Dedico questo blog a mia madre, meravigliosa farfalla dalle ali scure e dal cuore buio, totalmente priva del senso del volo e dell'orientamento e, per questo, paurosa del cielo aperto. Nevrotica. Elusiva. Inafferrabile.

venerdì 29 maggio 2015

Strategie perdenti



Non mi rimane difficile stringer la mano ad un avversario, che come tale, e senza ricorrere ad inganni, si è palesato.
 Trovo repulsione nello stringere, invece, quella di un amico, o che tale ritenevo, che mi ha usata come paravento, facendo conto sulla mia spontaneità e gentilezza,per perseguire altri suoi scopi.

Non la considero una mia sconfitta.
Ma piuttosto la sua.
Chi è uso ricorrere a tali strategie ha nel petto un cuore pavido.

Per questo ripongo, senza troppi tentennamenti, la mia spada, consapevole che i duelli s'avvalgono di regole leali ed avversari onorevoli.
Virtù sconosciute al mio non troppo onorevole ex amico.
E quindi non vale la pena che io macchi del suo sangue la lama della mia spada, che di altro, più appassionato e virile, si è tinta.

La mia delusione è stata quella di non aver capito subito cosa si stava tramando: ho peccato d'affetto non di dabbenaggine.
Ma da questa storia meschina ne esco intatta e rafforzata.
Nessun contraccolpo alla mia autostima.

Quando capiterà d'incontrarci (e questo è inevitabile) non sarò certo io ad abbassare gli occhi o svicolare in un angolo.
Marilena

sabato 23 maggio 2015

Cacciatrice di nuvole

Image by Katharina Jung

Ventiquattresimo capitolo della storia di Rebecca, e ancora non ne vedo la fine.
Chissà, magari ne ricavo un libriccino.
Una cosa positiva è che, dopo un lungo letargo, mi si vanno schiarendo le idee riguardo il corso della storia.
Il problema è che queste fantastiche idee s'affacciano alla mia mente nel momento in cui non posso annotarle e, nonostante i miei sforzi per memorizzarle, si disperdono, quanto prima, come nubi al soffio del vento.
 M'industrio, allora, a creare ipotetici nodi, connessioni tra immagini e parole, per avere la possibilità, qual'ora subentri l'amnesia, di ritrovarle tramite l'ingegno di un simbolo prefissato, o di una parola chiave.
Non sempre, però, mi riesce.

Giusto ieri, durante le ore lavorative, mi era sovvenuta una fantastica ipotesi di svolgimento della trama, un flash back visivo in cui avevo velocemente e coerentemente assemblato i restanti capitoli della storia.
Finale incluso.
Ma non ho avuto la possibilità, per via del lavoro che stavo svolgendo, di prendere appunti, e allora ho cercato di ricorrere al mio solito sistema dell'associazione delle idee, ma devo aver dimenticato d'inserire un tassello nel mio puzzle mnemonico, e mi sono ritrovata nel caos.

Forse sono ricorsa ad associazioni troppo logiche, ma la visione della trama era così chiara che ho pensato bene di non ricorrere ad alcun paradosso, quell'ombrello sgargiante di tutti i colori dell'iride che spicca, unico ed inconfondibile, nella sincronia dei monocromatici, vibrante come la bacchetta di un rabdomante che ha trovato la sua polla d'acqua.
Nel mio caso l'ispirazione.

Non ho pensato di aprirlo quell'ombrello magico, presa com'ero a scrivere mentalmente la storia, non mi sono resa conto della miriade di nuvole che, nel frattempo, s'andavano addensando sul mio capo.
Tante nuvole quanti erano i miei frammenti visivi.

Ho rovistato per un pò in quel soffice mare, trovandoci: aggettivi smarriti; parole involontariamente, o consapevolmente, cancellate; lo stralcio puerile di un promemoria; una combinazione, lettere e numeri, di un codice che mai ho decifrato; i versi autunnali di una poesia d'amore; l'incipit di un racconto scritto e poi abiurato.
Ma nessuna traccia dei favolosi capitoli, ipotizzati e subito dopo dimenticati, inerenti la storia di Rebecca.

