Dedico questo blog a mia madre, meravigliosa farfalla dalle ali scure e dal cuore buio, totalmente priva del senso del volo e dell'orientamento e, per questo, paurosa del cielo aperto. Nevrotica. Elusiva. Inafferrabile.

sabato 2 novembre 2024

Anche gli oggetti hanno un'anima


 Ci sono oggetti che non possiamo modificare, né regalare, né tanto meno disfarcene, perché sono dotati di un'anima, vivono del nostro respiro e dei nostri desideri.
Sono rappresentativi di noi stessi più di qualsiasi altra nostra immagine perché appieno ci rispecchiano, hanno il nostro odore e il nostro mistero.

Haiku (mystic)




Come un dardo, 
al tramonto, la luce
mi attraversò.

lunedì 28 ottobre 2024

Apologia del rosso



Il raso di una sottana
La punta di uno stivaletto
L'ovale di un'unghia
La trappola di una bocca
Il rosso è sempre fatale (quando vuole)

venerdì 25 ottobre 2024

Dalla parte di Penny


 Ulisse è Penelope, almeno quanto Penelope è Ulisse, entrambi con la propria tela, entrambi con le proprie traiettorie imperscrutabili.
Ma quelle di Ulisse lo sono, di sicuro, di più. Diciamocelo che in quanto a traiettorie era un genio: si è volatilizzato dal suo castello di Itaca per materializzarsi di nuovo, sulla soglia di casa, vent'anni dopo la sua partenza.

Penny, che aveva la passione per il telaio, ha tessuto una meravigliosa coperta pensando di usarla come un antesignano tepee indiano, una capannina solo per loro due. Di buon grado Ulisse ha accettato la coabitazione (Penelope era una gran bella donna, molto intelligente ed anche molto paziente), ci si è divertito, ci ha fatto un figlio, fin quando ha deciso che la routine lo annoiava e che fuori dal tepee c'era tutto un mondo da scoprire: donne, avventure, guerre e gloria ma, soprattutto, niente più responsabilità.

Così, un mattino che Penelope è andata a fare la spesa (o dal parrucchiere) lui ha smontato il tepee e se l'è gettato sulle spalle a mo' di poncho, s'è acceso un cigarillo, ha riempito un otre d'acqua e una bisaccia di cibo, e si è preso il suo anno sabbatico, anche se poi è durato venti.
Ma siccome era un re, e Penny era pur sempre sua moglie e la madre di suo figlio, erede del nome e del trono, non si è eclissato alla chetichella ma le ha lasciato un bigliettino: sono via a salvare il mondo e non so quando torno, ma tornerò. Aspettami. Ti amo.
Di quello che Ulisse ha fatto dopo che ha varcato la porta del castello, sappiamo tutto (forse l'unica a non sapere niente era la moglie, come quasi sempre in questi frangenti accade) per merito di Omero che, con i ventiquattro tomi dell' Odissea, ci ha ragguagliato sulle peripezie del suo viaggio di ritorno a Itaca, traendone un best seller mondiale. Ulisse ha amato altre donne, avuto altri figli, combattuto guerre, ed è riuscito perfino ad inimicarsi Poseidone, il dio delle acque, dei terremoti e delle tempeste. Un tipo davvero irascibile che gli ha messo i bastoni fra le ruote (si fa per dire, visto che Ulisse viaggiava su una nave), creandogli inciampi d'ogni tipo sulla via del ritorno.

Direi, però, che della storia di questa coppia, la parte  più affascinante non è quella che riguarda Ulisse, che di lui, grazie ad Omero, conosciamo fatti e misfatti, ma quella più defilata di Penny, che si aggira solitaria nella sua casa, avvolta nelle brume del mistero.

Io sono convinta che su Penny, per via dei codici dell'epoca, ci siano state trasmesse un bel po' di fake allo scopo di convincere tutte noi, perfino ai nostri giorni, della inalienabilità di virtù catto/integraliste, a lei attribuite, come la fedeltà coniugale e la dipendenza dall'uomo e dal focolare domestico.
Ma no, non è così, e le azioni di Penny (quelle pubbliche, di cui siamo a conoscenza) lo smentiscono in pieno.
Ha preso il posto di Ulisse nella gestione della casa e del trono; tiene a bada ben 108 pretendenti, che nella maggior parte dei casi non sono proprio dei gentiluomini; cresce da sola un figlio e si occupa del governo dell'isola. Per vent'anni gestisce tutto lei.
Davvero qualcuno può pensare che abbia avuto il tempo di fare e disfare una tela allo scopo di prender tempo per evitare nuove nozze? Anche se, di un altro marito, francamente non ne sentiva l'esigenza.
L'unica tela che ha filato è quella del tepee in cui ha sedotto Ulisse. E guarda caso di questa tela, l'unica da lei realizzata, non se ne sa niente. Nessuno ne fa menzione! Tanto meno Ulisse, con la complicità di Omero, per non rivelare al mondo che il super eroe, il macho, lo sciupafemmine, è stato stregato sotto una tenda da una donna.
Ma nonostante tutto, con tenace ostinazione, si continua a favoleggiare di quella tela virtuale, tessuta di giorno e disfatta di notte, sotto gli occhi dei 108 pretendenti che non dovevano, in virtù di ciò, brillare per intelligenza.

