domenica 29 maggio 2011
L'uomo della pioggia (cap 3)
Nella notte senza aria, a cavallo di una mula, Giustina Nepanto con determinazione si predispose a perseguire le tracce di muschio di Victor Galeno, ma quando l'odore si fece di carne e di occhi, trovò l'esule in consapevole attesa della sua venuta, e delle sue motivazioni.
Mentre l'aiutava a smontare dalla mula, Victor Galeno l'avvolse nel mantello freddo della sua nebbia e, prendendola per mano, la guidò nel suo rifugio di silenzio e di stelle cieche.
Lei non oppose resistenza quando lui la irretì nella dimensione alchemica del suo universo glabro, dove il giorno era chiarore senza sole e la notte oscurità senza luna, ma docilmente si assoggettò all'esplorazione delle sue dita.
Lei mappa stellare, lui naufrago dei cieli.
Fu quella una notte di echi e di sussurri.
Notte d'amore.
E di prodigi.
La mezzaluna ying si ricongiunse alla mezzaluna yang, per tornare ad essere una sola, baldanzosa e solenne, come quella che illumina il cielo dei presepi.
Lo schianto remoto delle stelle madri generò miriadi di stelle nane, che si espansero nel cielo con la spinta propulsiva di un fuoco d'artificio.
L'asse della terra si chetò dal suo moto svagato di trottola per ritrovare l'equilibrio stabilito nell'equidistanza dei meridiani e dei paralleli, e nella sequenza da calendario delle stagioni.
E finalmente piovve.
Al riparo della loro trincea di fango, Giustina Nepanto e Victor Galeno, andavano consumando con determinazione volitiva la loro orgia privata, incuranti della bufera d'acqua che rischiava di tracimare in fiume quello che prima era stato sentiero, sordi ai nitriti esistenziali della mula in ambascia, al canto verticale dell'allodola e ai sussurri di sentinella degli Angeli Implumi.
La veggente e l'uomo notturno si amarono con la furia passionale di due samurai e, negli istanti di tregua, con la goffa premura di adolescenti alla loro prima, trascendentale esperienza.
In quella notte di preludi e di sperimentazioni, Victor Galeno assaporò l'oscurità ermetica del sonno ad occhi chiusi, perché Giustina Nepanto vegliò su di lui affinché il suo spirito vicario non lo abbandonasse per i suoi consueti vagabondaggi notturni.
In quella notte di lussuria e di tempesta, Giustina Nepanto, decifrò la visione dell'asso di bastoni che fecondo fioriva dal suo ombelico recando il germoglio, ancora chiuso, dell'enigmatica progenie dei sonnambuli.
Continuò a piovere, senza intendimento di sosta, per un periodo di cento giorni, durante il quale si colmarono i letti esausti dei fiumi ed un limo fertilissimo rinvigorì la terra stremata, che eruppe in un incontrastato rigoglio di giungla che cancellò il tracciato delle strade, mentre le radici tenaci delle mangrovie andavano sventrando le fondamenta delle case.
Un'atmosfera da fondale marino avvolse l'intera regione in un panorama di risaia.
Venne decretato lo stato di calamità naturale e, sotto il patrocinio del Papa, si andò organizzando la più spettacolare processione della cristianità con le rappresentanze dei Santi più importanti, quelli accreditati come collaboratori personali di Dio, (che santa Lucrina, nella gerarchia divina, era una santa minore) per porre fine a quell'inesauribile, catastrofico torrente d'acqua che colava giù dal cielo, rischiando di trasformare l'intera regione in un oceano.
Don Apollinare, sentendosi usurpato dalle sfere superiori ecclesiastiche del prestigio che pur gli competeva all'interno del suo territorio, andò a cercare Giustina Nepanto per chiederle, ed offrirle "uno scambio collaborativo, onesto e non discriminante, per trovare insieme una soluzione alla catastrofe".
- Sono di partenza e, francamente, non credo a soluzioni alternative a quelle stabilite dalla meteorologia: smetterà di piovere quando l'aria sarà sufficientemente calda per impedire alle gocce di scendere al suolo -
Questa fu la risposta coincisa di Giustina Nepanto mentre saliva in groppa alla mula, predisponendosi alla partenza.
