INQUIETUDINI
Mi sono presa una pausa dal Blog.
Ho esplorato Face Book.
Mi sono iscritta a un gruppo.
Alla ricerca di nuovi interessi.
Non ne ho trovati.
In compenso stanno scomparendo anche i vecchi.
Non riesco più a scrivere.
Dilaga il mio pessimismo esistenziale a cui, però, non voglio ancora del tutto arrendermi.
Marilena
(Diario - Inquietudini 17/02/2014)
Prova a fare una pausa, vedrai che ti verrà la nostalgia di questo piccolo 'non luogo' privato, ove si può spadroneggiare.
Cristiana
Dedico questo blog a mia madre, meravigliosa farfalla dalle ali scure e dal cuore buio, totalmente priva del senso del volo e dell'orientamento e, per questo, paurosa del cielo aperto. Nevrotica. Elusiva. Inafferrabile.
venerdì 25 aprile 2014
lunedì 21 aprile 2014
Un difficile sdoppiamento
(Amaranta)
Saggio non svelarsi mai completamente neppure a sé stessi: spontaneamente lasciare irrisolto un interrogativo; consapevolmente non sciogliere l'ingarbugliamento di un nodo; scientemente illuminare una zona d'ombra.
Questa salvifica misconoscenza impedirebbe, all'introspettivo penitente di apprestarsi al confessionale con l'intento specifico di dichiarare i peccati del passato e del presente, e con anticipo quelli non ancora commessi, che pur avendo il presentimento di poterli nel futuro perpetrare, non sono stati ancora compiuti.
Per quel che mi riguarda, una confessione preventiva dei reati commessi, e di quelli in pectore, e la smania di espiarli per un senso di giustizia e non per l'assoluzione.
La confessione non impedisce la reiterazione: un circolo vizioso.
Con l'aggravante della consapevolezza a trasformare, il tutto, in un girone infernale.
E non c'è nessuno, più entusiasta del peccatore pentito, che si appresta a confessarli e poi ad espiarli.
Il saio e il cilicio e, sullo sfondo, un rogo ammonitore.
Nella duplice veste di giudice e d'imputato, i verdetti paiono mai abbastanza duri perché permane il dubbio della concessione, ad personam, di una qualche attenuante.
Se la pena inflitta è l'ergastolo l'unico modo per evadere, sia pur solo mentalmente, è la spettacolarizzazione di se stessi.
Più circoscritto è il perimetro calpestabile più ci si eleva in altezza, con fasto hollywoodiano e abbondanza di effetti speciali.
E l'auspicio di un pubblico vero che faccia la fila al botteghino a decretare il tutto esaurito.
Ed eccoti al centro del palco, rutilante di luce, sicura del copione e della parte che stai rappresentando in quella sceneggiatura che hai scritto in virtù della completa, ed intima, conoscenza di te stessa.
Non ci sono puntini sospensivi, è tutto definito: en plein air.
Nessun luogo è così luminoso come quella tua cella, simile al microscopico pertugio di un topo, dal cui interno occhieggia, però, con l'occhio unico di un ciclope a circoscrivere il mondo.
Non c'è bisogno di una garitta per dominare i territori conquistati, lo si può fare anche da un pozzo sotterraneo, basta che ci sia lo spazio necessario per manovrare i fili.
Lo scrittore, all'inizio della storia, è incuriosito e affascinato dalla diretta conoscenza dei suoi personaggi, appassionato alle probabilità della trama di cui ne scandaglia ogni possibile risorsa, ma afflitto, prima ancora di giungere all'ultimo capitolo, d'aver preventivamente svelato a se stesso, tutte le incognite.
Per lo scrittore, quindi, non esistono segreti.
Nessuna sorpresa, nessun colpo di scena, nessun batticuore: tutto svelato, organizzato, predisposto all'altrui meraviglia.
Alla ricerca dello stupore smetterà, allora, le vesti dello scrittore per indossare quelle del lettore.
