Amo le parole, le considero preziose, vitali come l'acqua e il pane e il calore, per questo detesto vederne lo spreco.
Un bravo scrittore sa scegliere quelle giuste, gli snodi attraverso i quali, poi, svilupperà il suo percorso argomentativo.
Un bravo scrittore deve saperne valutare la consistenza e l'apporto qualitativo: abbondanza e ridondanza spesso mascherano povertà di pensiero o difficoltà d'espressione.
Ecco così parole sprecate, ingannevolmente usate come orpelli, volants e crinoline, a nascondere un corpo poco attraente.
Preferisco la nudità di quel corpo, nell'onesta esposizione delle sue membra disarmoniche, ma propriamente originali, al raffinato lavoro di sartoria confezionato per la mistificazione.
Prolissa ed eccentrica lo sono anch'io, e spesso cedo alla tentazione della minuzia descrittiva, del ricciolo rococò, del pizzo, raffinato e costosissimo, con cui coprire la bordura di un'orlo cucito a punti grossi, troppo di fretta.
Miliardi di parole e tutte gratis.
Perché lesinare?
Ma poi mi armo di forbici ed inizio un paziente lavoro di rifinitura.
Sfoltisco e taglio, soprattutto gli aggettivi di cui abbondantemente mi servo, spesso ed in eccesso, perché sono gli elementi della grammatica che preferisco. Taglio con convinzione, anche se a volte, devo confessarlo, rimane il rimpianto per una parola sacrificata, una leziosità che non avrebbe forse di molto appesantito il contenuto ma che, alla fine, coerentemente immolo in virtù dello stile.
Non tutte le frasi tagliate le elimino, quelle più ben riuscite le conservo copiate su fogli di quaderno, in bella grafia, graziate dalla strage del reset ( romanticamente salvate come gli spezzoni di pellicola dei baci censurati in "Nuovo Cinema Paradiso").
Alcune parole mi attraggono più delle altre, in particolare quelle che hanno un nucleo drammatico o teatrale, quasi mai rimango indifferente al fascinoso chiaroscuro degli ossimori, e sempre mi lascio irretire dalla crudezza, ossuta e randagia, dello slang.
Marilena
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