Alla luce di queste argomentazioni rimane davvero difficile immaginare Penny sottomessa e passiva, seduta al telaio a tessere, o affacciata alla finestra a scrutare l'orizzonte in attesa del ritorno di Ulisse.
Più probabile che abbia preso tempo cedendo volutamente, per voglia o per svago, a qualche pretendente, magari al più giovane o al più sexy, perché sono certa che, in quel folto gruppo, non ci fossero altri parametri di selezione. 
E al diavolo l'attesa e la fedeltà!
Vent'anni, per una donna, sono veramente tanti.
Perché mai una come lei, seducente, intelligente e scaltra, avrebbe dovuto consumarli, e consumarsi, nell'inutile attesa di un uomo che, vista la piega che avevano preso gli eventi, di certo non la meritava?
Così ha trasformato il tempo della solitudine in quello della maturazione. Dell' emancipazione.
Essere bella per se stessa, e autodeterminata nella sua volontà di scegliere e non di essere scelta.
In piena consapevolezza.
E che il mondo continuasse pure ad immaginarla paziente, fedele, subordinata. E docile. 
Ancella, intenta a filare un'interminabile tela.
Moglie, in attesa alla finestra.
Non le sarebbe importato, perché quello che suo marito, il mondo, gli uomini e la storia ignoravano, è che lei la sua vita l'aveva, fino in fondo, vissuta.

domenica 13 ottobre 2024

mercoledì 9 ottobre 2024

Soli di fuoco. Lune di ghiaccio



 

Il futuro influenza il presente tanto quanto il passato.
(Friedrich Wilhelm Nietzsche)


Facciamo che domani sia oggi
"Facciamo che domani sia oggi", me lo ripeto tutte le mattine al momento d'iniziare la giornata, consapevole d'ipotizzare una missione impossibile, con l'innocente tentativo di guadagnare un giorno in più nella mia vita. Tutti quei domani anticipati, alla fine, potrebbero diventare, con una certa costanza, addirittura settimane, mesi. Magari anni.

Riuscire a precorrere i giorni è la moltiplicazione del tempo. Forse il preludio all'eternità.

"Facciamo che domani sia oggi", un proposito che si rivelerebbe la madre di tutte le rivoluzioni se servisse a renderci consapevoli di cosa nel futuro ci attende partendo dalla realtà oggettiva di questo presente, perché nel domani ci siamo già. E in virtù di questo, forse, dovremmo iniziare a misurare i passi e se occorre rallentare, perfino fermarci, per riflettere e per capire quello che su di noi incombe.
Perché non basta immaginare o presagire, occorre vedere, poiché i segnali dell'imminente catastrofe ci sono già e, tutto quello che è stato ipotizzato, di sicuro accadrà. Sta già preparandosi ad accadere. E probabilmente è già accaduto in un tempo lontano così, quando noi ipotizziamo che lo scoppio apocalittico del Big Bang sia stato l'inizio della vita, era forse la sepoltura di quella precedente.


Lune di ghiaccio. Soli di fuoco.
Un domani dove le albe e i tramonti si compenetrano in un orizzonte antracite e rame, striato da repentini bagliori di luce e subitanei coni di buio, a dominare una geografia ermetica, primitiva. In agguato. Brulicante di vita sulla superficie terrena e nei gomiti d'acqua, nelle faglie d'argilla e nella lava deposta nei seni dei vulcani, così come negli sciami opachi trasportati dal capriccio del vento, come furia di pioggia o dissolvenza di nebbia.

Un  domani dove il sole è fuoco e la luna ghiaccio. Un domani primevo, minaccioso e biblico, (questi due aggettivi, volutamente accomunati, ben chiariscono il senso della visione). Un modo da domare e addomesticare, come nel passato, alle nostre esigenze, anche in maniera brutale, ma che dovremmo invece plasmare con intelligenza sensibile e mani di donna. E rispettarlo nella forza così come  nella vulnerabilità dei suoi elementi, senza violentarlo. Deturparlo. Contraffarlo. Tramutarlo ostile.
 
Soli di fuoco e lune di ghiaccio, un mondo incandescente ed artico, lo sfondo dell'ultima frontiera tra polvere ed abissi.
Un remake del passato, che diventa futuro, per un fallito back up della memoria.

lunedì 7 ottobre 2024

Una nuvola in tempesta



Sono nero su nero, una nuvola in tempesta che rivendica il diritto a non avere sfumature.

Nuda impronta

 



Difficile trovare
la nostra nuda impronta
su uno sfondo di sogni camuffati,
parole dettate
e accettate incoerenze.
Niente è più ingiurioso
di quella firma menzognera
da noi legittimata, e apposta
in calce ad un racconto apocrifo.

giovedì 12 settembre 2024

Il coraggio dei fiori

 


Fragili e delicati
i fiori,
ma così coraggiosi
da schiudersi ogni mattina 
e sfidare le incognite del cielo,
della stagione,
e di quel loro breve destino.

martedì 3 settembre 2024

giovedì 15 agosto 2024

martedì 13 agosto 2024

domenica 28 luglio 2024

Il sole è un gatto rosso




Il sole è un gatto rosso
che al tramonto s'addormenta
reclinando il capo
su un soffice cuscino di nuvole.
Chiude i suoi occhi di fiamma
e il mondo diventa buio.

martedì 21 maggio 2024

Crodino e Sapphire: una storia ai confini della realtà

Stamani, sciorinando un lenzuolo dal davanzale della finestra, con grande stupore ho visto che anziché pencolare verso il basso i due lembi inferiori erano assurdamente tesi verso l'alto. Dritti. Rigidi. Conferivano al lenzuolo l'aspetto di una culla improvvisata. Sono rimasta a fissare incredula quell'inverosimile amaca, quando Crodino, il mio gatto arancione, scavezzacollo e casinista, è saltato sul davanzale e ha iniziato agilmente ad arrampicarsi su una di queste improvvisate funi, rimanendo saldo e pacifico come un pirata sulla tolda in fase di avvistamento di un vascello da depredare o, molto più verosimilmente, di uno dei tanti piccioni che da generazioni alloggiano abusivamente sopra i cornicioni del condominio. Nessuna minaccia e nessuna blandizia l'ha convinto a scendere dal suo surreale avamposto dove, per altro, sembrava stare a suo agio e godersi il panorama, in attesa di una preda. Ho valutato di tirare verso di me il lenzuolo, ma poi il timore che quel movimento inaspettato potesse fargli perdere l'equilibrio e farlo precipitare nel vuoto, mi ha fermata. Una situazione davvero spinosa. E senza spiegazione alcuna quel sovvertimento delle leggi della fisica e della natura...oltreché delle buone maniere, che a quanto pare il mio gatto non conosce affatto. O di cui non gli importa nulla.

