Non ricordare nulla di se stessi.
Disimparare i gesti comuni della vita: usare una forchetta, scrivere il proprio nome, smarrirsi in 40 mq di casa, non riconoscere i propri figli, e giù di qui, ancora, con un elenco interminabile.
Non parlare. Non vedere. Non riuscire a nutrirsi. Vivere con un catetere per il resto dell'esistenza. Dover essere imboccati. Essere inchiodati, perchè letteralmente legati, su una sedia a rotelle dalla mattina che ci si sveglia fino alla sera che qualcuno si ricordi di rimetterti a letto. Aver sete e non saper chiedere un bicchier d'acqua. Gesticolare con le proprie allucinazioni ed emettere suoni disarticolati di una lingua sconosciuta. Non potersi difendere. Sottostare alla pietà e al buon cuore di chi, spesso sottoposto a turni massacranti, riesce ancora ad avere un briciolo di rispetto per una dignità il più delle volte ignorata. Il disconoscimento della persona, ci si riduce semplicemente allo stato elementare di un corpo.
Peso per la famiglia.
Peso per chi assiste.
Il pudore cancellato. Infermieri uomini che la lavano, la toccano, e lei, che non si è mai mostrata completamente nuda neppure a suo marito. E' solo un corpo da gestire, senza identità, senza sesso. Assemblaggio di ossa senza quasi più pelle. Una struttura esile che regge, però, un cuore ostinato e ancora pulsante.
Occhi bui, sempre più socchiusi, evidente solo la pupilla nera, il bianco quasi cancellato.
Lei così bella una volta e con gli occhi grandi e luminosi delle donne del sud.
Forse è cieca......forse lo sta diventando.......difficile stabilirlo.
Le parlo, l'abbraccio, la bacio, le asciugo la saliva. Quando l'abbraccio non devo stringerla troppo o rischio di farle male. Lei con le mani inquiete mi tocca i capelli, tira il filo nero della mia collana che le ondeggia davanti coi miei movimenti. Cerca di afferrare tutte le ombre che riesce a vedere, anche quelle a noi invisibili.
E' una pena vederla infagottata in panni molto più grandi di lei, gettata di traverso sulla sua sedia a rotelle, il tubo del catetere che fuoriesce rozzamente legato alla carrozzina.
Quando sto li ho bisogno di aria, mi sento soffocare, cerco il cielo che s'intravede dalla finestra. Ho bisogno di sentire voci comprensibili, vedere gente che cammina sulle proprie gambe: sfuggire la visione. Vorrei scappare come fanno i bambini quando vedono qualcosa di brutto o incomprensibile, eppure quel qualcosa di brutto e incomprensibile una volta era una donna: era mia madre.
E' mia madre.
Ma mia madre è morta, sepolta viva nella bara del suo corpo anche se il suo cuore continua a battere ancora.
Il mio cuore, invece, ha smesso di battere tanti anni fa, quando è stata pronunciata la parola ALZHEIMER.
Nella bara di quel suo corpo, così fragile e senza più consistenza, ho rischiato di finirci anche io come in un macabro ritorno alle origini: un feto legato indissolubilmente ad una placenta necrotizzata
Marilena
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