DJ,
INGEGNO MASSIMO
‘fanculo!
Tutto
ha inizio con un vaffanculo urlato con rabbia in una stanza
completamente sottosopra, da un gigante di medie dimensioni. Ammetto
che la definizione “gigante di medie dimensioni” può apparire un
controsenso, ma pure, vi garantisco, che se vi fosse dato vederlo
converreste con me che gli calza a pennello, perché in Massimo
Ingegno (questo il suo nome registrato all’anagrafe) in arte Dj
Ingegno Massimo, conduttore di successo di “Radio Evelina”,
nonostante la modesta altezza di 1,72 in lui tutto svetta verso
l’alto in spessore aereo. Iniziando dalla capigliatura, un intrigo
rasta, trasbordante ed espansivo, che trova il suo apice sulla
sommità del capo dove gli spezzoni nodosi delle ciocche diramano
spavaldi verso i quattro punti cardinali.
‘fanculo!
Aveva
urlato Dj sferrando un calcio all’unica sedia rimasta in piedi che,
dopo averla scaraventata a terra aveva tirato di nuovo su per sedersi
a guardare la stanza oltraggiata, con una lenta occhiata circolare,
scuotendo la testa e rollandosi una sigaretta. Mancava niente…
mancava tutto… forse… perché in realtà non gli era mai
importato di considerare proprietà privata le sue cose e ancor meno
quella stanza, porto di mare per amici e conoscenti. Parenti no, di
quelli non ne aveva, e a dir la verità, a causa del continuo
sovraffollamento di quei pochi metri quadrati, non ne sentiva affatto
la mancanza.
JOE
LICANTROPO
‘fanculo.
Stavolta
Dj l’aveva pronunciato senza rabbia, facendosi strada in lui il
sospetto che tutto quello sfacelo fosse opera di Joe Licantropo in
uno dei suoi momenti di dissociazione dalla realtà, per poi dopo non
ricordare nulla. Non era violento di natura Joe, ma a causa delle sue
paranoie faceva spesso danni. Nessuna intenzione di dolo ma gli
partiva l’embolo e lui diventava qualcun altro: un licantropo,
appunto. Che in realtà con la bestiaccia satanica Joe (nome di
battesimo, Giuseppe Nanni) non aveva niente da spartire, se non i
canini vagamente vampireschi e gli occhi da randagio, orlati di
rosso.
Dj voleva bene a Joe ma cominciava a non farcela più
troppo a tollerare quelle sue disconnessioni che da qualche tempo
succedevano con frequenza. Sulla soglia dei trent’anni s’era
ritrovato a ricoprire il ruolo di padre putativo di un figlio anche
lui trentenne, e per di più affetto da un disturbo dissociativo
dell’identità. Ad ogni modo che quella fosse opera di Joe non
poteva esserne certo, anche se Licantropo era sempre il primo
indiziato ogni volta che accadeva qualcosa. Sospetto colpevole e mai
sospetto innocente. Povero, vecchio Joe. E forse era proprio questo
uno dei motivi per cui gli voleva così bene e tollerava le sue
stranezze.
Ma se non era opera sua, allora di chi?
Dj
rifletteva camminando nella stanza, concentrato su un ipotetico
identikit e facendo attenzione a non inciampare negli oggetti
disseminati sul pavimento. Più tardi, o tutt’al più l’indomani,
avrebbe rimesso in ordine. Non era il disordine a disturbarlo, a
quello c’era abituato ed era elemento naturale nella sua vita, ma
quanto il motivo da cui era originata tutta quella violenza, comunque
non avrebbe sporto denuncia perché al commissariato gli avrebbero
chiesto di stilare un elenco degli oggetti mancanti e lui non avrebbe
saputo dire quali. In quella sua casa aperta le cose che sparivano
venivano rimpiazzate da altre, magari di genere diverso. A lui non
importava, lo trovava perfino divertente, una specie di caccia al
tesoro, ma era certo che al commissariato avrebbero giudicato
alquanto discutibile quella sua filosofia esistenziale così come le
sue amicizie, tra cui Joe, che per via dei suoi trascorsi e della sua
patologia sarebbe stato considerato sospetto. Forse, l’unico
sospetto.
Avrebbe chiesto a lui e gli avrebbe creduto, perché
Joe non sapeva mentire.
‘fanculo
Aveva
ripetuto sulla soglia frugandosi le tasche alla ricerca delle chiavi,
ma realizzando che non gli servivano perché la serratura era stata
scassinata.
SORELLA
LUNA
Sceso
in strada, Dj aveva individuato la sagoma allampanata di Licantropo e
quella ad anfora di Sorella Luna, venirgli incontro a passo spedito.