«Crodino, scendi ti prego, vuoi farmi prendere un infarto?» Lo imploro «Ti giuro che non ci saranno ripercussioni, anzi ti preparerò doppia razione di tonno e gamberetti, ma per favore, vieni giù!»

Alle mie suppliche sommesse (importante in questi casi è non farsi prendere dall'isteria, gridare o lasciarsi andare a movimenti bruschi) è accorso Sapphire, l'altro gatto di casa, un Blu di Russia, un aristocratico che detesta il chiasso e le situazioni imbarazzanti, e il cui contributo è quello di gettare un'occhiata infastidita a Crodino che svetta impavido, attaccato alla cima del lenzuolo, come alle sartie di una barca., e un'altra più severa, gelidamente accusatoria nei miei riguardi:
Sono certa che se avesse potuto denunciarmi ai servizi sociali lo avrebbe fatto, non perché temesse per Crodino, (il quale non è nuovo a queste situazioni al cardiopalma), ma perché seccato da tutto quel trambusto. Sapphire, che mi conosce bene, è consapevole che quella mia calma è solo apparente e da lì a breve, se quel pestifero di gatto color carota non si fosse deciso a scendere sul davanzale, sarebbe culminata almeno con una chiamata ai vigili del fuoco, con l'inevitabile certezza di finire sui social, dal momento che, in questo nuovo secolo, i gatti ne sono diventati straordinari protagonisti. Una vera mania che ha contagiato la razza umana di religioso fervore verso i felini di ogni specie, colore e indole.
Un culto a cui Sapphire, fin dal nostro primo contatto, mi ha reso chiaro che avrei potuto officiare solo, e quando, lo avesse deciso lui.

Mentre siamo in questa situazione di stallo (confesso di non essere, per carattere, una decisionista), e non volendo al pari di Sapphire, seppure per motivi diversi, di assurgere alle cronache dei social, e di fare via web il giro del mondo, con questa storia ai limiti della realtà, mi sovviene l'idea di tentare Crodino con una generosa offerta di snack al salmone e formaggio, di cui è molto goloso. Un espediente di cui spesso, e quasi sempre con successo, mi servo per indurlo a palesarsi quando decide di fare orecchie da mercante ai miei richiami. Gli snack, però, sono in cucina, il che richiede il mio allontanamento dalla finestra, e so di non poter lasciare Sapphire di guardia perché, appena avrà intuito la mia intenzione, mi avrà già preceduta alla credenza.
Non è un piano attuabile. Non è un rischio che posso correre.

Sembra che sia un passato un tempo infinito da quando si è creata questa incresciosa situazione ma, in realtà, si tratta solo di minuti. E, nel mentre cerco una soluzione, il nutrito stormo di piccioni abusivi che abitano la grondaia, si sono assiepati sui tubi pluviali, incuriositi dalla strana performance di Crodino, che mai si è trovato a così poca distanza da loro. Anche lui li vede e, con l'istinto del cacciatore, si protende a valutare la distanza e l'ampiezza del balzo che dovrebbe spiccare per agguantarli. Dalle rispettive postazioni, il gruppo dei piccioni, e il micio, si osservano studiandosi.
Crodino, perfettamente immobile si staglia, con quel suo color carota, come un lucente, minaccioso avatar, sullo sfondo azzurrino del cielo, mentre dalla compagine dei volatili, i più temerari, incuranti del pericolo, all'inizio con qualche prudenza ma poi sempre più spavaldi, gli si fanno sotto. Hanno preso nota della sua impotenza e lo provocano. Così sospeso può solo subire l'oltraggio. Seppure, con buona probabilità, quella di Crodino potrebbe non essere debolezza ma tattica, dal momento che non ha distolto neppure per un secondo lo sguardo dal manipolo dei volatili E questa ipotesi mi spaventa ancora di più perché ben conosco la sua temerarietà, quando l'ho sorpreso a passeggiare sulla balaustra del terrazzo col chiaro intento d'irrompere in quello del vicino. Da quella volta, a scongiurare imprese del genere, ho recintato la ringhiera con un'alta rete ricurva verso l'interno.

L'idea di battere sul tubo dello scolo, così da produrre un rumore per mettere in fuga i piccioni, mi attraversa fulminea la mente ma, l'attimo dopo, l'ho  già respinta, perché quello stesso rumore spaventerebbe anche il micio. D'altro canto una soluzione devo pur trovarla presumendo che Crodino non potrà rimanere in quella posizione ancora per chissà quanto.
Intanto, Sapphire, inizia a miagolare e a strusciarsi sulle mie gambe, segno che ha fame. Non sgarra di un secondo sugli orari delle pappe e non tollera ritardi, perché dalle strusciatine passa d'un subito ai morsi alle caviglie. E non sono morsetti per gioco!


