge non potevano arrivare, applaudivano alla pioggia di cristallo e alla dea vestita di rosso che l’aveva provocata. Gina li aveva stregati con la sua voce e la sua presenza, ma i suoi occhi guardavano il fondo della sala dove c’era Apache. Angie Rose intercettò quello sguardo ma se ne distolse imbarazzata, come stesse violando un segreto che non le apparteneva, anche se, in quel momento, tutto pareva intriso di magia, palpitante e chiaro: alla luce del sole. Solo il suo cuore rimaneva buio, amareggiato dalle menzogne del mondo fuori la porta del Colombo’s Restaurant. Quel mondo a cui inevitabilmente avrebbe dovuto far ritorno quando il ristorante avrebbe spento le luci e chiuso i battenti. Ma di tornare a casa non se la sentiva e avrebbe chiesto a Gina di potersi fermare a dormire li, nella stanza che un tempo era stata di Apache. Hamlet era con lei e non c’era nessun altro a cui avrebbe dovuto rendere conto del suo mancato rientro.
«Puoi venire da me. La mia stanza degli ospiti è di certo più confortevole» Le propose Gina.
«Grazie» Rispose riconoscente « ma se per te va bene, vorrei stare qui».
Gina assentì, comprensiva: «A volte si ha necessità di restare soli...che è diverso, però, dall’essere soli...così di qualunque cosa tu abbia bisogno, chiamami». Disse indicando il telefono.
Già sulla strada, tornò indietro per un ultimo abbraccio.



Rimasta sola,
Angie Rose uscì con Hamlet nel cortiletto della cucina. La notte primaverile, brulicante di stelle, profumava di gelsomino. In lontananza si snodava il nastro scuro della strada punteggiato dalle luci dei fari delle auto in transito. Il paesaggio era tutto lì, racchiuso in quegli scarni fotogrammi: non c’era altro da vedere. Si sedette sulla soglia ed Hamlet le si accucciò accanto, col muso nel suo grembo. C’era una gran pace. Tornò a guardare la strada che, attraverso le assi orizzontali dello steccato, appariva segmentata in porzioni ordinatamente intervallate, nella distanza e nell’ampiezza. Ogni tratto d’asfalto conduceva verso luoghi e destini diversi. Quello percorso da lei l’aveva portata fin lì. Punto d’arrivo o di partenza?
Angie Rose non lo sapeva ancora, e forse non era poi così importante stabilirlo in quel momento.



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