Dedico questo blog a mia madre, meravigliosa farfalla dalle ali scure e dal cuore buio, totalmente priva del senso del volo e dell'orientamento e, per questo, paurosa del cielo aperto. Nevrotica. Elusiva. Inafferrabile.

giovedì 30 giugno 2022

Il Faro di Zion (cap.3)


 

L’OROLOGIO DALI’
Con un solo colpo d’occhio Licantropo aveva intercettato il corpo estraneo nella montagna di oggetti sparsi sul pavimento.

«Questo non è nostro!» esclamò estraendo dal mucchio il quadrante azzurrino e molle, di un orologio privo di cinturino, come quelli dipinti da Salvator Dalì.
Dj prese l’orologio e dopo averlo osservato con curiosità domandò a Joe: «Ne sei davvero certo?».

«Non è nostro!» confermò Licantropo con sicurezza, perché a differenza di Dj, distratto di natura, possedeva una memoria fenomenale. Quel “non è nostro” implicava oltre il suo forte coinvolgimento emotivo, anche la sua dichiarata appartenenza alla casa.

«Dunque, non si è trattato di un furto ma di un lascito» rifletté Dj «ma perché tutto questo casino piuttosto che consegnarmelo personalmente o spedirmelo per posta? E cosa sta a significare?» .
Licantropo, eccitato da quella scoperta di cui aveva il merito, glielo tolse di mano e notate le lancette ferme esclamò: «Neppure funziona!».
Prima che iniziasse a scuoterlo, nella convinzione infantile di attivarne in quel modo il meccanismo, Dj se lo riprese: «Fammi vedere.».
Sul quadrante azzurrino le lancette erano ferme alle ore cinque e il bordo d’acciaio riluceva di riflessi ocra, piccole punte di sole nella stanza in penombra. Un oggetto particolare e misterioso. Inquietante, ma pure a suo modo bello.
Cosa aveva a che fare con lui, però?

In quello stesso momento arrivò padre Casadio: «La porta era solo accostata, può entrare chiunque, dovresti chiamare un fabbro e… e quello cos’è?». S’era interrotto quando Dj aveva fatto oscillare sotto il suo nasone alla Depardieu l’orologio Dalì.

«Un enigma, ecco cos’è! Non sono venuti a rubare ma a lasciare questo. E il motivo non riesco proprio a spiegarmelo».

«Sicuro che non ci fosse già da prima? Magari dimenticato da qualcuno dei tuoi ospiti. Ad ogni modo sarebbe più corretto dire che è la prima volta che lo vedi piuttosto che affermare che non c’è mai stato».

«Prima non c’era. Non è nostro!» si intromise, risentito, Licantropo.

«Puoi mettere in discussione la mia memoria, Don, ma non certo la sua» disse Dj, indicando l'amico e gratificandolo con una pacca sulle spalle, «se Joe dice che prima questo non c’era, puoi starne ben certo».

«Ammettiamo pure che le cose stiano così, che la tua casa sia stata messa a soqquadro inscenando un furto ma in realtà per nascondere questo orologio, fidando sulla tua distrazione, deve trattarsi di qualcuno che ti conosce molto bene e sapeva che non saresti stato in grado d’inventariare le tue cose e quindi non avresti neppure denunciato».

Padre Casadio, perplesso, continuava a rigirarsi l’orologio fra le mani. Poi, colpito da un’illuminazione, disse «Non volevano nasconderlo, ma volevano che tu lo trovassi, e conoscendo la tua cecità verso le cose materiali, hanno fatto in modo che tu ci inciampassi contro».


Dj, seduto sul pavimento a rollarsi una sigaretta, guardò il prete con ammirazione: «Don, il tuo ragionamento non fa una piega. Resta da capire però lo scopo».

«Non lo scopriremo stasera» continuò con un sospiro il prete, «dormiamoci sopra. A proposito di dormire, ci sono un paio di letti liberi a “La Casa Dei Ragazzi”, sarebbe opportuno che tu e Joe questa notte vi trasferiste lì, per evitare altre brutte sorprese, perché con la serratura rotta chiunque può entrare».