- Siete un ingrata, abbandonate la comunità che pur vi ha dato tanto, proprio ora che ha bisogno di voi! -
Le gridò, infuriato, don Apollinare.
- Non devo nulla a nessuno, ho saldato tutti i miei debiti. Statemi bene -
Ribatté lei asciutta, senza voltarsi indietro.
Victor Galeno l'attendeva avvolto dalla fuliggine metafisica di una nebbia boreale, con l'espressione precaria dell'esule predestinato, trascinandosi dietro, come ceppo di galeotto, un voluminoso baule con le cerniere irrimediabilmente sigillate da una ceralacca di muschio.
giovedì 26 maggio 2011
L'uomo della pioggia (cap 2)
Quando i processionanti esausti, ma speranzosi, rientrarono nella cattedrale per ricollocare la Santa sul suo altare, trovarono la navata invasa da un intrigo da giungla, con le statue sommerse da una fioritura prodigiosa di orchidee. E nel frastuono dei gracidii corali delle rane nelle acquasantiere, spuntavano dagli interstizi del pavimento ciuffi di piante endemiche.
La gabbia dell'allodola pencolava vuota, mentre dal trittico dorato che sovrastava l'altare maggiore s'erano involati gli Angeli Implumi, ed una pioggerella finissima e fitta, odorosa di resina, permeava dalla volta a cupola.
Fu uno strano miracolo quello a cui si assistette quel venerdì 17: dentro la cattedrale pioveva, all'esterno, invece, neppure uno sfilacciamento di nube, né un alito di vento, a scalfire il calore assassino dell'aria.
Don Apollinare, in preda ad un'ira confusa quanto incontrollabile, puntò il dito accusatore contro Giustina Nepanto e gli stolidi che avevano voluto, a tutti i costi, quella loro inammissibile complicità, quel delittuoso mischiare il sacro col profano, l'occhio di Dio e la sfera di cristallo, (seppur, a onor del vero, la veggente mai ne aveva fatto uso), astuzie nocive che avevano ottenuto come risultato quello sberleffo divino.
Si sbracciava, Don Apollinare, gesticolando dal pulpito fiorito di gelsomini, mentre profetizzava, con enfasi apostolica, alimentando lo shock collettivo, la minaccia del castigo di una catastrofe ancor più grande..
Nello smarrimento generale, Giustina Nepanto, era riuscita a non farsi emotivamente condizionare dall'assurdità dell'evento e a cercare, invece, la causa che lo aveva generato. Allora rivide Victor Galeno, così come le era apparso quel pomeriggio di venerdì 17, con lo sguardo crepuscolare dei sonnambuli, avvolto in una fredda aurea boreale odorosa di resine.
Di nuovo cercò un collegamento tra la visione onirica del dissotterramento dell'asso di bastoni che, nel linguaggio delle carte, rappresenta la forza di volontà, la creazione e la crescita, e l'apparizione improvvisa di quell'esule solitario.
Non rispose, come era sua consuetudine, alle invettive del prete, d'altronde lei aveva preso parte al rito della processione solo per accontentare la comunità, ma per nulla convinta di quella iniziativa, e limitandosi a far dondolare l'aspersorio che lei stessa aveva riempito con innocua acqua decantata e sale marino.
Non aveva colpa di nulla, quindi, ma spiegarlo non sarebbe servito, non era quello il momento adatto alle rivelazioni perché l'intero paese si apprestava a celebrare, con la perdita della ragione, quel diabolico prodigio, con l'interno della cattedrale invasa da una giungla fiabesca, sferzata da una pioggia battente, con le vetrate illuminate dalle luci rosse dei lampi e le navate percosse dal rimbombo del tuono, mentre fuori, all'aperto, l'aria che sapeva di fuoco toglieva il respiro.
Pure immaginava, Giustina Nepanto, che tra non molto sarebbe iniziata la caccia alla strega, perché gli animi incrudeliti dal disonesto j'accuse del prete, e fuorviati dalla beffa di quel miracolo inopportuno, avrebbero ben presto avuto necessità di un capro espiatorio e, di sicuro, la vittima sacrificale non sarebbe stata Lucrina, santa, seppur dotata di un sarcasmo micidiale.
Doveva ritrovare lo straniero prima che l'intera comunità smarrisse del tutto la ragione.