Ma ancora non m'arrendo.
Ostinata le rincorro, quelle nubi malandrine che vanno diradandosi dopo aver ben compiuto la loro fumosa opera di confondere, nascondere e creare impalpabile caos.
Quel caos che solo io vedo.
Che son certa se chiedessi a qualcun altro, quello direbbe che il cielo è terso e le nubi sono solo nella mia testa.

martedì 12 maggio 2015

Venere (cap 2)



(Pubblicato nell'antologia "Il tango di Cloe" da "Writer Monkey" Maggio 2018)


LA DEA DEL CIELO. E QUELLA DELL'ACQUA.

Venere era il nome segreto con cui amava chiamarla sua madre, ma per il resto del mondo, quell'adolescente diafana ed introversa, si chiamava Maria Assunta, col nome doppio ereditato dalle nonne.
Lo stesso nome della madre di Dio, la dea cattolica ammantata d'azzurro e circonfusa di luce, che dimora in cielo tra le nuvole e gli angeli, vicinissima al sole.
Forse troppo vicina.
Una immagine insopportabile, che subito la sua pelle s'arrossava, e le labbra e le gote avvampavano in un fuoco immaginario, eppur così doloroso, che solo il contatto con l'acqua riusciva a lenire.

Sana come un pesce, avevano dichiarato i dottori.
Ma che ne sanno i dottori dell'universo dei pesci?

Venere s'era interrogata più volte a tal proposito, risultandole evidenti, e stridenti, le differenze tra il mondo terrestre e quello marino.
Così rumoroso e frastagliato il primo quanto silenzioso e compatto l'altro.
E lei, da sempre, s'era sentita appartenere all'universo buio e liquido dei pesci.
Il perchè non l'avrebbe mai saputo spiegare: era così e non poteva farci nulla.

Sapeva che il sole mai avrebbe potuto penetrare oltre la superficie del mare, che anche l'onda più pigra l'avrebbe facilmente avuta vinta contro i suoi raggi più puntuti e più ardenti, stemperandoli in mero bagliore.
 Volentieri avrebbe così dimorato nei fondali più profondi per emergere solo al calar del sole ad illuminare la notte con la cruda luminosità di una medusa.

UN PAESAGGIO IMMAGINARIO
 Il paesaggio immaginario di Venere, quindi, non combaciava con quello reale di Maria Assunta.
Il rifugio della vasca, la sua culla preferita fin dall'infanzia, s'era nel tempo circoscritto alle pareti di vetro di un acquario, dove lei vi dimorava solitaria, come una dea irragiungibile.
Ma l'acquario mai sarebbe tramutato in quel fondale marino che lei immaginava tappezzato da sontuosi tappeti di alghe dai colori autunnali, percorso dalle grandi praterie, baluginanti di verde e di marrone, di posidonia e zostera, incessantemente attraversate dalle inquiete colonie nomadi di plancton.
E lei, Venere, finalmente nel suo elemento naturale, avrebbe assunto le sembianze della medusa nutricula, l'unico essere immortale tra le creature del mare, del cielo e della terra.

L'acqua l'avrebbe resa dea, quanto il cielo, invece, l'aveva ridotta schiava.
Quel cielo implacabile che le incombeva addosso con le sue mille lame di luce, condannandola reclusa in una eterna penombra, acquattata sul fondo della vasca, sotto il pelo dell'acqua, come un animale che tenta di sfuggire al predatore, cancellando il proprio odore e le proprio tracce.

  DESTINI
Ma da quel fondale casalingo sua madre sempre l'avrebbe fatta riemergere, così come era stato fin dal suo primo giorno di vita, strappandola alla rassicurante frescura amniotica dell'acqua per restituirla alla luce.
Perchè questo era nel destino di sua madre.

