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domenica 29 maggio 2011
L'uomo della pioggia (cap 3)
Nella notte senza aria, a cavallo di una mula, Giustina Nepanto con determinazione si predispose a perseguire le tracce di muschio di Victor Galeno, ma quando l'odore si fece di carne e di occhi, trovò l'esule in consapevole attesa della sua venuta, e delle sue motivazioni.
Mentre l'aiutava a smontare dalla mula, Victor Galeno l'avvolse nel mantello freddo della sua nebbia e, prendendola per mano, la guidò nel suo rifugio di silenzio e di stelle cieche.
Lei non oppose resistenza quando lui la irretì nella dimensione alchemica del suo universo glabro, dove il giorno era chiarore senza sole e la notte oscurità senza luna, ma docilmente si assoggettò all'esplorazione delle sue dita.
Lei mappa stellare, lui naufrago dei cieli.
Fu quella una notte di echi e di sussurri.
Notte d'amore.
E di prodigi.
La mezzaluna ying si ricongiunse alla mezzaluna yang, per tornare ad essere una sola, baldanzosa e solenne, come quella che illumina il cielo dei presepi.
Lo schianto remoto delle stelle madri generò miriadi di stelle nane, che si espansero nel cielo con la spinta propulsiva di un fuoco d'artificio.
L'asse della terra si chetò dal suo moto svagato di trottola per ritrovare l'equilibrio stabilito nell'equidistanza dei meridiani e dei paralleli, e nella sequenza da calendario delle stagioni.
E finalmente piovve.
Al riparo della loro trincea di fango, Giustina Nepanto e Victor Galeno, andavano consumando con determinazione volitiva la loro orgia privata, incuranti della bufera d'acqua che rischiava di tracimare in fiume quello che prima era stato sentiero, sordi ai nitriti esistenziali della mula in ambascia, al canto verticale dell'allodola e ai sussurri di sentinella degli Angeli Implumi.
La veggente e l'uomo notturno si amarono con la furia passionale di due samurai e, negli istanti di tregua, con la goffa premura di adolescenti alla loro prima, trascendentale esperienza.
In quella notte di preludi e di sperimentazioni, Victor Galeno assaporò l'oscurità ermetica del sonno ad occhi chiusi, perché Giustina Nepanto vegliò su di lui affinché il suo spirito vicario non lo abbandonasse per i suoi consueti vagabondaggi notturni.
In quella notte di lussuria e di tempesta, Giustina Nepanto, decifrò la visione dell'asso di bastoni che fecondo fioriva dal suo ombelico recando il germoglio, ancora chiuso, dell'enigmatica progenie dei sonnambuli.
Continuò a piovere, senza intendimento di sosta, per un periodo di cento giorni, durante il quale si colmarono i letti esausti dei fiumi ed un limo fertilissimo rinvigorì la terra stremata, che eruppe in un incontrastato rigoglio di giungla che cancellò il tracciato delle strade, mentre le radici tenaci delle mangrovie andavano sventrando le fondamenta delle case.
Un'atmosfera da fondale marino avvolse l'intera regione in un panorama di risaia.
Venne decretato lo stato di calamità naturale e, sotto il patrocinio del Papa, si andò organizzando la più spettacolare processione della cristianità con le rappresentanze dei Santi più importanti, quelli accreditati come collaboratori personali di Dio, (che santa Lucrina, nella gerarchia divina, era una santa minore) per porre fine a quell'inesauribile, catastrofico torrente d'acqua che colava giù dal cielo, rischiando di trasformare l'intera regione in un oceano.
Don Apollinare, sentendosi usurpato dalle sfere superiori ecclesiastiche del prestigio che pur gli competeva all'interno del suo territorio, andò a cercare Giustina Nepanto per chiederle, ed offrirle "uno scambio collaborativo, onesto e non discriminante, per trovare insieme una soluzione alla catastrofe".
- Sono di partenza e, francamente, non credo a soluzioni alternative a quelle stabilite dalla meteorologia: smetterà di piovere quando l'aria sarà sufficientemente calda per impedire alle gocce di scendere al suolo -
Questa fu la risposta coincisa di Giustina Nepanto mentre saliva in groppa alla mula, predisponendosi alla partenza.
- Siete un ingrata, abbandonate la comunità che pur vi ha dato tanto, proprio ora che ha bisogno di voi! -
Le gridò, infuriato, don Apollinare.
- Non devo nulla a nessuno, ho saldato tutti i miei debiti. Statemi bene -
Ribatté lei asciutta, senza voltarsi indietro.