La fredda nebbia che lo avvolgeva contribuiva a mantenerlo desto e percettivo, in una perenne condizione di all'erta, con i sensi organizzati a schivare un sempre probabile pericolo.
Quegli stessi sensi che ora lo avvertivano che qualcuno stava fiutando il suo odore.
domenica 22 maggio 2011
L'uomo della pioggia (cap 1)
Era giunto nel pomeriggio di un venerdì 17, avvolto dalla fuliggine metafisica di una nebbia boreale, con l'espressione precaria dell'esule predestinato, trascinandosi dietro, come ceppo di galeotto, un voluminoso baule con le cerniere irrimediabilmente sigillate da una ceralacca di muschio, nell'esatto momento in cui le campane suonavano a distesa e dal portale della cattedrale s'incamminava la processione di Santa Lucrina.
Quella processione era stata organizzata per chiedere alla Santa il favore della pioggia, perché da settimane imperava, in tutta la regione, un sole caraibico e fuori stagione che aveva prosciugato le ossa degli uomini ed essiccato i raccolti.
Così, come era doveroso, in pompa magna e nell'assolo festoso delle campane, Santa Lucrina aveva lasciato l'altare per la trasferta in paese, in modo che potesse constatare con i propri occhi i danni molteplici, ed irreparabili, causati da quella siccità improvvisa e progressiva.
E porci rimedio, come era suo obbligo.
Giustina Nepanto, che procedeva accanto al prete alla testa della processione dondolando ritmicamente l'aspersorio, fu assalita da un brivido cupo quando, alzando gli occhi, incrociò quelli di Victor Galeno (che so per certo esser questo il nome dello straniero) ed immediatamente stabilì che l'uomo apparteneva alla stirpe negletta dei sonnambuli.
Cercò un nesso tra l'uomo e la sua recente visione notturna, di quelle mani affannate che scavando la terra dissotterravano un asso di bastoni.
Poi la visione si era interrotta a causa di un singhiozzo continuato che le aveva impedito l'approfondimento di quella premonizione. E forse non c'era alcun nesso.
Magari l'uomo era capitato per caso, un profugo o un fuggitivo, un condannato dal sonnambulismo all'isolamento, in quell'enigmatico stato sensoriale di percezioni prive di sogni.
L'uomo si era accostato al lato della strada mentre la processione proseguiva salmodiando verso l'interno del paese, con la statua della Santa ondeggiante sulle spalle dei portatori.
Non pioveva da settimane, il suolo, piagato dalla virulenza della siccità, mostrava la corruzione della superficie che diramava nella secchezza delle crepe per culminare nel disossamento degli arbusti, mentre un sole allucinato incendiava le sterpaglie.
Non solo Santa Lucrina, patrona della sacralità delle promesse, aveva l'obbligo morale di porre fine al disastro in atto, ma l'intero paese si era coeso imponendo a Giustina Nepanto, di professione veggente, e a don Apollinare, di professione prete, di sotterrare l'ascia di guerra per dar vita ad una tregua collaborativa dove ognuno avrebbe messo in campo il proprio credo e le proprie capacità, perseguendo l'obiettivo comune di sollecitare la pioggia.
Sinergia inusitata, mai sperimentata prima, che don Apollinare e Giustina Nepanto da sempre si guardavano in cagnesco, arroccati nei propri convincimenti, disputandosi le anime dei vivi e quelle dei morti, l'uno avvalendosi della parola divina, l'altra facendo leva sulla persuasione.
Sta di fatto che l'indovina azzeccava spesso, e con successo, le sue ipotesi, a scapito dei sermoni roboanti del prete, che s'incentravano per lo più sulla minaccia dell'inferno e le blandizie del paradiso, iattura o premio a lungo termine che non trovavano mai riscontro pratico nell'immediato.
Nulla di quello che don Apollinare pronosticava dal suo pulpito accadeva: l'ira apocalittica di Dio tardava a manifestarsi così come la sua perfettissima giustizia, al contrario delle utili e ponderate premonizioni di Giustina Nepanto con le quali, quasi sempre, sembrava poter influire sui destini già decisi.