Ed eccomi qui, presa tra due fuochi!
Urge che elabori un piano per uscire fuori da questa sorte di limbo dantesco, che me lo raffiguro su una tela michelangiolesca, diviso su 4 livelli: il primo, è la gronda dove sono appostati i piccioni; il secondo, è a mezz'aria dove sosta Crodino, sospeso tra il vuoto e il davanzale; il terzo, è il riquadro della finestra dove io sono sporta metà fuori e metà dentro; il quarto, è il pavimento dove Sapphire, novello Cerbero, infierisce sulle mie caviglie.
Cerco di scalciarlo via  senza fargli male, ma quando il gattaccio infernale snuda gli artigli e s'inerpica lungo le mie gambe, urlo con tutto il fiato che ho nei polmoni, spaventando i piccioni che si levano in volo in un disordinato sfarfallio di penne e di piume, mentre Crodino, atterrito dal mio grido agghiacciante, si stacca dal suo sostegno di fortuna per atterrare sul davanzale, dove io, col cuore che batte a mille e mani tremanti, lo stringo nella morsa delle mie braccia e lo tiro verso l'interno.
Una volta al sicuro, e come ringraziamento, il furfante pel di carota si divincola dalla mia presa e, come se niente fosse accaduto, raggiunge Sapphire che, prevedendo la mala parata, nel frattempo è andato a nascondersi sotto il letto dove, come da copione, iniziano a rincorrersi e poi ad azzuffarsi, in una gara senza esclusioni di colpi per arrivare primi alle ciotole.
 
Prenditi un gatto, dicevano, vedrai che renderà la tua vita migliore.
Prenditi un gatto, dicevano, vedrai che sarà divertente. Dicevano.

Di sicuro, la mia, Crodino e Sapphire l'hanno movimentata!

mercoledì 24 aprile 2024

Mauricio Duarte e la gioia di vivere


  In ricordo di Mauricio Duarte

Conobbi Mauricio Duarte al Museo d'Arte Moderna di Parigi, ad una mostra sui Fauves, tramite un amico comune, quando lo incrociammo mentre s'aggirava spaesato negli splendidi saloni del Museo. 

Confesso che stringergli la mano mi procurò una sensazione strana, un misto di curiosità, disagio e avversione.
La curiosità era incentrata sulla sua persona fisica, un bell'uomo, un Marcello Mastroianni non più giovanissimo ma ancora nel pieno del fascino. Percorreva le sale del museo con le mani in tasca, e non so perché ebbi la sensazione che, al loro interno, stringesse i pugni. Guardava i quadri da una certa distanza e attraverso gli occhiali da sole. Un modo inusuale per apprezzare l'arte.
Il disagio era perché mi era parso che attraverso quegli occhiali mi stesse studiano nel dettaglio. L'avversione, invece, era scaturita dal breve contatto fisico con la stretta di mano, nel momento delle presentazioni. Ebbi la percezione materiale che con i polpastrelli saggiasse, all'interno del mio palmo, la consistenza dell'epidermide, cosa che mi costrinse, con una certa fretta, a ritrarre la mano.
Un incontro breve, durante il quale io accelerai i tempi perché terminasse il prima possibile. D'altronde, di lì a poco, avrei dovuto prendere l'aereo che mi riportava a Roma.

«Cos'hai in comune con lui?» Chiesi al mio amico Lionel mentre ero in attesa dell'imbarco.
Lionel è un affermato cardiologo che collabora con Medici Senza Frontiere. Di lui conosco l'impegno nel sociale e il suo passato di tribolazioni per affermarsi in un ambiente già predisposto verso coloro che vantano un pedigree di famiglia. Duarte, invece, mi aveva dato l'impressione di vivere solo per se stesso e per  le sue necessità. In sintesi, un egocentrico.

«Non ti piace? Saresti una delle poche a cui Mauricio non piaccia.» Domandò divertito

«Non è il mio tipo fisico (troppo bello), né morale (troppo ambiguo).» Risposi senza tentennare

«Oh là là» Lionel accompagnò l'interiezione con un fischio «E su cosa basa questo tuo drastico giudizio? Sono davvero curioso di sapere.»

«Sulla sua stretta di mano e sugli occhiali da sole.» Precisai.

Mi guardò indulgente e poi scoppiò in una risata: «Sono certo che Lombroso avrebbe concordato con te e, chissà, avrebbe inserito la stretta di mano e gli occhiali da sole tra le anomali tipiche dei delinquenti.»

Risi anch'io, vergognandomi di quel giudizio affrettato e unicamente basato sulle sensazioni.

«Comunque hai ragione» disse sorprendendomi «Mauricio è bello ed amorale. Queste le cause delle sue disgrazie. Sono un po' di anni che l'ho perso di vista, ma da bambini eravamo vicini di casa e poi compagni di banco durante le scuole dell'obbligo. Un figlio del popolo anche lui, che però si è perso inseguendo quello che gli hanno fatto presumere fosse o potesse essere.»

Lionel tacque, mentre una piccola ruga si disegnava sulla fronte: forse stava ritrovando nella memoria fotogrammi di quell'infanzia comune. 

«E poi... cos'è accaduto?» Lo scossi leggermente perché volevo terminasse il racconto prima che la voce dell'altoparlante annunciasse il mio imbarco.

Riemergendo dal suo passato, Lionel, riprese la sua narrazione: «Non ne so molto neppure io da quando con la mia famiglia ci siamo trasferiti, di lui ne ho perso le tracce. Siamo stati, durante l'infanzia, vicini di casa e compagni di banco, ma non potevamo proprio definirci amici. Poi lui ha scritto un romanzo "La gioia di vivere" un racconto autobiografico, a suo dire, ma in realtà molto romanticamente romanzato nei paragrafi che lo riguardavano. Lo rividi durante la presentazione del suo libro. Un incontro frettoloso, alla distanza: aveva troppe mani da stringere ed autografi d'apporre. Comunque, il suo, fu un grande trionfo editoriale che gli diede fama e successo. Ma durò poco. Le donne, la bella vita e, in ultimo, l'alcol, decretarono l'ascesa e la caduta del suo mito. Scrisse ancora un paio di romanzi ad imitazione del primo, ma non ebbero lo stesso clamore, anche perché con le sue gesta e le sue contraddizioni, Duarte s'era rivelato al mondo troppo eccessivo, sproporzionato perfino nei confronti della  sua autobiografia.» Riflettendo soprappensiero, aggiunse: «Che avesse talento per la scrittura, non ricordo, a scuola era nella media, ma di fantasia ne aveva da vendere...era un gran fanfarone e le spar...» 
Lo interruppi, fintamente offesa: «Ehy, stai dicendo che gli scrittori sono dei raccontaballe?»