Un difficile cambio di ruolo, al quale dovrebbe predisporsi preventivamente resettato dalla sua essenza di addetto ai lavori, così da non rilevare, con spirito troppo critico, le correzioni, le contraddizioni, gli aggiustamenti, i prevedibili colpi di scena, quelli programmati e quelli di supporto...insomma, quei medesimi artifici a lui noti e da lui stesso attuati.
Predisporsi con l'entusiasmo, spontaneo e benevolo del lettore che, all'oscuro di questi sottili inganni, (sulla pagina vede solo le parole e non le impalcature che le sostengono) pienamente gode della storia nella sua interezza.
Un difficile sdoppiamento
Marilena
Per quel che mi riguarda, una confessione preventiva dei reati commessi, e di quelli in pectore, e la smania di espiarli per un senso di giustizia e non per l'assoluzione.
La confessione non impedisce la reiterazione: un circolo vizioso.
Con l'aggravante della consapevolezza a trasformare, il tutto, in un girone infernale.
E non c'è nessuno, più entusiasta del peccatore pentito, che si appresta a confessarli e poi ad espiarli.
Il saio e il cilicio e, sullo sfondo, un rogo ammonitore.
Nella duplice veste di giudice e d'imputato, i verdetti paiono mai abbastanza duri perché permane il dubbio della concessione, ad personam, di una qualche attenuante.
Se la pena inflitta è l'ergastolo l'unico modo per evadere, sia pur solo mentalmente, è la spettacolarizzazione di se stessi.
Più circoscritto è il perimetro calpestabile più ci si eleva in altezza, con fasto hollywoodiano e abbondanza di effetti speciali.
E l'auspicio di un pubblico vero che faccia la fila al botteghino a decretare il tutto esaurito.
Ed eccoti al centro del palco, rutilante di luce, sicura del copione e della parte che stai rappresentando in quella sceneggiatura che hai scritto in virtù della completa, ed intima, conoscenza di te stessa.
Non ci sono puntini sospensivi, è tutto definito: en plein air.
Nessun luogo è così luminoso come quella tua cella, simile al microscopico pertugio di un topo, dal cui interno occhieggia, però, con l'occhio unico di un ciclope a circoscrivere il mondo.
Non c'è bisogno di una garitta per dominare i territori conquistati, lo si può fare anche da un pozzo sotterraneo, basta che ci sia lo spazio necessario per manovrare i fili.
Lo scrittore, all'inizio della storia, è incuriosito e affascinato dalla diretta conoscenza dei suoi personaggi, appassionato alle probabilità della trama di cui ne scandaglia ogni possibile risorsa, ma afflitto, prima ancora di giungere all'ultimo capitolo, d'aver preventivamente svelato a se stesso, tutte le incognite.
Per lo scrittore, quindi, non esistono segreti.
Nessuna sorpresa, nessun colpo di scena, nessun batticuore: tutto svelato, organizzato, predisposto all'altrui meraviglia.
Alla ricerca dello stupore smetterà, allora, le vesti dello scrittore per indossare quelle del lettore.
Un difficile cambio di ruolo, al quale dovrebbe predisporsi preventivamente resettato dalla sua essenza di addetto ai lavori, così da non rilevare, con spirito troppo critico, le correzioni, le contraddizioni, gli aggiustamenti, i prevedibili colpi di scena, quelli programmati e quelli di supporto...insomma, quei medesimi artifici a lui noti e da lui stesso attuati.
Predisporsi con l'entusiasmo, spontaneo e benevolo del lettore che, all'oscuro di questi sottili inganni, (sulla pagina vede solo le parole e non le impalcature che le sostengono) pienamente gode della storia nella sua interezza.
Un difficile sdoppiamento
Marilena
sabato 19 aprile 2014
Mia madre era dark
Penso spesso a mia madre
L'immagine di lei, davanti allo specchio: l'incarnato chiaro, la bocca rossa, un cerchietto nei capelli scuri, ed un vestito estivo dalla stravagante fantasia.
Bella ed inaccessibile.
Una eroina di Poe, tragicamente predestinata ad esser sepolta viva.
Un destino poi avverato.
Amava il buio e la penombra.
Parlava della sua morte, imminente e prematura.
Minaccia di suicidio.