«Grazie per l’offerta ma io rimango qui a fare un po’ di ordine, sarei però felice che Joe accettasse».


Licantropo rifiutò: «Resto con Dj, gli faccio compagnia e lo aiuto a sistemare questo casino».

«Sei un gran bravo ragazzo Joe» disse padre Casadio, restituendo l’orologio a Dj che però non lo prese:

«Tienilo tu, Don, almeno fin quando non sarà riparata la serratura».

Il prete fece un cenno d’assenso e se lo infilò in tasca: «Ci vediamo domani, ragazzi».

Sulla soglia, Joe lo fermo: «E’ morto poi il Vecchio?».

«Macché! Pare che abbia sette vite come i gatti!» rispose il prete, ridendo di cuore.

Quella sera la trasmissione di Dj “Il Confessionale” non era andata in onda ma la segreteria telefonica era stata subissata di messaggi per Licantropo: il video della scazzottata con Magnum era diventato virale e nel giro di una manciata di minuti Joe era diventato una stella del web.

IL TEMPO. E LA MEMORIA
Il giorno dopo Marisol, messa al corrente da Dj sulla novità dell’orologio Dalì, li aveva raggiunti a “La Casa Dei Ragazzi” dove, con l’ausilio di padre Casadio, si tentava di venire a capo di quel mistero.
L’orologio era stato passato di mano in mano, da tutti soppesato e valutato in ogni suo particolare. La speranza era quella d’imbattersi in un qualche automatismo, magistralmente mimetizzato, che una volta azionato ne disvelasse il segreto.

«Proviamo ad aprirlo» aveva suggerito Joe in preda ad una sempre più crescente eccitazione.

«Non credo sia una buona idea: corriamo il rischio di manometterlo» lo ammonì padre Casadio, togliendogli con gentilezza l’orologio dalle mani.

«Ma neppure quest’attesa passiva ci sta dando risultati, Don: ormai è palese che il limitarci a fissarlo, o continuare a rigirarcelo tra le mani, non ci svelerà il suo enigma» ribadì Dj perplesso tormentandosi il pizzetto sul mento. «Tu che ne pensi, Marisol?» chiese alla ragazza che era rimasta in tutto quel tempo silenziosa.

«Se deve accadere qualcosa, Max, accadrà nei tempi e nei modi stabiliti dall’autore di questo rompicapo che non avrà di certo lasciato puramente al caso, o all’intuito, la sua soluzione».

Dj la guardò stupito: Marisol era molto più di quello che faceva apparire essere.
Anche padre Casadio aveva assentito al suo ragionamento.

«Quando mi hai parlato di quest’orologio molle, simile a quelli dipinti da Salvator Dalì, sono andata a documentarmi sul loro significato. Dalì diceva che lo scorrere del tempo è cadenzato dal moto degli orologi che oggettivamente pretendono di misurarne la dimensione, ma che tutto questo viene ribaltato dalla memoria umana, un dato non quantificabile né tangibile, che ne stabilisce, invece, la soggettività e di conseguenza la relatività. In poche parole, sono le nostre percezioni, soprattutto quelle dell’inconscio, a misurare la stabilità e la durevolezza al tempo, variabili e diversi per ognuno di noi».

«Vuoi dire che quest’orologio è stato catapultato nella vita di Dj per sollecitare i suoi ricordi riguardo a qualcosa accaduto nel passato?» chiese padre Casadio.

«Non ne sono certa, zio Ernesto. È solo un’ipotesi».

«Plausibile, però» disse il prete pensoso, rivolgendosi poi a Dj: «Non ti viene in mente niente al riguardo?».

«Sto riflettendo, ma non ricordo nulla di così eclatante da giustificare tutto questo».

«Trattandosi però di percezioni soggettive, potrebbe consistere di un episodio marginale per te ma abnorme per altri, per cui, Max, non lambiccarti il cervello: se c’è qualcosa che deve accadere, accadrà, ma non sarai tu a stabilirlo» osservò Marisol, rassicurandolo con la nota arancione della sua voce.