«Alcuni si...o magari solo lui. Te, comunque, mi sento di escluderti.» Mi rassicurò, ridendo.
Nel frattempo il mio aereo era arrivato e ci salutammo con un grande abbraccio e la promessa di rivederci presto.
Il giorno dopo andai in libreria a comprare il libro di Duarte "La gioia di vivere".

Lo lessi d'un fiato. La trama sfrontata, e in alcuni punti improbabile, era straordinariamente ricca di colore e faceva perdonare lo stile di scrittura troppo piatto e molto auto indulgente. La storia raccontava le peripezie della sua famiglia d'immigrati portoghesi, per sopravvivere nella periferia parigina dove erano andati a vivere. Il suo racconto, come un murales, sciorinava alla luce colori vividi, puri, a tratti selvaggi, come se fossero stati spremuti direttamente dal tubetto. Di quell'affresco colpiva la semplificazione delle forme, l'assenza del chiaroscuro e della prospettiva: in perfetto stile fauves. En plein aire, Duarte si proponeva allo scoperto, al centro della storia così come era: egocentrico, turbolento, irrazionale. Pronto a prendere tutto dopo che, per grande parte del tempo, tutto gli era stato negato. E così, nonostante le incongruenze della trama, che ad un lettore attento di certo non potevano sfuggire, ci si trovava a fare il tifo per lui. E ad amarlo. Amare il suo broncio, le sue speculazioni esistenziali, seppure appena abbozzate e nella sostanza quasi infantili. I suoi molteplici fallimenti, le sue cadute fragorose, e spesso a danno di altri, che pure con disinvoltura, e faccia tosta, raccontava con piglio corsaro. Volutamente l'editore in fase di revisione aveva lasciato il manoscritto allo stato originale, non apportando alcuna modifica, se non nei riguardi della punteggiatura, al racconto degli eccessi e delle intemperanze, ai limiti del morale, di cui il protagonista traeva gloria e vanto e per le quali, inevitabilmente, sarebbe stato al centro di critiche e censure, ma con la certezza che, alla fine, sarebbero state proprio quelle a decretarne il successo in un'azzardata, ma riuscitissima operazione editoriale, che collocò Mauricio Duarte nel pantheon degli anarchici.
"La gioia di vivere" fu un caso letterario, e Mauricio Duarte, assurse, agli occhi dei lettori, come l'antieroe, l'affascinante canaglia. L'oggetto del desiderio del cinema, della pubblicità e delle donne.
E questo decretò il suo disastro.


Eppure,  nonostante il disagio che avevo provato in sua presenza, dopo aver letto "La gioia di vivere", irrazionalmente decisi di avere con lui uno scambio d'opinioni riguardo il suo romanzo che, lo ammetto, in qualche maniera strana, mi aveva coinvolta. Volevo saperne di più, perché di quell'egocentrico ne avrei fatto il protagonista del mio prossimo libro.
Contattarlo si rivelò, invece, molto difficoltoso, poiché Mauricio non aveva un domicilio proprio ma,  avevo appreso dal suo ex editore, alloggiava in camere d'albergo oppure ospite di parenti ed amici.
Fu così che, una volta giunta a Parigi, incaricai della ricerca un investigatore privato, che mi riferì che Duarte, al momento, risiedeva presso l'Hotel Duchesse Apollonia, nei pressi di Montmartre dove, dandomi il pretesto di un incontro casuale, anch'io mi trasferii.

Il mattino dopo lo intercettai nella sala della colazione e, fingendomi sorpresa di trovarlo lì, mi avvicinai al suo tavolo per salutarlo. Ovviamente lui m'invitò ad accomodarmi. Mi sedetti di fronte, sforzandomi di vincere il disagio che il suo sguardo, apertamente indiscreto, mi procurava, e di cui lui era di certo consapevole. Parlammo di Parigi, della casualità di quell'incontro e della nostra comune amicizia con Lionel, fino alla rivelazione di me come scrittrice.

«Quindi anche tu scrivi?» Domandò, passando confidenzialmente al tu, come se l'appartenenza alla stessa categoria costituisse un legame intimo.

Assentii con un cenno della testa «Ma nessun best- seller, però, al mio attivo.» Risposi, con un sospiro e uno sguardo intenzionalmente impostato all'ammirazione nei suoi riguardi. 

 «C'è sempre tempo, per quello. Non farti abbattere.» Mi confortò, sfiorando la mia mano con la sua.

«Credo che non sia questione di tempo ma quanto piuttosto di capacità. Non tutti ne siamo all'altezza.» Obiettai in tono sommesso, rimestando all'infinito il cucchiaino dello zucchero nella tazzina, per non dargli il modo di consolarmi con un'altra carezza sulla mano: «Ho letto il tuo romanzo "La gioia di vivere" e ti confesso che mi ha incantata e allo stesso tempo sconfortata.»

«Sconfortata? Perché?» Chiese, sinceramente incuriosito.

«Lionel mi ha detto che è un romanzo autobiografico, ed è stato soprattutto questo ad indurmi alla lettura. Davvero hai fatto tutte quelle cose? Amato tutte quelle donne? Vissuto tutte quelle esperienze? Wow.» Lo fissai negli occhi  «E poi mi chiedi perché sono sconfortata?»