Victor Galeno, alla ricerca di una tregua dalla calura, si era addentrato nella cattedrale deserta dove il calore delle candele era opprimente, quasi quanto quello del sole feroce che penetrava le vetrate a colludersi col trasudo boreale, appannando in un vapore fitto e tiepido, la navata ed il coro e l'altare maggiore, fino a lambire il trittico degli Angeli Implumi, con le ali appassite dalla pesantezza dell'eternità, e soffocare l'allodola consacrata a Santa Lucrina, prigioniera nella sua gabbia di ferro.
Victor Galeno, che nulla sapeva dei santi, e tanto meno gli interessava saperne, liberò l'allodola che stava asfissiando, stordita dai miasmi dell'incenso e dei gigli appassiti, e dagli effluvi aggiuntivi della nebbia boreale
sabato 21 maggio 2011
asicraN
Lo sperimento su me stessa.
asicraN: cosa c'è di più affascinante delle nostre consapevoli contraddizioni?
Far credere di non essere assolutamente consci di quello che in verità sappiamo di essere, ed esercitare, nel contempo, la machiavellica capacità d'imprimerci per come, invece, ben volutamente ci proponiamo: diabolicamente imperfetti.
già pubblicato il 03/11/2008
mercoledì 18 maggio 2011
La faccia sporca dell'untore
Non fidarti dell'angelo, nasconde aculei
sotto il mantello della crocefissione
Ti condurrà nel deserto di spine
nella casa disabitata del vampiro
Ti mostrerà i suoi tesori
Tutta la notte farà l'amore con te
Cosa farai bambino quando il mantello cadrà
scoprendo nella deformità del sorriso
la faccia sporca dell'untore?
Vivi l'incubo, bambino
Non c'è nesuna strada
laddove non c'è nessun luogo.
già pubblicato nel 2008
sotto il mantello della crocefissione
Ti condurrà nel deserto di spine
nella casa disabitata del vampiro
Ti mostrerà i suoi tesori
Tutta la notte farà l'amore con te
Cosa farai bambino quando il mantello cadrà
scoprendo nella deformità del sorriso
la faccia sporca dell'untore?
Vivi l'incubo, bambino
Non c'è nesuna strada
laddove non c'è nessun luogo.
già pubblicato nel 2008
sabato 14 maggio 2011
Kalifa e le altre
Ho scritto questo racconto danzando sulle onde del mare in compagnia di Kalifa, scura e leggera, con la sua chioma dorata come l'aureola di una Madonna.
Quel giorno è arrivata chissà da dove, e non ha importanza il saperlo, però di certo il suo nome era in un sussurro sopito da qualche parte della mia coscienza, non immaginazione, ma coscienza, come accade quando un ricordo improvviso emerge, palpitante e vivo, dalle pieghe remote della memoria.
Kalifa e le altre, quelle arrivate e poi ripartite e quelle che verranno, quelle che non sono io e nessun'altra, ma il mondo intero delle donne, racchiuso in un fagotto da contadina o in un baule da signora, lacrime e risate, sortilegi e civetterie, umori e petulanze, parole, ed ancora parole, che le donne tante più ne conoscono tante più ne sanno inventare, pensieri appesi sull'abisso o su giardini fioriti, ombra e sole, memorie ed amnesie.
Kalifa è arrivata con i suoi abiti di fata indigena e quell'incredibile chioma raggiante, preceduta da un gallo orbo ed arrogante, ed un uccellino delle tempeste languidamente appollaiato su una sua spalla, irretito dal suo profumo sommesso di giungla e di mare, di terra e di sale.
Kalifa è bella, ma non ci bada, assorbita com'è dal suo mondo interno che non è quello della sciamana cialtrona, o dell'illusionista, ma quello sensibile dell'empatia, della condivisione, perché non professa e pratica nessuna religione se non quella dell'umanesimo.
Infine, la storia dei suoi capelli mi ha sedotta.
C'è sempre un particolare che nelle vicende individuali incanta, una nota che distingue ognuna ma che, alla fine, appartiene a tutte.
Kalifa arriva e non ha bagaglio, non intende restare, il suo è solo il viaggio breve di un racconto, un tassello d'aggiungere al mosaico della memoria collettiva delle esperienze femminili, di quel percorso difficile dove è facile esser preda d'inganni, vittime e kapò, principesse e puttane, che gli opposti, spesso, sono la faccia della stessa medaglia e, quindi, forte è l'equivocare ed essere equivocate, dalle donne stesse, amiche e nemiche, mai davvero complici, che se così fosse la storia dell'umanità sarebbe forse diversa, più poesia e meno guerre, perchè nessuna madre vorrebbe ucciso il proprio figlio, ed anche la più fiera cantrice dell'amor di patria sà che un pezzo di terra non vale la vita di un uomo.