Il destino di Venere, invece, sarebbe stato  quello di rivivere in eterno l'attimo della sua nascita.
Lo stesso destino della medusa nutricula. 

sabato 9 maggio 2015

Venere (cap 1)


(Pubblicato nell'antologia "Il tango di Cloe" da "Writer Monkey" Maggio 2018)


NASCITA DI VENERE

Era scivolata fuori dalla vagina con la fluidità di un pesce, mentre sua madre, immersa nell'acqua, stava facendo l'ennesimo bagno per combattere il caldo anomalo in quel di febbraio.
La puerpera dormicchiava nell'acqua, placida come un balenottero, godendosi il beneficio  temporaneo che quel bagno le offriva, che non avvertì la fuoriuscita uterina se non quando toccò con i piedi il corpicino.
La donna, paralizzata dallo stupore, rimase per un qualche tempo ancora immobile, poi, riconquistata la lucidità, affannosamente si era data da fare per ripescare dal fondo della vasca il neonato, che sicuramente era morto annegato dal momento che lei non s'era neppure accorta d'averlo partorito.
Con infinita cautela seguì la gomena del cordone ombelicale affinchè la guidasse verso suo figlio, così da poterlo trarre in superficie per farlo respirare.

Quella che trasse dall'acqua era una creatura glabra, dalle trasparenze di medusa e quasi senza peso. Talmente minuta che stava tutta  in una mano.
Al contatto dell'aria emise un vagito disperato e furioso che sua madre chetò soltanto quando, stringendola al seno, scivolò di nuovo nell'acqua, in attesa di un aiuto esterno, che pur bisognava tagliare quel cordone ombelicale, e lei non aveva niente con cui reciderlo.
Da li a poco sarebbe rientrato suo marito e così avebbe avuto anche il supporto dell'ostetrica.
A lei rimaneva poco da fare se non controllare il sesso del nascituro e che fosse, almeno fisicamente, ben formato.

Era una bimba, e così a lei s'affacciò l'ipotesi di chiamarla Venere, in virtù di quella sua nascita acquatica che, seppur sprovvista di conchiglia, ricordava quella della dea dell'amore.

Il prete si rifiutò di battezzarla col nome di Venere, trovando immorale porre il nome di una dea pagana ad una bimba cattolica.
Invano sua madre lottò per legittimare la sua scelta, che si trovò di fronte l'opposizione non solo del prete ma anche di tutta la famiglia.
Si optò allora per il doppio nome: Maria, come la nonna materna, e Assunta, come quella paterna.
Un compromesso che non le piacque affatto, a cui però dovette sottostare per amore di pace famigliare e sociale, che suo marito era un architetto molto stimato e la cui clientela benestante frequentava regolarmente la messa della domenica, e non sia mai che al prete scappasse una omelia sulla blasfemia di certi nomi.

La piccina sarebbe stata per tutti Maria Assunta e solo per lei Venere.
Questo le fece amare ancora di più quel nome e la bimba che in segreto lo portava.

VITA DI UNA DEA
Erano trascorsi gli anni e la bambina non aveva dismesso il suo pallore di porcellana nè scurito il colore di quei suoi capelli, talmente chiari, da confondersi con l'aria.
La madre la vestiva di bianco e di celeste, o una nota di verde acqua per far risaltare quei suoi occhi ialini, la cui trasparenza rifletteva tutte le sfumature dell'aria e della luce.
Venere era diversa da tutte le sue coetanee, tra le quali spiccava come un raggio abbagliante ed etereo, quasi fosse un miraggio quella creatura fatta di sola luce.
Ma che proprio all'elemento luce, alla sua naturale crudezza. aveva mostrato fin da subito una particolare intolleranza, diventando estremamente nervosa, irrascibile perfino, lei di carattere così dolce e accondiscendente.
E questa negatività s'era andata con gli anni consolidando, ma nessun dottore aveva saputo trarne spiegazione dal momento che non c'erano sintomi di alcuna patologia, e la bimba, avviandosi a breve all'adolescenza, cresceva conforme ai criteri stabiliti dalla moderna pediatria.
Questa avversione poteva banalmente imputarsi esclusivamente alla sua carnagione diafana e agli occhi chiarissimi che mal tolleravano un calore troppo intenso, ed una luce troppo vivida.
Per il resto era sana come un pesce.