«Accadrà alle cinque». Licantropo, rimasto fino a quel momento silenzioso ad ascoltare discorsi di cui a tratti gli sfuggiva il senso, sorprese tutti con quella sua profezia. «Perché è quella l’ora che segnano le lancette» s’era sentito in dovere di precisare.

«Alle cinque non è successo niente e l’orologio l’ho sempre avuto con me» commentò perplesso padre Casadio.

«Non è accaduto nulla perché l’orologio lo avevi tu, zio Ernesto, e non Max, l’intestatario di questo enigma» spiegò Marisol paziente.

Il prete, scettico, restituì l’orologio a Dj e in tono paterno lo ammonì: «In attesa di questo prodigio cerca di non cacciarti nei guai.»

Il Faro di Zion (cap.2)



 PADRE ERNESTO GUEVARA CASADIO
Padre Ernesto Guevara Casadio, classe 47, prete di strada e comunista (una precisazione, questa, a cui teneva molto) aveva vestito l’abito talare non per fede ma per sfida. Sulla soglia dei settant’anni non aveva ancora deposto le armi, e non solo in senso metaforico, perché la leggenda raccontava che girasse armato di una pistola ereditata dal nonno partigiano e regolarmente denunciata. Licenza accordata nonostante un indizio di Parkinson, perché padre Casadio era a conoscenza di tutti gli scheletri nascosti negli armadi dei suoi concittadini e non si faceva scrupolo di forzare la mano, all’occorrenza, per ottenere quello di cui aveva bisogno. E di solito l’otteneva.

Marisol lo baciò sulla guancia: «Ciao zio Ernesto».
In realtà non erano parenti ma lei amava personalizzare i rapporti con le persone che le piacevano.

«Ehilà Don, come ti butta? È un po’ che non ci si vede» disse Dj salutandolo.

«Mi va sicuramente meglio che a te. Ho saputo dello scasso». Senza troppi preamboli era entrato diritto nell’argomento.

«Le notizie volano in fretta… e non ho neppure denunciato!» ironizzò Dj.

«Ho informatori ai piani più alti». Padre Casadio alzò gli occhi al cielo e poi ridendo indicò Licantropo: «Me lo ha detto Joe. Cos’è questa storia che non sporgerai denuncia?».

«Indagherò per conto mio» rispose Dj, carezzandosi il mento con la mano. «In confidenza, Don, non saprei dire con esattezza, ma nemmeno con approssimazione, cosa manca. Non sono in grado di fare una lista delle mie cose, di quelle prese in prestito e di quelle lasciate da altri, perché col tempo sono diventate tutte un unico amalgama. No… non riuscirei a fare un inventario e stabilire l’appartenenza dell’enorme mucchio di oggetti sparpagliati ora sul pavimento di casa mia».

«E invece dovresti!» intervenne Marisol, «almeno per cautelarti. Magari hanno rubato qualcosa di tuo che poi di proposito verrà lasciato sulla scena di un futuro crimine. E chi pensi che incolperanno?».

«Esattamente!» si intromise Joe, più che altro per compiacere Marisol nella quale nutriva cieca fiducia piuttosto che per contravvenire ai ragionamenti dell’amico.

«Agatha Christie e Sherlock Holmes!» li apostrofò Dj con affettuoso sarcasmo.

«Potrebbe essere una ritorsione per qualcosa detto durante il tuo programma? Pensaci» suggerì padre Casadio.

Lui ci rifletté e poi scosse la testa: «No, a parte un tizio in paranoia che diceva di volersi arruolare nella legione straniera perché ha trovato la sua ragazza a letto con una donna, non c’è stato altro di rilevante».

«Ad ogni buon conto tienimi informato» disse il prete in sella al motorino, pronto a ripartire

Licantropo fece il gesto di salire anche lui ma padre Casadio lo fermò: «Non è il caso che tu venga Joe, vado a somministrare, per la terza volta, l’estrema unzione ad un ottuagenario che all’atto di ungergli la fronte resuscita. Sta tenendo in scacco un manipolo di eredi, uno dei quali, quando lo ha visto schizzare su dal letto, ha avuto un infarto. Sta cercando, e con successo, di spedirli al creatore prima di lui. Riflettendoci, questa potrebbe essere una buona storia per il tuo programma. Magari convinco il moribondo a partecipare ad una tua diretta» disse, strizzando l’occhio a Dj prima d’immettersi nel traffico.