Victor Galeno l'attendeva avvolto dalla fuliggine metafisica di una nebbia boreale, con l'espressione precaria dell'esule predestinato, trascinandosi dietro, come ceppo di galeotto, un voluminoso baule con le cerniere irrimediabilmente sigillate da una ceralacca di muschio.
giovedì 26 maggio 2011
L'uomo della pioggia (cap 2)
Quando i processionanti esausti, ma speranzosi, rientrarono nella cattedrale per ricollocare la Santa sul suo altare, trovarono la navata invasa da un intrigo da giungla, con le statue sommerse da una fioritura prodigiosa di orchidee. E nel frastuono dei gracidii corali delle rane nelle acquasantiere, spuntavano dagli interstizi del pavimento ciuffi di piante endemiche.
La gabbia dell'allodola pencolava vuota, mentre dal trittico dorato che sovrastava l'altare maggiore s'erano involati gli Angeli Implumi, ed una pioggerella finissima e fitta, odorosa di resina, permeava dalla volta a cupola.
Fu uno strano miracolo quello a cui si assistette quel venerdì 17: dentro la cattedrale pioveva, all'esterno, invece, neppure uno sfilacciamento di nube, né un alito di vento, a scalfire il calore assassino dell'aria.
Don Apollinare, in preda ad un'ira confusa quanto incontrollabile, puntò il dito accusatore contro Giustina Nepanto e gli stolidi che avevano voluto, a tutti i costi, quella loro inammissibile complicità, quel delittuoso mischiare il sacro col profano, l'occhio di Dio e la sfera di cristallo, (seppur, a onor del vero, la veggente mai ne aveva fatto uso), astuzie nocive che avevano ottenuto come risultato quello sberleffo divino.
Si sbracciava, Don Apollinare, gesticolando dal pulpito fiorito di gelsomini, mentre profetizzava, con enfasi apostolica, alimentando lo shock collettivo, la minaccia del castigo di una catastrofe ancor più grande..
Nello smarrimento generale, Giustina Nepanto, era riuscita a non farsi emotivamente condizionare dall'assurdità dell'evento e a cercare, invece, la causa che lo aveva generato. Allora rivide Victor Galeno, così come le era apparso quel pomeriggio di venerdì 17, con lo sguardo crepuscolare dei sonnambuli, avvolto in una fredda aurea boreale odorosa di resine.
Di nuovo cercò un collegamento tra la visione onirica del dissotterramento dell'asso di bastoni che, nel linguaggio delle carte, rappresenta la forza di volontà, la creazione e la crescita, e l'apparizione improvvisa di quell'esule solitario.
Non rispose, come era sua consuetudine, alle invettive del prete, d'altronde lei aveva preso parte al rito della processione solo per accontentare la comunità, ma per nulla convinta di quella iniziativa, e limitandosi a far dondolare l'aspersorio che lei stessa aveva riempito con innocua acqua decantata e sale marino.
Non aveva colpa di nulla, quindi, ma spiegarlo non sarebbe servito, non era quello il momento adatto alle rivelazioni perché l'intero paese si apprestava a celebrare, con la perdita della ragione, quel diabolico prodigio, con l'interno della cattedrale invasa da una giungla fiabesca, sferzata da una pioggia battente, con le vetrate illuminate dalle luci rosse dei lampi e le navate percosse dal rimbombo del tuono, mentre fuori, all'aperto, l'aria che sapeva di fuoco toglieva il respiro.
Pure immaginava, Giustina Nepanto, che tra non molto sarebbe iniziata la caccia alla strega, perché gli animi incrudeliti dal disonesto j'accuse del prete, e fuorviati dalla beffa di quel miracolo inopportuno, avrebbero ben presto avuto necessità di un capro espiatorio e, di sicuro, la vittima sacrificale non sarebbe stata Lucrina, santa, seppur dotata di un sarcasmo micidiale.
Doveva ritrovare lo straniero prima che l'intera comunità smarrisse del tutto la ragione.
La fredda nebbia che lo avvolgeva contribuiva a mantenerlo desto e percettivo, in una perenne condizione di all'erta, con i sensi organizzati a schivare un sempre probabile pericolo.