Un giorno avrebbe aperto la finestra e spiccato il volo verso il suolo.
A noi, però, aveva vietato d'avvicinarci a finestre e balconi: aveva il terrore di una disgrazia.
Sono vissuta, da bambina, nell'ossessione di questa sua morte preannunciata.
Non stornava gli occhi dalle scene cruente: il sangue non la spaventava, piuttosto sembrava provarne fatale attrazione.
Le sue fiabe...ad incutere spavento per prevenire la nostra bambinesca spavalderia.
Amavo quei momenti di narrazione condivisi nel letto grande, con la luce fioca dell'abatjour che illuminava ombre invisibili sulle pareti e, oltre la soglia, il rettangolo buio del corridoio.
Il mondo era in quella stanza e nei toni impazienti della sua voce, quando a causa delle nostre intemperanze, interrompeva il racconto minacciando di non terminarlo.
A volte la minaccia s'avverava.
Aspettavo, con ansia e sollievo, i momenti tragici della storia: non sempre c'era il lieto fine perché lei, a sua discrezione, liberamente l'interpretava.
Mai in nessun altro luogo, come in quella stanza, nel letto condiviso con lei e la nidiata dei miei fratelli, mi sono sentita così al sicuro.
Le ombre invisibili, che vigilavano sulle pareti, avrebbero impedito ai fantasmi fluttuanti nel corridoio buio di oltrepassare la soglia.
Perché mia madre, fata e strega, conosceva la formula magica per impedirne l'accesso.
E la formula era segretata nelle parole del racconto.
Mia madre era bella.
Poi l'alzheimer l'ha erosa un pezzettino per volta.
L'ha spolpata, come un boccone prelibato.
Si è cibato di lei.
Perché non fuggisse l'ha seppellita viva nel catafalco del suo corpo, per poterne disporre a suo piacimento.
Un catafalco senza finestre da cui spiccare il volo, sia pure verso il suolo.
L'avrei spinta io, nel vuoto, pur di liberarla dal mostro che la stava vivisezionando.
Un racconto in bianco/rosso/nero, quello della sua vita.
Protagonista di una favola dark.
Perché mia madre era dark.
Le sue ossessioni, così come le sue attrazioni, le sue contraddizioni e le sue enfasi, la sua malinconia congenita come il suo, a volte, troppo irruento protagonismo, sono tutte riconducibili alla poetica dark.
Tragica eroina di un racconto di Allan Poe.
Realistica interprete di un film di Tim Burton.
Perfettamente la ricordo composta nella bara: i capelli, nonostante gli anni e la malattia, ancora quasi tutti scuri, le palpebre incollate e la bocca...troppo sottile ed allungata, non era la sua.
Lei aveva belle labbra.
Quella bocca non le apparteneva
Non era lei nella bara.
Purché tutto si concludesse in fretta ho finto che lo fosse.
Oggi sono riuscita, dopo nove mesi dalla sua morte (nove mesi: il tempo di una gestazione) a ricomporla in quella bara nel modo giusto: l'incarnato chiaro, la bocca rossa, un cerchietto nei capelli scuri, e un abito estivo dalla stravagante fantasia.
Su questo fermo immagine l'ho adagiata nel suo letto matrimoniale, le ho posto uno specchio tra le mani, ho acceso l'abatjour e la luce fioca ha resuscitato le ombre invisibili, vigilanti sulle pareti della sua camera, ad impedire ai fantasmi fluttuanti nel corridoio buio di oltrepassare la soglia.
Mia madre ora riposa dove nessun mostro potrà ridestarla con un bacio ingannevole, trascinarla nella sua tana buia e farne scempio.
Bella ed inaccessibile.
Inviolabile.
Finalmente al sicuro.
Marilena
L'immagine di lei, davanti allo specchio: l'incarnato chiaro, la bocca rossa, un cerchietto nei capelli scuri, ed un vestito estivo dalla stravagante fantasia.
Bella ed inaccessibile.
Una eroina di Poe, tragicamente predestinata ad esser sepolta viva.
Un destino poi avverato.
Amava il buio e la penombra.