CARLO MAGNO BOSCHI. E RADIO EVELINA.
Quando Carlo Magno Boschi, detto Magnum per via della stazza ciclopica e del nome altisonante, a bordo del suo Suv Ferrari aveva scorto il gruppetto dei tre amici aveva inchiodato proprio al margine del marciapiede dove loro ancora stazionavano e fatto cenno a Dj di avvicinarsi al finestrino.
Marisol, lo salutò mostrandogli il medio, e lui contraccambiò col medesimo gesto.

Uomo di poche parole, Carlo Magno, a causa di una voce chioccia, pigolante, che non corrispondeva alla sua prestanza fisica, e che nei momenti di collera diventava stridula. Consapevole di questa evidente sproporzione tra l’esigua intensità delle sue corde vocali e quel suo fisico da Mangiafuoco, s’era molto esercitato, sotto la guida di un vocal trainer, per compensare questo dislivello ed irrobustire le corde vocali, ma con scarsi risultati, ché quella sua vocina isterica non c’era stato verso di riconvertirla in toni più virili.
Figlio dell’imprenditore Giulio Cesare Boschi, il maggior produttore regionale di macchine agricole, intorno alle cui aziende ruotava gran parte dell’economia della città e dei dintorni, e proprietario di “Radio Evelina” l’emittente per cui lavorava Dj e la cui gestione ultimamente era diventata motivo di contrasto tra l’imprenditore, di anima liberal e coi trascorsi da hippy, e il figlio che mirava, invece, a tramutarla in organo di propaganda per una sua supposta escalation in politica, militando egli in una formazione carbonara di estrema destra che intendeva legittimare per i propri scopi personali e politici.
Occorre specificare che l’emittente prendeva il nome da Evelina, la figlia primogenita dell’imprenditore, una scavezzacollo le cui gesta riempivano le riviste scandalistiche, ma per Magnum, questa titolarità da sempre rappresentava una discriminante: la conclamata preferenza paterna nei riguardi della sorella.
Con due figli siffatti, così diversi da lui e in nessuno dei quali poteva riporre fiducia, l’imprenditore Boschi, che in Dj aveva rivisto se stesso da giovane, gli aveva affidato la conduzione del programma più di successo, e lui non lo aveva deluso e aveva perfino aumentato gli sponsor. La predisposizione del padre verso Dj, che col tempo andava sempre più accreditandosi come il suo possibile successore nella gestione di “Radio Evelina”, aveva fomentato in Magnum gelosie e rancori.


«Ciao, Carlo» lo salutò Dj senza alcun entusiasmo.

«Ho saputo dello scasso» disse a voce bassa, strisciante, e con un sorriso sarcastico Magnum, tamburellando con le dita colme di anelli sul cruscotto dell’auto.

«Hai saputo? E da chi, se non ho ancora denunciato?».

«Qualcuno mi ha riferito». Aveva smesso di tamburellare e senza guardarlo in faccia aveva fatto un gesto circolare e sfumato.

«Magari l’autore stesso del misfatto» ribadì Dj, ironico.

«E come faccio a saperlo?». Il tono della risposta, in contrapposizione al sorriso sghembo, faceva presupporre il contrario.

Dj scosse la testa perplesso: «Perché mi cercavi?».

«Per parlare del futuro del tuo programma che, seppur seguito, alla fine non concretizza nulla, così…».

«Non concretizza nulla?» Dj sorrise sarcastico: «Ti ricordo che i maggiori introiti pubblicitari vengono proprio dal mio programma e, a quanto mi risulta, tuo padre non se ne lamenta affatto, motivo per cui mi ha dato carta bianca sulla sua conduzione. Si chiama rapporto di fiducia. E comunque è a lui che devo renderne conto in quanto proprietario di “Radio Evelina”, non certo a te che da quel che mi risulta non rivesti alcun incarico». Nonostante Dj avesse cercato di mantenere un tono distaccato quell’ultima considerazione, però, era risuonata nitida come una rasoiata, così da richiamare l’attenzione di Joe che già stava precipitandosi verso di lui. Ma Dj, che lo aveva intercettato con la coda dell’occhio, fece cenno a Marisol di fermarlo.