«Continuo a non capire.» Disse Mauricio dubbioso, scuotendo la testa.

«Se tutto quello che racconti è vero, o anche vero solo in parte, sei partito con un notevole vantaggio nel mondo della scrittura. Insomma, mi verrebbe da dire che, già da quando eri bambino, il tuo best - seller era in stampa.» Ammiccai ironica.

«Puoi verificare la veridicità di ogni capitolo, se vuoi.» Rispose sarcastico. «E poi, a chi importa ormai?» Concluse amaro. 

Quel suo tono mi colse alla sprovvista e lo guardai forse, davvero, per la prima volta.
Nel bel volto dai lineamenti di Mastroianni emergeva, scavata fra le sopracciglia, una ruga profonda, come una V capovolta. L'impronta di pensieri nascosti. Forse penosi. Così come le ombre scure che gli cerchiavano gli occhi, retaggio dell'insonnia e della solitudine, anziché degli stravizi.
Ripensai al nostro incontro al Museo d'Arte Moderna, alla sua stranezza di osservare i quadri con gli occhiali da sole, e alla mia sensazione che stringesse i pugni nelle tasche.

«Importa a me.» Dissi diretta, sollecitando il suo sguardo.

«E perché dovrebbe importarti?» Domandò perplesso e, al contempo, compiaciuto. «E' una storia del passato, appartiene ad un altro uomo e ad un altro mondo. Ed entrambi sono ormai estinti. Di quel tempo quello che resta sono le allucinazioni, e non sono dovute alle sregolatezze del presente ma agli abusi del passato.» E, dopo una pausa di silenzio, disse, quasi in tono di sfida: «Ho il cancro.»

Lo guardai sgomenta, ma lui, con un gesto netto della mano, mi prevenne dall'esternare qualsiasi frase di costernazione.

«Lionel lo sa?»

Mi resi conto di quanto puerile fosse la mia domanda, solo dopo averla formulata. Lui mi guardò incredulo e poi, inaspettatamente, scoppiò a ridere. 

«Perché il buon Lionel compie miracoli? Scusa, ma mi ricordavo che il suo campo fosse la cardiologia.   E d'altronde un uomo come lui di sani e nobili principi, con la sindrome del missionario, non poteva che curare cuori.» Sottolineò beffardo. «Io e lui non siamo mai stati amici. Non ha voluto e non me lo ha permesso. Credo che fosse spaventato da me o, forse, nutriva solo pregiudizi. Noi eravamo molto diversi, come l'acqua e il vino. E, indovina chi era il vino?» Rise di nuovo.

«Tu?» Chiesi ironica.

Mauricio, che parve non rilevare il mio tono intenzionalmente canzonatorio, scosse la testa in segno di approvazione.

«Senza alcun dubbio. E sai perché? L'acqua purifica e disseta, ma è il vino che dà l'ebrezza. E' il vino che fa girare la testa. Un chirurgo deve mantenersi sempre lucido affinché le sue mani non tremino, ma uno scrittore no, anche se esce fuori dal rigo o versa inchiostro sul foglio, può sempre ricominciare a scrivere su una nuova pagina. La possibilità di commettere errori: è questa la differenza tra me e Lionel.» Sorrise, alzandosi e inforcando gli occhiali da sole. «E' una così bella giornata, forse una delle mie ultime, e non voglio sprecarla a questo tavolo a parlare di Lionel.» Mi porse la mano invitandomi ad alzarmi. 

Lo seguii.
Fuori la strada brulicava di gente e di vita. Mauricio, mi prese sottobraccio e, nel tragitto mi andava svelando gli angoli più segreti di Parigi, attraverso immagini vivide e tinte accese, irriverenti e chiassose, spesso blasfeme, alternate a riflessioni talvolta malinconiche, talvolta arrabbiate,. Graffianti, come le ruvide, segrete carezze di un innamorato tradito, sulla fotografia della sua donna, quando il sentimento ancora s'ostina a non cedere il posto alla rassegnazione. Immaginai che Duarte avesse una relazione ambivalente con la sua città: amore e odio; desiderio e mal sopportazione; poesia e blasfemia.
Mentre camminavamo sentivo sul mio braccio la presa delle sue dita. Poi, inaspettatamente, mi spinse contro un muro e mi baciò. Io tentai una debole resistenza, però non mi sottrassi.

«Shhh, non si nega l'ultimo bacio ad un condannato a morte.» Scherzò, carezzandomi le labbra per mitigare l'irruenza del gesto. Si accese una sigaretta, offrendomene una. 

Restammo per un po' appoggiati a quel muro a fumare in silenzio.

«Potrei darti una nuova possibilità di vita facendo di te il protagonista del mio prossimo romanzo.» Proposi, come se quell'idea, che poi era stata lo scopo del mio approccio, mi fosse venuta, invece, al momento. Ma di quell'offerta me ne vergognai l'attimo dopo averla suggerita. Era come se stessi  lanciando un'esca ad un pesce già  intrappolato in una rete. 

Mauricio  scosse la testa in segno di diniego «No. Ti proibisco di farlo!» M'ingiunse in tono deciso, gettando a terra il mozzicone di sigaretta e allontanandosi, a grandi passi, da me. 

Lo rincorsi e lo raggiunsi. Fui io, stavolta, ad aggrapparmi al suo braccio.

«Aspetta, Mauricio» Lo implorai «Non lo farò se tu non lo vuoi. Era solo un'idea per...»

M'interruppe, forse senza neanche avermi ascoltato: «Neppure t'immagini quanta forza occorra per rimanere in costante equilibrio su un dirupo, in bilico con le braccia spalancate per resistere alla forza del vento che potrebbe spazzarti via, o a quella di gravità, che potrebbe risucchiarti nelle sue viscere.»

