Dedico questo blog a mia madre, meravigliosa farfalla dalle ali scure e dal cuore buio, totalmente priva del senso del volo e dell'orientamento e, per questo, paurosa del cielo aperto. Nevrotica. Elusiva. Inafferrabile.

venerdì 13 settembre 2019

Rebecca (cap. 8)


AL PRIMO IMPATTO

L'entrata in scena dei Messinese prevedeva cortesi sorrisi, educati silenzi e le battute circoscritte alle formule dell'ospitalità.

«Mi scuso per l'assenza di mia moglie, in visita a parenti fuori città. Visita programmata da così tanto tempo che non è stato possibile, in ultimo, rinviare.»

Questa la spiegazione sintetica con la quale Concetto Scalavino aveva giustificato l'assenza della moglie, immaginando che i suoi discretissimi ospiti non avrebbero chiesto altri particolari.

« Ad espletare le mansioni di padrona di casa supplirà Rebecca, la mia figlia minore.» Al momento della presentazione, una nota di malcelato orgoglio era vibrata nella sua voce.

La semplicità dell'abito e la pettinatura severa in cui aveva imbrigliato i suoi capelli di fiamma, piuttosto che sminuire la bellezza di Rebecca la esaltavano. E la malia di quel terso profumo che emanava da lei ne materializzava la presenza, rendendo irreale tutto il resto.
Concetto Scalavino s'era deliziato dell'effetto prodotto dalla figlia sui due uomini: il più giovane, che indossava un cappotto scuro, pesante per la stagione, aveva mormorato, arrossendo, una frase di circostanza; il più anziano, timido al pari dell'altro, s'era prodotto in un inchino impacciato.

Al primo impatto entrambi i Messinese erano piaciuti a Gemma. Le era sembrato che non ci fosse nulla di artefatto nel loro modo di presentarsi. Nessuna maschera sui loro volti.
E il rossore sul viso dell'ebanista lo testimoniava.
L' esser nato privo di una schermatura dietro cui poter intimamente elaborare le sue emozioni, aveva significato, per Giandomenico, l'obbligatorietà di una visibilità abbagliante e inopportuna. Questo vivere costantemente allo scoperto aveva ancor di più esasperato la sua ipersensibilità per cui, in ultimo, e come estrema difesa, s'era trincerato dentro quella sua timidezza come all'interno di un fortino, rendendosi inaccessibile.
Il fortino era diventate il suo scudo. La sua seconda pelle. Ma non la sua finzione.
Giandomenico Messinese, da quel suo riparo, continuava ad esser se stesso.

Intenzionata a farli sentire a proprio agio, Rebecca aveva guidato gli invitati verso la sala dove si sarebbe svolta la cena.
Dando mostra di un raffinato acume psicologico, il padrone di casa aveva voluto fosse non la più fastosa ma la più intima, quella riservata ai pranzi di famiglia, per sottolineare il carattere informale di quel convivio ma, soprattutto, a sottintendere l'avvio di una relazione parentale.
Intorno alla tavola sobriamente imbandita ognuno avrebbe recitato, senza inganno, la parte di se stesso, che la posta in gioco, per tutti, era grande, e giocare a carte coperte non era nel carattere degli astanti, fatta eccezione per Concetto Scalavino pronto a barare pur di vincere.

LE BASI PER UN'ALLEANZA
Mimì Messinese avrebbe accettato di buon grado quella parentela senza però dover attuare forzature nei riguardi del figlio, lasciandolo in ultimo libero di decidere. Dopo aver visto Rebecca, però, ardentemente desiderava che Giandomenico cambiasse idea, che la ragazza immensamente gli era piaciuta, bella e di modi gentili, e con una personalità ben delineata nonostante la giovane età.
La moglie ideale per suo figlio. 
Discretamente, e con imbarazzo, poiché non possedeva la capacità  di decifrare le espressioni, aveva cercato di capire, osservando Rebecca, quanto interesse le avesse suscitato Giandomenico. Conoscendo la sua idiosincrasia  per le relazioni sociali, aveva sperato che almeno in quell'occasione uscisse  dal suo riparo per mostrarsi nella limpidezza del suo essere. Per la prima volta nella sua vita Mimì Messinese aveva provato nei confronti del figlio del risentimento per essere così strutturato. Ma l'attimo dopo s'era disprezzato per quel pensiero, l'equivalente di un'abiura, di un disconoscimento paterno, e di cui immediatamente s'era pentito. Giandomenico doveva essere amato per quello che era e non per quello che si desiderava fosse. Ma solo una conoscenza intima, però, avrebbe rivelato la sua straordinaria grandezza spirituale, ed intellettuale, di cui per pudore non faceva sfoggio.
 E Rebecca aveva le doti per entrare in comunione con lui.
Se un sentimento doveva nascere sarebbe germogliato spontaneo da un interesse reciproco, senza forzature a piegare le rispettive volontà.
 In ogni caso lui non sarebbe stato il loro grimaldello.