«Non serve che tu vada, Max sa il fatto suo.» lo rassicurò lei, trattenendolo


Joe era rimasto al suo posto senza però distogliere lo sguardo dall’amico, all’erta e pronto ad intervenire se la situazione lo avesse richiesto. Anche Magnum s’era accorto della scena e adottando un tono che avrebbe voluto esser sarcastico ma che invece era risuonato solo stizzito, aveva detto: «Non ti sei ancora stancato di fargli da balia? Frequenti le persone sbagliate, come Sorella Luna, e scommetto che neppure te la scopi. Lesbica o frigida. Quelle come lei…». Ma non aveva terminato la frase che il pugno di Dj, penetrando attraverso lo spazio del finestrino abbassato, s’era abbattuto con precisione da cecchino sulla bocca di Magnum e scatenando la sua reazione, che con violenza aveva aperto lo sportello dell’auto, facendolo cadere a terra.
Stavolta Marisol non trattenne Licantropo che come una furia s’era precipitato in soccorso dell’amico a terra, sopraffatto dalla gragnuola di colpi sferrati alla cieca dall’altro. Lei stessa s’era buttata all’arrembaggio del gigante che scrollandosela di dosso come un ramoscello l’aveva messa subito ko. Ma con Joe, invece, la faccenda s’era rivelata ostica, perché nonostante la sproporzione fisica a favore di Magnum, Licantropo poteva contare sulla durezza del suo corpo esangue e tutt’ossa, che quasi i pugni non li sentiva, e ogni volta che sembrava soccombere schizzava di nuovo su, come una molla, assestando colpi a casaccio, che data la mole dell’avversario quasi sempre andavano a segno.

Nel frattempo una folla s’era radunata per assistere a quel curioso match, più spettacolo da circo che da ring, inneggiando e ridendo, facendo il tifo e filmando la scena coi cellulari, senza che nessuno materialmente ponesse fine a quella rissa da saltimbanchi dove Magnum, con buone probabilità, sarebbe capitolato per stanchezza se Dj, una volta riavutosi, non fosse intervenuto a bloccare Licantropo che, arroccato su se stesso continuava a menar fendenti come una collaudata macchina da guerra.
In ultimo era giunta una pattuglia della polizia che li aveva caricati tutti a bordo e portati al commissariato, passando però prima per il pronto soccorso.
Ma neppure in quel frangente Dj aveva denunciato lo scasso del suo appartamento.

mercoledì 29 giugno 2022

Il Faro di Zion (cap.1)

 


DJ, INGEGNO MASSIMO

‘fanculo!
Tutto ha inizio con un vaffanculo urlato con rabbia in una stanza completamente sottosopra, da un gigante di medie dimensioni. Ammetto che la definizione “gigante di medie dimensioni” può apparire un controsenso, ma pure, vi garantisco, che se vi fosse dato vederlo converreste con me che gli calza a pennello, perché in Massimo Ingegno (questo il suo nome registrato all’anagrafe) in arte Dj Ingegno Massimo, conduttore di successo di “Radio Evelina”, nonostante la modesta altezza di 1,72 in lui tutto svetta verso l’alto in spessore aereo. Iniziando dalla capigliatura, un intrigo rasta, trasbordante ed espansivo, che trova il suo apice sulla sommità del capo dove gli spezzoni nodosi delle ciocche diramano spavaldi verso i quattro punti cardinali.


‘fanculo!
Aveva urlato Dj sferrando un calcio all’unica sedia rimasta in piedi che, dopo averla scaraventata a terra aveva tirato di nuovo su per sedersi a guardare la stanza oltraggiata, con una lenta occhiata circolare, scuotendo la testa e rollandosi una sigaretta. Mancava niente… mancava tutto… forse… perché in realtà non gli era mai importato di considerare proprietà privata le sue cose e ancor meno quella stanza, porto di mare per amici e conoscenti. Parenti no, di quelli non ne aveva, e a dir la verità, a causa del continuo sovraffollamento di quei pochi metri quadrati, non ne sentiva affatto la mancanza.