Joe somigliava a Pippo, il personaggio antropomorfo della
Disney, al pari di lui dinoccolato e goffo, ingenuo e irrazionale in
maniera disarmante. Eppure tra loro era nata una grande amicizia,
patologica, come l’aveva definita con molta ironia Sorella Luna,
all’anagrafe Marisol Calzolari, sorella minore di Luna la ragazza
più bella di Iperbole, (ridente cittadina romagnola che non ce
l’aveva fatta a diventare una seconda Rimini), e della quale era
considerata l’escrescenza siamese, ma senza minimamente
somigliarle, ché mentre Luna era slanciata e diafana, luminosa già
alla distanza come l’astro da cui aveva preso il nome, Marisol,
invece, era poco definita, in ombra, e con qualche chilo di troppo.
Quella sua costante presenza al suo fianco le aveva fruttato il
soprannome di “Sorella Luna”, e di quel nomignolo ne aveva
intimamente sofferto come la conferma dell’assenza di una propria
identità, che era diventata poi invisibilità quando Luna s’era
trasferita a Milano per tentare la carriera di top model. Così, per
essere visibile, aveva azzardato pericolosi esperimenti per
somigliarle. Sul baratro dell’anoressia era riuscita a fare un
passo indietro grazie soprattutto all’aiuto di padre Ernesto
Guevara Casadio, un prete di strada operante nell’ambito del
disagio giovanile. A “La Casa dei Ragazzi”, la struttura che lui
gestiva, Marisol aveva conosciuto Dj e Joe: i suoi amici del cuore.
DJ,
JOE LICANTROPO E SORELLA LUNA
Dj
s’era seduto ad attenderli sugli scalini dell’ex casa del popolo
“Enrico Berlinguer” riconvertita in casa d’accoglienza per
ragazzi in difficoltà. Sulla facciata la dicitura “Casa Del
Popolo” era stata sostituita con “Casa Dei Ragazzi” ma il nome
di Berlinguer era rimasto per volere di padre Ernesto Guevara
Casadio, ché nella sua personale hit Berlinguer era da sempre
saldamente insediato al secondo posto subito dopo la band dei Nomadi
e prima di Gesù Cristo.
«Ehilà, Dj» lo salutò Joe con un largo sorriso, sedendosi sullo scalino dietro di lui.
«Ciao, Max» disse Marisol con una nota arancione nella voce, baciandolo su una guancia. Era l’unica a chiamarlo Max
«Qualcuno
oggi è entrato nel mio appartamento e lo ha messo a soqquadro».
Breve pausa per far metabolizzare a Joe la notizia, e poi guardandolo
negli occhi: «Ne sai qualcosa? Non è che tu per caso ti trovassi da
quelle parti?».
In sua vece rispose Marisol: «Joe è stato con
me tutto il giorno».
«Non sono stato io» confermò Joe in
tono lamentoso. E poi, aggressivo: «Non sono stato io!».
«Ok,
amico non sei stato tu. Tranquillo, non ti sto accusando di nulla. Ma
anche se fossi stato tu non mi sarebbe importato. Lo sai vero, che
non mi sarebbe importato? È già successo, ricordi? E non ho mai
fatto un dramma per la casa sotto sopra».
«Joe sta prendendo le medicine» ribadì Marisol, sperando così di porre fine alla faccenda.
«Prendo le medicine. Non sono stato io» le fece eco Joe, accigliato.
«Sono molto orgoglioso di te. Dammi il cinque». Dj si girò per battere il cinque.
«Dunque
hai trovato l’appartamento sotto sopra». Non era una domanda
quella di Marisol, ma un riprendere l’argomento.
Dj,
intento a rollare una sigaretta, assentì col capo.
«Cosa hanno rubato?».
«Cosa vuoi che ne sappia! Non ho fatto l’inventario» rispose lui scrollando le spalle e offrendole la sigaretta appena confezionata.
«Dovresti sporgere denuncia».
«Denunciare?
La verità è che non saprei dire cosa hanno rubato. Sono
estremamente carente in fatto di organizzazione domestica». Dj aveva
confezionato una sigaretta anche per Joe e gliela aveva porta: «Tieni
amico».
«Potresti almeno denunciare lo scasso, come
misura cautelativa» suggerì lei.
Dj scosse il capo in
segno di diniego: «Al commissariato farebbero comunque domande. No,
meglio soprassedere. Svolgerò qualche indagine per conto mio». Poi
voltandosi verso Joe annunciò: «Amico, sei ufficialmente arruolato
nella squadra investigativa».
«Non sono stato io. Prendo le medicine». Licantropo, tagliato fuori dalla conversazione, era rimasto ancora a quel punto.
«Lo
so. Per questo ti voglio in squadra, e conto sulla tua collab…».
Ma
già lui non l’ascoltava più che all’orizzonte aveva intravisto
padre Casadio a bordo del suo motorino e si sbracciava per
manifestargli la sua presenza, chiamandolo a gran voce: «Padre
Guevara. Padre Guevara» andava ripetendo come un mantra quel nome
precipitandosi in strada e correndo a perdifiato verso lo scooter,
schivando miracolosamente le auto da cui partivano insulti e
strombazzate di clacson. Il prete, quando lo vide lo prese a bordo.
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