Forzature, invece, che senza nessuna remora aveva già messo in atto Concetto Scalavino nei confronti di entrambe le figlie, intenzionato ad avvalersi di qualsiasi tecnica coercitiva per sottometterle al suo volere. Una scommessa, però, che avrebbe dovuto tentare da solo, dal momento che Mimì Messinese non sembrava possedere l'autorità per imporsi a quel suo figlio straordinariamente talentuoso ma carente delle attrattive fisiche con cui destare l'interesse di una giovane donna.
 Durante la cena aveva avuto l'opportunità di studiarlo con agio e nel dettaglio: il viso lungo, l'incarnato pallido, gli occhi chiarissimi, incorniciati da ciglia folte, femminee. Quando non era impacciato i suoi gesti erano lenti, quasi languidi. I capelli di un biondo opaco, già radi alla sommità del capo, gli conferivano l'aspetto di un giovane abate. Quell'inizio di calvizie, riflettè con amara ironia, era in lui l'unica nota maschile, dal momento che anche le mani erano bianche e delicate come quelle di una donna.
...anche se le mani di un artista non possono essere callose e brune come quelle di un contadino.
Una giustificazione insufficiente, però, a dissipare i dubbi sulla virilità del giovane artista, e sull'effettiva capacità di generare figli.
 ...perché Giandomenico non somigliava per niente al padre, e neppure ai suoi fratelli: una stirpe di maschi ricciuti e bruni, dal torace possente e le ossa solide. Decisamente virili.
Ma senza ulteriori paragoni, già dal confronto col padre di molti anni più vecchio e col fisico appesantito, il giovane ne usciva penalizzato.
In un flah back lo aveva visualizzato  al fianco di Rebecca, ma di lui neppure l'ombra riusciva a captare, tanto grande era la sua insignificanza che neppure la vicinanza della splendida "regina in miniatura" riusciva a vivificare. Questa ulteriore, sconfortante constatazione gli aveva suscitato, nei confronti della figlia, un vago senso di colpa, che però aveva prontamente rimosso perché con gli scrupoli si rischia d'inciampare e non si arriva da nessuna parte.
E lui non poteva permetterselo.

Dal canto suo, Giandomenico, aveva solo sfiorato con uno sguardo Rebecca, che gli sedeva di fronte, e dalla quale sembrava emanare una sottile, persuasiva fragranza. Un profumo inebriante che lo spaventava e l'attraeva. Isolandolo. Per pudore non aveva più guardato in direzione della giovane, consapevole che il motivo di quella cena era anche a lei noto, e questo contribuiva a farlo sentire correo di quella vigliacca imposizione a cui lei non s'era potuta sottrarre. Estraniato, partecipava alla conversazione con frasi brevi e asciutte, e solo quando era direttamente interpellato. Il più delle volte limitandosi a cenni d'assenso o di diniego.

Rebecca, inconsapevole del suo sortilegio, cercava di capire quanto fossero complici in quel progetto di nozze i suoi ospiti, ponendo attenzione agli sguardi piuttosto che alle parole, conscia che il regista del copione era suo padre e che la conversazione si sarebbe svolta sotto la sua dettatura, quindi le risposte che lei cercava non le avrebbe trovate nelle parole dette, ma nelle luci e nelle ombre degli sguardi.
...e negli occhi chiarissimi di Giandomenico non aveva captato minacce.
Inoltre, con la sua sensibilità istintiva aveva ravvisato nei silenzi del giovane, e nelle poche scarne frasi, non la prova di una timidezza esiziale ma piuttosto il disagio di essersi reso correo, suo malgrado, di quella forzatura, e col ruolo imposto di protagonista.
Un ruolo che rifiutava, allo stesso modo che avrebbe rifiutato qualsiasi altro, perché Giandomenico non era nato per interpretare ma per essere.
Esattamente come lei.
Valutò, speranzosa, che forse le  basi per una loro futura alleanza c'erano. E delle più solide.