JOE LICANTROPO
‘fanculo.
Stavolta Dj l’aveva pronunciato senza rabbia, facendosi strada in lui il sospetto che tutto quello sfacelo fosse opera di Joe Licantropo in uno dei suoi momenti di dissociazione dalla realtà, per poi dopo non ricordare nulla. Non era violento di natura Joe, ma a causa delle sue paranoie faceva spesso danni. Nessuna intenzione di dolo ma gli partiva l’embolo e lui diventava qualcun altro: un licantropo, appunto. Che in realtà con la bestiaccia satanica Joe (nome di battesimo, Giuseppe Nanni) non aveva niente da spartire, se non i canini vagamente vampireschi e gli occhi da randagio, orlati di rosso.
Dj voleva bene a Joe ma cominciava a non farcela più troppo a tollerare quelle sue disconnessioni che da qualche tempo succedevano con frequenza. Sulla soglia dei trent’anni s’era ritrovato a ricoprire il ruolo di padre putativo di un figlio anche lui trentenne, e per di più affetto da un disturbo dissociativo dell’identità. Ad ogni modo che quella fosse opera di Joe non poteva esserne certo, anche se Licantropo era sempre il primo indiziato ogni volta che accadeva qualcosa. Sospetto colpevole e mai sospetto innocente. Povero, vecchio Joe. E forse era proprio questo uno dei motivi per cui gli voleva così bene e tollerava le sue stranezze.
Ma se non era opera sua, allora di chi?
Dj rifletteva camminando nella stanza, concentrato su un ipotetico identikit e facendo attenzione a non inciampare negli oggetti disseminati sul pavimento. Più tardi, o tutt’al più l’indomani, avrebbe rimesso in ordine. Non era il disordine a disturbarlo, a quello c’era abituato ed era elemento naturale nella sua vita, ma quanto il motivo da cui era originata tutta quella violenza, comunque non avrebbe sporto denuncia perché al commissariato gli avrebbero chiesto di stilare un elenco degli oggetti mancanti e lui non avrebbe saputo dire quali. In quella sua casa aperta le cose che sparivano venivano rimpiazzate da altre, magari di genere diverso. A lui non importava, lo trovava perfino divertente, una specie di caccia al tesoro, ma era certo che al commissariato avrebbero giudicato alquanto discutibile quella sua filosofia esistenziale così come le sue amicizie, tra cui Joe, che per via dei suoi trascorsi e della sua patologia sarebbe stato considerato sospetto. Forse, l’unico sospetto.
Avrebbe chiesto a lui e gli avrebbe creduto, perché Joe non sapeva mentire.

fanculo
Aveva ripetuto sulla soglia frugandosi le tasche alla ricerca delle chiavi, ma realizzando che non gli servivano perché la serratura era stata scassinata. 


SORELLA LUNA
Sceso in strada, Dj aveva individuato la sagoma allampanata di Licantropo e quella ad anfora di Sorella Luna, venirgli incontro a passo spedito.
Joe somigliava a Pippo, il personaggio antropomorfo della Disney, al pari di lui dinoccolato e goffo, ingenuo e irrazionale in maniera disarmante. Eppure tra loro era nata una grande amicizia, patologica, come l’aveva definita con molta ironia Sorella Luna, all’anagrafe Marisol Calzolari, sorella minore di Luna la ragazza più bella di Iperbole, (ridente cittadina romagnola che non ce l’aveva fatta a diventare una seconda Rimini), e della quale era considerata l’escrescenza siamese, ma senza minimamente somigliarle, ché mentre Luna era slanciata e diafana, luminosa già alla distanza come l’astro da cui aveva preso il nome, Marisol, invece, era poco definita, in ombra, e con qualche chilo di troppo. Quella sua costante presenza al suo fianco le aveva fruttato il soprannome di “Sorella Luna”, e di quel nomignolo ne aveva intimamente sofferto come la conferma dell’assenza di una propria identità, che era diventata poi invisibilità quando Luna s’era trasferita a Milano per tentare la carriera di top model. Così, per essere visibile, aveva azzardato pericolosi esperimenti per somigliarle. Sul baratro dell’anoressia era riuscita a fare un passo indietro grazie soprattutto all’aiuto di padre Ernesto Guevara Casadio, un prete di strada operante nell’ambito del disagio giovanile. A “La Casa dei Ragazzi”, la struttura che lui gestiva, Marisol aveva conosciuto Dj e Joe: i suoi amici del cuore.


