Ho ripreso a scrivere, dopo tanto tempo, la storia di "Rebecca".
Le prime righe sono state facili, poi di nuovo, è subentrato lo stand-by.
Da mesi la vado inseguendo con la lucida logica del giorno e gli incubi colpevoli della notte, e con i sensi di colpa di una cattiva madre che non ha saputo vigilare sulla propria innocente creatura, ed ora invano si dispera di averla, con la sua deplorevole inanità, inconsciamente voluta annichilire.
Devo assolutamente ritrovarla prima che la sua immagine trasmuti nel riflesso sbiadito di un'ombra vagante tra i ghirigori arabescati della carta da parati di questa stanza, in quello che si prefigura il triste destino finale di tutte le "incompiute".
Ma è ciò che invece è proprio accaduto quando, al culmine delle mie sterili doglianze, posando distrattamente lo sguardo sulla parete, ho captato il riflesso rosso dei suoi capelli e la luce nera delle sue iridi: solo un'istantanea, fugace e confusa, e l'attimo dopo era già sparita, inghiottita dal fitto intrico del disegno di un fogliame vintage.
Invano ho cercato di ritrovarla esplorando più volte, in verticale ed in orizzontale, e con l'ausilio di una potente lente d'ingrandimento, le pareti della stanza, vagando tra le sinuose volute e i viluppi floreali, come una mosca tenace, ma assolutamente impotente.
Il mio scarso senso dell'orientamento del tutto spiazzato dalla ripetitività ossessiva dell'arabesco.
Come essere all'interno di un labirinto, dove gli elementi dei sentieri, tracciati con precisione millimetrica, sono esattamente identici gli uni agli altri.
Si perde l'orientamento.
E la ragione.
Tali e tanti altri rischi si corrono a voler inseguire le ombre mimetizzate sulle pareti.
Miraggi che si dissolvono nell'oscurità più fitta così come nel chiarore più intenso, che la luce inganna allo stesso modo del buio.
Per liberare Rebecca dalla trappola dell'arabesco ho iniziato a cancellare, con solventi ed intrugli chimici, gli immaginifici ghirigori e le sontuose impalcature floreali, piallare linee e demolire vettori, al fine di rendere visibile lo sfondo per poterla finalmente intercettare.
Ostinata, continuo a cancellare le sinuose geometrie dell'arabesco sulla carta da parati che somiglia, sempre più, ad una bizzarra mappa geografica dove le espugnazioni nette hanno prodotto aree concave come pianure innevate; l'uso improvvido dei solventi ha delineato marcate slabbrature rossicce, simili a crateri di vulcano; di contro, invece, il solvente troppo diluito ha trattenuto le impronte dei miei polpastrelli, che hanno generato il tenue contorno di laghetti.
Quella che va delineandosi tra le mie mani è la mappa psicografica di un mondo parallello.
E mentre cerco d'intercettare nella trama, minuta e fittissima dell'arabesco, tracce della presenza di Rebecca, m'interrogo se anche io sono, al pari di lei, una creatura metafisica, mimetizzata nel disegno della carta da parati, sulla parete opposta.
Un'ombra che prende vita solo se ne viene rilevata la presenza.
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