Parlava della sua morte, imminente e prematura.
Minaccia di suicidio.
Un giorno avrebbe aperto la finestra e spiccato il volo verso il suolo.
A noi, però, aveva vietato d'avvicinarci a finestre e balconi: aveva il terrore di una disgrazia.
Sono vissuta, da bambina, nell'ossessione di questa sua morte preannunciata.
Non stornava gli occhi dalle scene cruente: il sangue non la spaventava, piuttosto sembrava provarne fatale attrazione.
Le sue fiabe...ad incutere spavento per prevenire la nostra bambinesca spavalderia.
Amavo quei momenti di narrazione condivisi nel letto grande, con la luce fioca dell'abatjour che illuminava ombre invisibili sulle pareti e, oltre la soglia, il rettangolo buio del corridoio.
Il mondo era in quella stanza e nei toni impazienti della sua voce, quando a causa delle nostre intemperanze, interrompeva il racconto minacciando di non terminarlo.
A volte la minaccia s'avverava.
Aspettavo, con ansia e sollievo, i momenti tragici della storia: non sempre c'era il lieto fine perché lei, a sua discrezione, liberamente l'interpretava.
Mai in nessun altro luogo, come in quella stanza, nel letto condiviso con lei e la nidiata dei miei fratelli, mi sono sentita così al sicuro.
Le ombre invisibili, che vigilavano sulle pareti, avrebbero impedito ai fantasmi fluttuanti nel corridoio buio di oltrepassare la soglia.
Perché mia madre, fata e strega, conosceva la formula magica per impedirne l'accesso.
E la formula era segretata nelle parole del racconto.
Mia madre era bella.
Poi l'alzheimer l'ha erosa un pezzettino per volta.
L'ha spolpata, come un boccone prelibato.
Si è cibato di lei.
Perché non fuggisse l'ha seppellita viva nel catafalco del suo corpo, per poterne disporre a suo piacimento.
Un catafalco senza finestre da cui spiccare il volo, sia pure verso il suolo.
L'avrei spinta io, nel vuoto, pur di liberarla dal mostro che la stava vivisezionando.
Un racconto in bianco/rosso/nero, quello della sua vita.
Protagonista di una favola dark.
Perché mia madre era dark.
Le sue ossessioni, così come le sue attrazioni, le sue contraddizioni e le sue enfasi, la sua malinconia congenita come il suo, a volte, troppo irruento protagonismo, sono tutte riconducibili alla poetica dark.
Tragica eroina di un racconto di Allan Poe.
Realistica interprete di un film di Tim Burton.
Perfettamente la ricordo composta nella bara: i capelli, nonostante gli anni e la malattia, ancora quasi tutti scuri, le palpebre incollate e la bocca...troppo sottile ed allungata, non era la sua.
Lei aveva belle labbra.
Quella bocca non le apparteneva
Non era lei nella bara.
Purché tutto si concludesse in fretta ho finto che lo fosse.
Oggi sono riuscita, dopo nove mesi dalla sua morte (nove mesi: il tempo di una gestazione) a ricomporla in quella bara nel modo giusto: l'incarnato chiaro, la bocca rossa, un cerchietto nei capelli scuri, e un abito estivo dalla stravagante fantasia.
Su questo fermo immagine l'ho adagiata nel suo letto matrimoniale, le ho posto uno specchio tra le mani, ho acceso l'abatjour e la luce fioca ha resuscitato le ombre invisibili, vigilanti sulle pareti della sua camera, ad impedire ai fantasmi fluttuanti nel corridoio buio di oltrepassare la soglia.
Mia madre ora riposa dove nessun mostro potrà ridestarla con un bacio ingannevole, trascinarla nella sua tana buia e farne scempio.
Bella ed inaccessibile.
Inviolabile.
Finalmente al sicuro.
Marilena
sabato 12 aprile 2014
Interno giorno
I miei nuovi ritmi esistenziali mi allontanano sempre più dalla realtà dell'antro.
Ogni volta che tento di oltrepassarne la soglia, s'alza un vento forte e contrario che mi risucchia nel suo ingarbugliato vortice, per catapultarmi, senza troppi complimenti, sul pianeta Terra.