UN' IGNOBILE TRATTATIVA
La conversazione, che verteva sulle qualità  e i difetti dei vari legnami  e il loro impiego nell'ebanisteria, era disciplinata dal padrone di casa con lo scopo finale di servirsi di quell'argomento di comune interesse per stabilire con il giovane una sorta di confidenza, per farlo sentire a proprio agio,   come se la conversazione avesse luogo nel suo laboratorio d'ebanista piuttosto che nella sala da pranzo di casa sua. 
Una strategia perdente perché Giandomenico non abboccava all'amo e rimaneva composto, silenzioso e distante, nel suo angolo.
Il comportamento dell'ospite, che Concetto Scalavino percepiva ostile, lo indusse ad andare diritto al punto, nonostante avesse assicurato Mimì Messinese che l'intento della cena era quello di un primo approccio fra i due giovani. Ma la discrezionalità eccessiva, così come l'esagerata deferenza che quest'ultimo andava mostrando nei confronti del figlio, lo avevano indotto a prendere nelle sue mani le briglie di quella pariglia di puro sangue ma sprovvista del senso d'orientamento.
Ad ogni modo aveva trovato biasimevole la subalternità palesata da Mimì nei confronti di Giandomenico che, se fosse  stato educato da un genitore più autorevole e meno sentimentale, sarebbe venuto su con i crismi di un vero uomo. Ma non disperava dopo le nozze, sotto la sua guida, di emanciparlo.
Un imprinting tardivo, ma necessario.
Così, per rompere gli indugi, e stabilire da subito un'intesa più intima, aveva abilmente dirottato la conversazione dalla tematiche lavorative a quelle esistenziali, per poter manifestare i suoi apprezzamenti per l'uomo e l'artista. Sentimenti contrastanti, però, che se per l'artista nutriva sincera ed entusiastica ammirazione, scarsa, o quasi nulla, era quella per l'uomo. Se solo avesse potuto scinderli! Ma non gli era possibile dal momento che entrambi coabitavano, indivisibili come cellule monozigote, nello stesso embrione.

« Il mogano che mi avete commissionato per lo scrittoio e la cassettiera per le stanze di Sua Santità, lo importerò da Cuba dove ho già inviato un mio uomo di fiducia a seguirne la segagione e scegliere le lastre più compatte, di una qualità sopra l'eccellenza, e per le quali non chiedo alcun compenso. E' il mio omaggio alla vostra arte, Giandomenico.» S'era rivolto al giovane ospite con tono deferente.

L'artista era arrossito, e il suo disagio era evidente sul suo volto. Mormorò un grazie, tornando a chiudersi nel suo silenzio.

« Ma vi costerà una fortuna!» Aveva, invece, replicato in maniera vivace, Mimì Messinese, colto di sorpresa da quella generosissima offerta.

«Fortuna è vantare la conoscenza, e da questa sera spero anche l'amicizia, con il maestro ebanista più illustre di Sicilia. D'altronde, caro Mimì, il vostro riservatissimo Giandomenico molto incarna quel figlio maschio che io non ho mai avuto, e solo Iddio sa quanto ho desiderato: l'erede destinatario del mio ingente patrimonio. Ma il Signore, invece di un maschio a cui legittimamente tramandare il nome e il capitale, mi ha dato cinque figlie femmine, delle quali tre egregiamente maritate ma che hanno avuto anche loro nel destino una progenie di femmine, mentre le due minori, Rebecca e Gemma, sono ancora ragazze. Non nascondo che il mio desiderio più grande sarebbe quello che una delle mie figlie andasse in sposa ad un giovane di talento che, beneficiando della sua ingente dote matrimoniale, avrebbe l'opportunità dì vivere agiatamente e dedicarsi in piena autonomia alla propria arte.»

Quell'offerta, gettata dallo Scalavino come un pezzo di carne cruda sulla tavola imbandita, fra le stoviglie di porcellana e i bicchieri di cristallo, aveva colto impreparati tutti per la grossolanità con cui era stata formulata, e per la quale, senza troppi infingimenti, si sollecitava una risposta.

Rebecca, con uno sforzo supremo, s'era costretta ad un atteggiamento neutro per studiare le reazioni dei due uomini.
Mimì Messinese, nonostante la sorpresa ed il visibile imbarazzo, per educazione aveva mormorato: «fortunato quel giovane e la sua famiglia che possono ambire alla vostra parentela.» 
 Giandomenico, invece, era avvampato non aspettandosi una proposta così aggressiva e diretta, e a cui doveva forse una risposta.
Le parole che gli salivano alle labbra, però, sarebbero risuonate aspre ed avverse. Di disprezzo per l'uomo che aveva in quel modo umiliato la propria figlia, e la volgarità con cui l'aveva trattata, come una merce posta su un bilancino col contrappeso di un forziere d'oro.
A pugni stretti, e per non dispiacere a suo padre quelle parole le aveva con fatica ricacciate in gola, obiettando con un mutismo, freddo e significativo, che aveva posto fine a quell'ignobile trattativa.

Il silenzio ostile, e il pulsare di una vena sulla tempia di Giandomenico, avevano raccontato a Rebecca, molto più di un discorso, dello stato d'animo del giovane che non osava guardarla immaginando che quella sua mancata risposta potesse essere intesa da lei come di spregio alla sua persona, mentre invece stava a significare il suo rifiuto a quell'odiosa compravendita.

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