DJ, JOE LICANTROPO E SORELLA LUNA
Dj s’era seduto ad attenderli sugli scalini dell’ex casa del popolo “Enrico Berlinguer” riconvertita in casa d’accoglienza per ragazzi in difficoltà. Sulla facciata la dicitura “Casa Del Popolo” era stata sostituita con “Casa Dei Ragazzi” ma il nome di Berlinguer era rimasto per volere di padre Ernesto Guevara Casadio, ché nella sua personale hit Berlinguer era da sempre saldamente insediato al secondo posto subito dopo la band dei Nomadi e prima di Gesù Cristo.

«Ehilà, Dj» lo salutò Joe con un largo sorriso, sedendosi sullo scalino dietro di lui.

«Ciao, Max» disse Marisol con una nota arancione nella voce, baciandolo su una guancia. Era l’unica a chiamarlo Max

«Qualcuno oggi è entrato nel mio appartamento e lo ha messo a soqquadro». Breve pausa per far metabolizzare a Joe la notizia, e poi guardandolo negli occhi: «Ne sai qualcosa? Non è che tu per caso ti trovassi da quelle parti?».
In sua vece rispose Marisol: «Joe è stato con me tutto il giorno».
«Non sono stato io» confermò Joe in tono lamentoso. E poi, aggressivo: «Non sono stato io!».

«Ok, amico non sei stato tu. Tranquillo, non ti sto accusando di nulla. Ma anche se fossi stato tu non mi sarebbe importato. Lo sai vero, che non mi sarebbe importato? È già successo, ricordi? E non ho mai fatto un dramma per la casa sotto sopra».

«Joe sta prendendo le medicine» ribadì Marisol, sperando così di porre fine alla faccenda.

«Prendo le medicine. Non sono stato io» le fece eco Joe, accigliato.

«Sono molto orgoglioso di te. Dammi il cinque». Dj si girò per battere il cinque.

«Dunque hai trovato l’appartamento sotto sopra». Non era una domanda quella di Marisol, ma un riprendere l’argomento.

Dj, intento a rollare una sigaretta, assentì col capo.

«Cosa hanno rubato?».

«Cosa vuoi che ne sappia! Non ho fatto l’inventario» rispose lui scrollando le spalle e offrendole la sigaretta appena confezionata.

«Dovresti sporgere denuncia».

«Denunciare? La verità è che non saprei dire cosa hanno rubato. Sono estremamente carente in fatto di organizzazione domestica». Dj aveva confezionato una sigaretta anche per Joe e gliela aveva porta: «Tieni amico».

«Potresti almeno denunciare lo scasso, come misura cautelativa» suggerì lei.

Dj scosse il capo in segno di diniego: «Al commissariato farebbero comunque domande. No, meglio soprassedere. Svolgerò qualche indagine per conto mio». Poi voltandosi verso Joe annunciò: «Amico, sei ufficialmente arruolato nella squadra investigativa».

«Non sono stato io. Prendo le medicine». Licantropo, tagliato fuori dalla conversazione, era rimasto ancora a quel punto.

«Lo so. Per questo ti voglio in squadra, e conto sulla tua collab…».

Ma già lui non l’ascoltava più che all’orizzonte aveva intravisto padre Casadio a bordo del suo motorino e si sbracciava per manifestargli la sua presenza, chiamandolo a gran voce: «Padre Guevara. Padre Guevara» andava ripetendo come un mantra quel nome precipitandosi in strada e correndo a perdifiato verso lo scooter, schivando miracolosamente le auto da cui partivano insulti e strombazzate di clacson. Il prete, quando lo vide lo prese a bordo.