Solo il tempo di gettare, attraverso l'esterno dei vetri, una rapida occhiata, per intravedere la sagoma scheletrica di Iggy appollaiato, come un pappagallo rissoso, sulla spalla di Amaranta, improvvisata governante di una dimora che, altrimenti, cadrebbe in balia dell'anarchia più assoluta.
Ora è lei che ha preso le redini del comando e, come si dice in gergo, dirige la baracca.
Probabilmente pensa che io sia ancora in viaggio, seppur ben conosce la mia difficoltà ad avventurarmi da sola, fosse pure in una strada adiacente e mai percorsa.
Così, dai vetri capto la fugace visione della mia alter ego che s'aggira per le stanze dell'antro con un cigarillo tra le labbra e con Iggy abbarbicato alla sua spalla, esibito come un trofeo, e felice di esserlo.
L'amore ci rende arrendevoli e gentili.
La ferocia di Iggy, il minuscolo killer affetto da D.O.C, sedata dal profumo insidioso della treccia di Amaranta a cui, teneramente, rimane aggrappato con le tozze dita, a tracciare, nell'intrico dei capelli, caste carezze.
Non necessito di vedere per sapere, che ben conosco i protagonisti, così dal mio momentaneo esilio coatto, nitidamente immagino le successive sequenze: Amaranta spalanca le finestre, Iggy, traumatizzato dall'irrompere improvviso della luce, pur non cede la sua postazione, stoicamente resiste a quella tortura, abbagliato dal sacrificio dell'amore e dalla poesia della sua eterrnità.
Durerà poco questo idilio mattutino, come tutti gli altri di cui sono stata testimone oculare, che la mia alter ego, presa da altre impellenze, vorrà presto alleggerirsi di quel minuscolo fardello che pur le grava sulla spalla, nonostante gli sforzi di Iggy per rendersi incorporeo.
Dapprima ricorrerà all'arte della persuasione, che non sortirà alcun effetto, per diventare, poi, irriducibilmente decisa.
Allora lui, preda della sindrome dell'abbandono, scalcerà e si ribellerà, ricorrendo in ultimo al fallimentare ricatto dell'autolesione.
Amaranta non se ne lascerà intimorire e, pragmaticamente, lo lascerà sfogare nel suo bugicattolo dove lui, di lì a poco, privo di energie, cadrà in un sonno ristoratore e consolatorio, in cui continuerà a sognare di lei.
Scene già viste.
Scene che vorrei continuare a vedere.
Amaranta spalanca le finestre e la luce inonda le stanze di flebile tepore primaverile.
Dal sottotetto dell'antro, una rondinella abusiva, spicca il volo verso un cielo da cartolina.
Lo stesso cielo di Roma, lontano migliaia di miliardi di parsec.
Ogni volta che tento di oltrepassarne la soglia, s'alza un vento forte e contrario che mi risucchia nel suo ingarbugliato vortice, per catapultarmi, senza troppi complimenti, sul pianeta Terra.
Solo il tempo di gettare, attraverso l'esterno dei vetri, una rapida occhiata, per intravedere la sagoma scheletrica di Iggy appollaiato, come un pappagallo rissoso, sulla spalla di Amaranta, improvvisata governante di una dimora che, altrimenti, cadrebbe in balia dell'anarchia più assoluta.
Ora è lei che ha preso le redini del comando e, come si dice in gergo, dirige la baracca.
Probabilmente pensa che io sia ancora in viaggio, seppur ben conosce la mia difficoltà ad avventurarmi da sola, fosse pure in una strada adiacente e mai percorsa.
Così, dai vetri capto la fugace visione della mia alter ego che s'aggira per le stanze dell'antro con un cigarillo tra le labbra e con Iggy abbarbicato alla sua spalla, esibito come un trofeo, e felice di esserlo.
L'amore ci rende arrendevoli e gentili.
La ferocia di Iggy, il minuscolo killer affetto da D.O.C, sedata dal profumo insidioso della treccia di Amaranta a cui, teneramente, rimane aggrappato con le tozze dita, a tracciare, nell'intrico dei capelli, caste carezze.