Sua madre aveva però notato, senza per altro farne mai parola con nessuno, quasi che si trattasse anche questo di un segreto condiviso solo da loro due, che la ragazzina trascorreva lunghe ore distesa nella vasca da bagno, il volto sotto il pelo dell'acqua, e più di una volta l'aveva trovata immobile, come morta, e così lei, spaventata, aveva urlato scuotendola freneticamente, per richiamarla in vita.
Ma ogni volta Venere riapriva gli occhi per fissarla con tono accusatore, come se le grida e lo scuotimento l'avessero trascinata brutalmente via da una sublime visione.
Allora, sentendosi in colpa, seppur non sapeva bene di cosa, la madre se la stringeva al seno vezzeggiandola, chiamandola col suo nome segreto, mentre tracciava un racconto parallelo tra la nascita marina della dea e quella sua stessa.
 Le narrava di quel febbraio incredibilmente caldo, di lei immersa nella vasca da bagno in stato di torpore e di quando, riacquistando coscienza, si era finalmente accorta della sua silenziosa nascita, e dello spavento inenarrabile provato nel crederla affogata, e della gioia infinita di quel primo vagito una volta che lei l'aveva restituita all'aria e alla luce.

Ho ancora paura quando ricordo quel momento.
Era questo il modo in cui finiva sempre il suo racconto, cercando per lo più una rassicurazione per se stessa, che Venere si limitava a guardarla in silenzio, con quel suo sguardo insondabile che sembrava emergere dal profondo insidioso di un oceano remoto.

domenica 3 maggio 2015

Madeleine

Dal cassetto fuoriesce, come la mano di un fantasma, un guanto di pizzo bianco.
Un guanto da prima comunione.
Che, seppur impalpabile nella sua effimera trama di ragno, si disegna nitido sullo scuro del legno.
Se ne sta aggrappato sul bordo, sporgendo come da un davanzale.
Una mano avvinghiata, per non precipitare nel vuoto.
Sulle cui dita, più marcato, è l'ingiallimento dell'incuria del tempo.
All'interno del palmo la trama è consunta, sfilacciata, ingarbuglia le geometrie del pizzo.
Una reliquia riemersa da un buio remoto.
Conservata in quel cassetto assieme ad un libricino da messa.
Un rosario di madreperla.
Uno scapolare.
Ed una treccia polverosa.
Pronta a disfarsi nel respiro dell'aria.

Madeleine correva ignara verso quello che le sembrava un futuro di albe consecutive.
Dove la notte era solo il tempo dei sogni e del riposo.
E non quello buio dell'eternità.
Non risvegliarsi da quel buio è stato, per lei, l'inganno più crudele.

Nel sonno da cui non si è più ridestata, Madeleine, giace pallida nello sfarzo di un vestito di trine.
Una treccia sottile le scende su una spalla.
E s'arricciola sotto il nastro, come un muto punto interrogativo.
E le sue mani...l sue  piccole mani strette a pugno rifiutano quei guanti da sposa.
Lei che mai sposa sarà.
E solo una si riesce a vestirne, con infinita cautela, che le dita potrebbero spezzarsi.
Quelle dita di bambina fatte per giocare con la sabbia e con la spuma del mare.
Per intrigarsi nei capelli di una bambola.
Per impiastricciarsi di crema e cioccolata.
E scrivere sui quaderni della scuola.
Quelle dita che sono fatte per queste ed altre meraviglie.
Quelle dita che non vogliono essere imprigionate in quei guanti di merletto.

Image by Eli Effenberger