Quegli stessi sensi che ora lo avvertivano che qualcuno stava fiutando il suo odore.
domenica 22 maggio 2011
L'uomo della pioggia (cap 1)
Era giunto nel pomeriggio di un venerdì 17, avvolto dalla fuliggine metafisica di una nebbia boreale, con l'espressione precaria dell'esule predestinato, trascinandosi dietro, come ceppo di galeotto, un voluminoso baule con le cerniere irrimediabilmente sigillate da una ceralacca di muschio, nell'esatto momento in cui le campane suonavano a distesa e dal portale della cattedrale s'incamminava la processione di Santa Lucrina.
Quella processione era stata organizzata per chiedere alla Santa il favore della pioggia, perché da settimane imperava, in tutta la regione, un sole caraibico e fuori stagione che aveva prosciugato le ossa degli uomini ed essiccato i raccolti.
Così, come era doveroso, in pompa magna e nell'assolo festoso delle campane, Santa Lucrina aveva lasciato l'altare per la trasferta in paese, in modo che potesse constatare con i propri occhi i danni molteplici, ed irreparabili, causati da quella siccità improvvisa e progressiva.
E porci rimedio, come era suo obbligo.
Giustina Nepanto, che procedeva accanto al prete alla testa della processione dondolando ritmicamente l'aspersorio, fu assalita da un brivido cupo quando, alzando gli occhi, incrociò quelli di Victor Galeno (che so per certo esser questo il nome dello straniero) ed immediatamente stabilì che l'uomo apparteneva alla stirpe negletta dei sonnambuli.
Cercò un nesso tra l'uomo e la sua recente visione notturna, di quelle mani affannate che scavando la terra dissotterravano un asso di bastoni.
Poi la visione si era interrotta a causa di un singhiozzo continuato che le aveva impedito l'approfondimento di quella premonizione. E forse non c'era alcun nesso.
Magari l'uomo era capitato per caso, un profugo o un fuggitivo, un condannato dal sonnambulismo all'isolamento, in quell'enigmatico stato sensoriale di percezioni prive di sogni.
L'uomo si era accostato al lato della strada mentre la processione proseguiva salmodiando verso l'interno del paese, con la statua della Santa ondeggiante sulle spalle dei portatori.
Non pioveva da settimane, il suolo, piagato dalla virulenza della siccità, mostrava la corruzione della superficie che diramava nella secchezza delle crepe per culminare nel disossamento degli arbusti, mentre un sole allucinato incendiava le sterpaglie.
Non solo Santa Lucrina, patrona della sacralità delle promesse, aveva l'obbligo morale di porre fine al disastro in atto, ma l'intero paese si era coeso imponendo a Giustina Nepanto, di professione veggente, e a don Apollinare, di professione prete, di sotterrare l'ascia di guerra per dar vita ad una tregua collaborativa dove ognuno avrebbe messo in campo il proprio credo e le proprie capacità, perseguendo l'obiettivo comune di sollecitare la pioggia.
Sinergia inusitata, mai sperimentata prima, che don Apollinare e Giustina Nepanto da sempre si guardavano in cagnesco, arroccati nei propri convincimenti, disputandosi le anime dei vivi e quelle dei morti, l'uno avvalendosi della parola divina, l'altra facendo leva sulla persuasione.
Sta di fatto che l'indovina azzeccava spesso, e con successo, le sue ipotesi, a scapito dei sermoni roboanti del prete, che s'incentravano per lo più sulla minaccia dell'inferno e le blandizie del paradiso, iattura o premio a lungo termine che non trovavano mai riscontro pratico nell'immediato.
Nulla di quello che don Apollinare pronosticava dal suo pulpito accadeva: l'ira apocalittica di Dio tardava a manifestarsi così come la sua perfettissima giustizia, al contrario delle utili e ponderate premonizioni di Giustina Nepanto con le quali, quasi sempre, sembrava poter influire sui destini già decisi.
Victor Galeno, alla ricerca di una tregua dalla calura, si era addentrato nella cattedrale deserta dove il calore delle candele era opprimente, quasi quanto quello del sole feroce che penetrava le vetrate a colludersi col trasudo boreale, appannando in un vapore fitto e tiepido, la navata ed il coro e l'altare maggiore, fino a lambire il trittico degli Angeli Implumi, con le ali appassite dalla pesantezza dell'eternità, e soffocare l'allodola consacrata a Santa Lucrina, prigioniera nella sua gabbia di ferro.
Victor Galeno, che nulla sapeva dei santi, e tanto meno gli interessava saperne, liberò l'allodola che stava asfissiando, stordita dai miasmi dell'incenso e dei gigli appassiti, e dagli effluvi aggiuntivi della nebbia boreale
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