Non necessito di vedere per sapere, che ben conosco i protagonisti, così dal mio momentaneo esilio coatto, nitidamente immagino le successive sequenze: Amaranta spalanca le finestre, Iggy, traumatizzato dall'irrompere improvviso della luce, pur non cede la sua postazione, stoicamente resiste a quella tortura, abbagliato dal sacrificio dell'amore e dalla poesia della sua eterrnità.
Durerà poco questo idilio mattutino, come tutti gli altri di cui sono stata testimone oculare, che la mia alter ego, presa da altre impellenze, vorrà presto alleggerirsi di quel minuscolo fardello che pur le grava sulla spalla, nonostante gli sforzi di Iggy per rendersi incorporeo.
Dapprima ricorrerà all'arte della persuasione, che non sortirà alcun effetto, per diventare, poi, irriducibilmente decisa.
Allora lui, preda della sindrome dell'abbandono, scalcerà e si ribellerà, ricorrendo in ultimo al fallimentare ricatto dell'autolesione.
Amaranta non se ne lascerà intimorire e, pragmaticamente, lo lascerà sfogare nel suo bugicattolo dove lui, di lì a poco, privo di energie, cadrà in un sonno ristoratore e consolatorio, in cui continuerà a sognare di lei.
Scene già viste.
Scene che vorrei continuare a vedere.
Amaranta spalanca le finestre e la luce inonda le stanze di flebile tepore primaverile.
Dal sottotetto dell'antro, una rondinella abusiva, spicca il volo verso un cielo da cartolina.
Lo stesso cielo di Roma, lontano migliaia di miliardi di parsec.
domenica 6 aprile 2014
Approdi
In questi miei luoghi, da un qualche tempo, c'è aria di abbandono, da quando gli orologi del pianeta, da un dato momento, hanno iniziato a girar le lancette all'impazzata, e il tempo s'è messo a rincorrermi, (e non viceversa, che io volentieri avrei ancora indugiato, fino alla fine dei miei giorni, nel rassicurante tepore della mia collaudata, seppur noiosa, routine esistenziale.
Poi è sbucato questo vento, spavaldo ed irruento che, insinuandosi attraverso fessure e crepe, (che l'antro, da quando lo abito, non ha mai beneficiato d'una sostanziale, quanto necessaria, opera di restauro) scaruffa i miei capelli e le mie sottane, nel maremoto delle coltri i tendaggi si gonfiano come imponenti vele e l'esile zattera del letto s'invola, direttamente dalla finestra spalancata, verso l'esterno, traslucido e silenzioso, del primo mattino.
Letteralmente è un attraversar lo specchio per ritrovarmi in una dimensione anomala e, di primo acchitto, ostile, con questo vento che non smette di soffiarmi alle spalle, direzionandomi verso una rotta che potrei pur percorrere ad occhi chiusi, naufraga sonnambula in equilibrio sulle onde.
E, giunta al primo approdo, inizio a dipanare le ore della giornata, che si srotolano, indipendenti dalla mia volontà, preventivamente subordinate ad azioni ampiamente collaudate che non contemplano variazioni di rilievo: una routine ossessiva destinata a ripetersi all'approdo successivo.
E, tra uno scalo e l'altro, c'è un vuoto di quattro ore da dover trascorrere, in qualche modo, per la strada, che non sempre è possibile rientrare all'antro per sostarvi una striminzita ora e dover poi, subito, ripartire di nuovo, percorrendo a ritroso il medesimo tragitto, ma con più stanchezza addosso.
Così, quando è bel tempo, volentieri sosto su una panchinetta all'interno di un pretenzioso giardinetto prospiciente il mio secondo approdo, dove consumo il mio pasto ed osservo le persone che s'alternano sulle panchine.
Donne, zingari, e qualche studente che ha bigiato la scuola: questi i frequentatori abituali.