C'era affanno nella sua voce, e le mani gli tremavano. Si accorse del mio sguardo e le nascose in tasca. Rimasi in silenzio per dargli modo di riprendersi.  Di riacquistare una padronanza, sia pur di facciata, che lo ponesse al riparo da ulteriori, più intimi svelamenti. Si tolse gli occhiali da sole e guardandomi dal profondo delle ombre dei suoi occhi, proseguì: «Non ho paura di morire ma di non riuscire a farlo. Non la voglio una seconda vita. Sono stanco. Da qui, alla fine dei miei giorni e per tutta l'eternità, voglio essere acqua. Niente altro che acqua. Promettimi che non scriverai niente su di me. Che mi lascerai andare.»


Al suo funerale c'eravamo solo io, Lionel e il suo ex editore.
Quel giorno pioveva a dirotto, ma non lo ricordo come un giorno triste perché il desiderio di Mauricio  s'era avverato.

E, come promesso, quel libro su di lui non l'ho più scritto.

sabato 16 marzo 2024

La felicità



La felicità, una volta consumata, tramuta nel nocciolo duro di un frutto, quel che resta della sua polpa erosa. Un nucleo che non ha sapore né odore. Un osso di traverso nella gola.

venerdì 8 marzo 2024

Otto Marzo


Scarpe rosse e
croci con nomi di donne
fioriscono
lungo il sentiero delle mimose.

martedì 13 febbraio 2024

Clandestina


 Giorno 1
Clandestina

E' ora di tornare a scrivere, mi sono detta stamani come ormai mi sollecito da tanti mesi, visto che nel mio computer giacciono accatastati, come corpi di anonimi soldati in un cimitero di guerra, racconti incompiuti, appunti e bozze a cui dare un destino.
Ma oggi, magari, è la volta buona che riesco a superare il blocco del foglio bianco.
Complici di questo mio stato d'animo sono un cielo di porcellana celeste e un vago tepore marzolino, promessa di una primavera prematura, perché sebbene sia ancora gennaio nel coccio sul davanzale, tra i detriti di terra desolata, fa capolino la prima violetta, introversa esploratrice che inebria l'aria col suo intenso profumo di caramella, e intriga i sensi con la fiamma fredda del colore dei suoi petali. 
Premesse di una primavera ante tempore e del mio cambiamento di vita, questo già in corso, che mi permette di vivere sulla base delle mie necessità (la scrittura) e non più solo sugli obblighi esistenziali (il lavoro)
Un nuovo corso dove finalmente posso dilatare o restringere il tempo secondo il mio umore. 
E la mia ispirazione.
Ma è quest'ultima che ho scoperto essersi data alla macchia, la clandestina della quale non ho più, da un'infinità di mesi, alcun sentore, nonostante tutte le mattine cerchi di evocarla attraverso parole, frasi brevi per lo più, straordinariamente cariche di tutto ma prive, però, di un vero senso logico. 
Come se in quell' accozzaglia di parole incoerenti fosse nascosta l'ispirazione.
E' un guazzabuglio tondo che non origina da un punto di partenza e non ne ha uno d'arrivo, così da essere ai suoi estremi saldamente congiunto in un tutt'uno. Un nucleo dal quale io sono fuori.
 Esterna. Ed esclusa. 
Clandestina.  
Ignorata da quel vorticoso girotondo di frasi ermetiche, dada, indecifrabili o, peggio ancora, balbettanti. Troppo spesso pretestuose o banali che non mi portano a niente. Di sicuro non alla risoluzione della mia apatia mentale.
 E di questo mare fermo, laddove prima turbinavano uragani, non so che farmene.

Giorno 2
Puck

Ho trascorso, pure oggi, un lungo tempo seduta al computer senza partorire nessuna idea se non spezzoni d'immagini sfocate o in penombra, impossibili da tradurre in parole.
 Anche stamani c'è lo stesso lembo di cielo celeste, terso e asciutto, come una pregiata seta cinese.
Un cielo senza nubi né ombre, perché quelle sono tutte nelle immagini concepite dalla mia mente. 
Ah, se con quelle potessi invadere questo fazzoletto di cielo, espanderlo e plasmarlo nella sua piatta geografia, fino a scomporlo ed alterarlo nella rifrazione di un prisma!
Un gioco ottico tridimensionale.
Un tentativo di riscrittura della realtà.
Se solo riuscissi a tessere l'inganno ritroverei la mia ispirazione.
Non più clandestina, ritornerei al mio centro.

Il mio gatto Puck fa il suo ingresso con la coda dritta, mi guarda sornione e con un balzo salta sul davanzale della finestra. Dal vetro scruta il mio stesso angolo di visuale, poi si allunga verso la maniglia, segno che vuole uscire. Un gesto pigro ed insieme imperativo. Io non ottempero meccanicamente al comando e lui si gira a guardarmi stupito, abituato com'è alla mia sollecitudine. Allora apro la finestra e con un agile balzo plana nel giardino sottostante, dove si stiracchia al sole. 
Padrone di quel suo angolo di mondo non sente il bisogno d' inventarne altri. 
Lui è al suo centro. 
Lui ne è il centro.

Giorno 3
"Heaven is a place on Earth"

 Una notte tonda, questa appena trascorsa. Tonda come il girotondo di bambini che, uniti per mano, cantavano nel mio sogno "Heaven is a place on Earth", in un prato primaverile colmo di violette, sullo sfondo di un cielo turchino e sotto lo sguardo benevolo di Puck, acciambellato al centro del girotondo.
...il paradiso è un posto sulla terra, cantavano i bambini,
...dicono che in paradiso l'amore viene prima di tutto, trasformeremo il paradiso in un posto sulla terra, promettono, certi nella forza dell'amore. E della sua infallibilità. 
Perché i bambini credono nelle cose potenti, invincibili e magiche. Come l'amore.