Osservo, da dietro gli occhiali scuri, questo avvicendarsi, cadenzato e quieto, che quando s'alza uno subito si siede un'altro, cosicchè le panchine quasi mai rimangono vuote. E si chiede gentilmente permesso per sedersi alla stessa, mantenendo, quando è possibile, libero un piccolo spazio, non per demarcare una linea di confine ma, piuttosto, un atto di rispetto.
Le donne tendono a sedersi vicino alle altre donne o, se le panchine sono occupate, sulla staccionata, in attesa che si liberi un posto, nel frattempo sciorinando in grembo il contenuto della propria borsa: un panino, una bottiglia d'acqua, un cellulare, un libro.
Oggetti, e gesti comuni, che raccontano però storie diverse.
A volte ci si scambia un sorriso, una parola, una cortesia: ma tutto rigorosamente circoscritto nel perimetro del giardinetto.
Perchè è al suo interno che si consuma la storia comune che, una volta varcata la cancellata, le strade divergono, smarrendosi verso imponderabili destini.
Vorrei scusarmi, tramite questo post, di non aver più commentato, se non sporadicamente, i blog che fino a qualche tempo fa, con interesse sincero, seguivo.
Ciò è dovuto a impegni nuovi di lavoro e alla conseguente, cronica, mancanza di tempo.
Marilena
Poi è sbucato questo vento, spavaldo ed irruento che, insinuandosi attraverso fessure e crepe, (che l'antro, da quando lo abito, non ha mai beneficiato d'una sostanziale, quanto necessaria, opera di restauro) scaruffa i miei capelli e le mie sottane, nel maremoto delle coltri i tendaggi si gonfiano come imponenti vele e l'esile zattera del letto s'invola, direttamente dalla finestra spalancata, verso l'esterno, traslucido e silenzioso, del primo mattino.
Letteralmente è un attraversar lo specchio per ritrovarmi in una dimensione anomala e, di primo acchitto, ostile, con questo vento che non smette di soffiarmi alle spalle, direzionandomi verso una rotta che potrei pur percorrere ad occhi chiusi, naufraga sonnambula in equilibrio sulle onde.
E, giunta al primo approdo, inizio a dipanare le ore della giornata, che si srotolano, indipendenti dalla mia volontà, preventivamente subordinate ad azioni ampiamente collaudate che non contemplano variazioni di rilievo: una routine ossessiva destinata a ripetersi all'approdo successivo.
E, tra uno scalo e l'altro, c'è un vuoto di quattro ore da dover trascorrere, in qualche modo, per la strada, che non sempre è possibile rientrare all'antro per sostarvi una striminzita ora e dover poi, subito, ripartire di nuovo, percorrendo a ritroso il medesimo tragitto, ma con più stanchezza addosso.
Così, quando è bel tempo, volentieri sosto su una panchinetta all'interno di un pretenzioso giardinetto prospiciente il mio secondo approdo, dove consumo il mio pasto ed osservo le persone che s'alternano sulle panchine.
Donne, zingari, e qualche studente che ha bigiato la scuola: questi i frequentatori abituali.
Osservo, da dietro gli occhiali scuri, questo avvicendarsi, cadenzato e quieto, che quando s'alza uno subito si siede un'altro, cosicchè le panchine quasi mai rimangono vuote. E si chiede gentilmente permesso per sedersi alla stessa, mantenendo, quando è possibile, libero un piccolo spazio, non per demarcare una linea di confine ma, piuttosto, un atto di rispetto.
Le donne tendono a sedersi vicino alle altre donne o, se le panchine sono occupate, sulla staccionata, in attesa che si liberi un posto, nel frattempo sciorinando in grembo il contenuto della propria borsa: un panino, una bottiglia d'acqua, un cellulare, un libro.
Oggetti, e gesti comuni, che raccontano però storie diverse.
A volte ci si scambia un sorriso, una parola, una cortesia: ma tutto rigorosamente circoscritto nel perimetro del giardinetto.
Perchè è al suo interno che si consuma la storia comune che, una volta varcata la cancellata, le strade divergono, smarrendosi verso imponderabili destini.
Ciò è dovuto a impegni nuovi di lavoro e alla conseguente, cronica, mancanza di tempo.
Marilena
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