Un tempo ci ho creduto anch'io all'amore che si è rivelato, però, essere una favola senza lieto fine e, quando tutto è finito, per non soccombere alle oppressioni del cuore e a quelle della mente, sono ricorsa all'immaginazione. Così ho cominciato a costruire realtà alternative entro cui rifugiarmi. Ad inventare storie. E poi a scriverle, sia pure per un pubblico immaginario.
La scrittura è stata per tutti questi anni il mio paradiso, il mio posto sulla terra. 
Ora però che ho perso l'ispirazione, e con essa il diritto ad abitarci, mi sento una clandestina.

Oggi non farò nessun tentativo di scrittura. 

Giorno 4
Scenari opposti e discordanti

Ho impostato "Heaven is a place on Earth" come suoneria sul mio cellulare. Mi ritrovo anche a canticchiarla mentre sfaccendo. 
Puck ieri non è rientrato a casa. Non è la prima volta  che capita, deve avere un suo rifugio segreto o una tresca amorosa con qualche gattina in zona. O magari un'altra famiglia. Una doppia vita, insomma. Dovrò pedinarlo per vedere verso chi, e dove, lo conducono i suoi vagabondaggi.
 Sorrido a questa situazione da sitcom.
La violetta, sul davanzale, è in piena fioritura, in netto contrasto con gli arbusti legnosi che dal giardino si arrampicano fino alla mia finestra, e le cui ramificazioni, come dita scheletriche, si protendono torve a volerla ghermire. La sposto dal davanzale al tavolo della cucina, accanto al cestino della frutta. Rimiro la mia composizione rendendomi conto, con disappunto, che ho appena realizzato una natura morta. Mi viene da riflettere sulla  transitorietà sulla vita. D'un tratto mi sento triste.
Ricolloco la violetta sul davanzale, perché quello è il suo posto. Il suo paradiso sulla terra.
Mi sento sollevata. Più tardi chiamerò l'amministratore perché incarichi un giardiniere per la potatura degli arbusti. 

Per tutta la giornata ho volutamente ignorato il computer, ma quello che non sono riuscita ad ignorare è il contrasto tra l'interno della casa, opprimente e scuro, e l'esterno, luminoso e rarefatto. Scenari opposti e discordanti di due realtà parallele e prospicienti.
In una di queste sono prigioniera, nell'altra, invece, clandestina.

Annotta velocemente e Puck non è ancora tornato. Così come non è tornata l'ispirazione.


Giorno 5
Una nuvola

Nel sogno, Puck, si è inerpicato fino alla finestra della mia camera e, per richiamare la mia attenzione, miagola e gratta alle imposte. Nel trambusto cade, nel giardino sottostante, il vaso della violetta. Mi alzo e apro la finestra per farlo entrare. Puck fa capolino dall'apertura e, con uno scarto deciso, s'insinua dentro. Dalla finestra scruto nel buio il punto dove è caduto il vaso, e con meraviglia scopro che tutto il giardino è fiorito di violette. Un fantastico tappeto, vivido e profumato, a rivestire il misero praticello condominiale. Anche gli anoressici arbusti sono fioriti. Si evidenziano nel buio, cosparsi da una variegata nebbiolina rosa pallido e bianca, che stuzzica i sensi con note penetranti di gelsomino.   

Mi sveglia il raspare di Puck alla finestra, e il sonoro picchiettare della pioggia sulla grondaia. Mi alzo per farlo entrare. La violetta è al suo posto sul davanzale ma, alla luce cruda dell'alba i suoi  petali appaiono sciupati e sbiaditi.  
E' una qualsiasi mattina di gennaio, questa, umida e piovosa. Incolore.
La meteorologia si è riconciliata con la stagione in corso. 
 Vado in cucina richiamata dal miagolio insistente di Puck che reclama la colazione. Riempio le sue ciotole e preparo la moka per me. Nel frattempo ha smesso di piovere. 
Reduce dalla sua notte di vagabondaggi, Puck, ormai sazio, dorme acciambellato su una sedia nel calore confortevole della casa. Sorseggio il mio caffè davanti alla finestra dove una piccola nuvola, rosa e arancio, gira in tondo nel lembo di cielo circoscritto dal quadrato del vetro. Mi ricorda un pesciolino prigioniero in una boccia di vetro. Un nodo mi stringe la gola. Spalanco la finestra per affrancare la nuvola dalle barriere della mia visuale. Non più confinata nel limite del mio sguardo, è ora libera di travalicare i confini del cielo fin dove la materia si fa più sublime. 

Mi piacciono le nuvole perché non hanno una provenienza specifica e neppure una meta. Non le puoi trattenere o imprigionare o conservare. Sono figlie del vento e della pioggia. Hanno un cuore zingaro, non si legano a nessun luogo e a nessuna stagione. Sono anarchiche. Nessun Dio e nessun padrone. Nessuno che le governi. Nessuno che le possa ingabbiare dentro un confine, una legge o un credo.
O un sogno. Tanto meno costringerle a nascondersi.
Nella vastità del cielo nessuna nuvola sarà mai clandestina.

Nessuna nuvola sarà mai clandestina. L'ho scritto col rossetto sullo specchio. L'ho scritto di getto per fissare la traccia mutevole della piccola nube rosa e arancio che ha sostato, per un breve momento, davanti la mia finestra. L'ho scritto e subito dopo cancellato, perché non mi serve un promemoria ora che ho chiara la trama. Un racconto su cose potenti, invincibili e magiche. Come lo sono le nuvole, i fiori, i bambini e i gatti. 
E l'amore, col quale trasformare il paradiso in un posto sulla terra.