Quel giorno è arrivata chissà da dove, e non ha importanza il saperlo, però di certo il suo nome era in un sussurro sopito da qualche parte della mia coscienza, non immaginazione, ma coscienza, come accade quando un ricordo improvviso emerge, palpitante e vivo, dalle pieghe remote della memoria.
Kalifa e le altre, quelle arrivate e poi ripartite e quelle che verranno, quelle che non sono io e nessun'altra, ma il mondo intero delle donne, racchiuso in un fagotto da contadina o in un baule da signora, lacrime e risate, sortilegi e civetterie, umori e petulanze, parole, ed ancora parole, che le donne tante più ne conoscono tante più ne sanno inventare, pensieri appesi sull'abisso o su giardini fioriti, ombra e sole, memorie ed amnesie.
Kalifa è arrivata con i suoi abiti di fata indigena e quell'incredibile chioma raggiante, preceduta da un gallo orbo ed arrogante, ed un uccellino delle tempeste languidamente appollaiato su una sua spalla, irretito dal suo profumo sommesso di giungla e di mare, di terra e di sale.
Kalifa è bella, ma non ci bada, assorbita com'è dal suo mondo interno che non è quello della sciamana cialtrona, o dell'illusionista, ma quello sensibile dell'empatia, della condivisione, perché non professa e pratica nessuna religione se non quella dell'umanesimo.
Infine, la storia dei suoi capelli mi ha sedotta.
C'è sempre un particolare che nelle vicende individuali incanta, una nota che distingue ognuna ma che, alla fine, appartiene a tutte.
Kalifa arriva e non ha bagaglio, non intende restare, il suo è solo il viaggio breve di un racconto, un tassello d'aggiungere al mosaico della memoria collettiva delle esperienze femminili, di quel percorso difficile dove è facile esser preda d'inganni, vittime e kapò, principesse e puttane, che gli opposti, spesso, sono la faccia della stessa medaglia e, quindi, forte è l'equivocare ed essere equivocate, dalle donne stesse, amiche e nemiche, mai davvero complici, che se così fosse la storia dell'umanità sarebbe forse diversa, più poesia e meno guerre, perchè nessuna madre vorrebbe ucciso il proprio figlio, ed anche la più fiera cantrice dell'amor di patria sà che un pezzo di terra non vale la vita di un uomo.
mercoledì 11 maggio 2011
L'Isola (capitolo 6)
LA REGINA NERA DAI CAPELLI DI SOLE
Kalifa, dalla terrazza della sua casa, aveva visto la piccola imbarcazione dibattersi per rimanere in equilibrio sul mare che montava in burrasca, tentando disperatamente di portarsi verso la riva.
Le campane avevano suonato per allertare gli isolani, e già gli uomini correvano per prestare i primi soccorsi, ma l'imbarcazione era ancora troppo lontana dall'approdo, schiaffeggiata dal vento e dall'acqua, girava in mulinello senza riuscire a recuperare la rotta.
Era troppo distante dalla riva per poter tentare un incerto, quanto rischioso, avvicinamento, perché le fragili barche dei pescatori, in balia del vento fortissimo, sarebbero state facilmente capovolte.
Bisognava domare il vento.
«Se il vento attenua la sua forza l'acqua si cheta.» Aveva detto Kalifa agli uomini assembrati nella Capitaneria.
«Se il sedare il vento rientra tra i tuoi tanti poteri, dimostracelo.» La provocò, beffardo, un giovane capitano.
«Dobbiamo intervenire solo nell'area di mare dove è posizionata l'imbarcazione, e dobbiamo farlo prima che il vento diventi tempesta.» Aveva spiegato lei, paziente.
«E come si doma il vento, Kalifa?» Domandò più d'uno.
«Con l'affiancamento di due navi di grande stazza che garantirebbero la protezione di un corridoio riparato. Il vento andrebbe ad impattarsi sulle fiancate più solide delle navi di soccorso che offrirebbero una copertura all'imbarcazione più fragile.» Aveva risposto lei con convinzione
«E' un rischio troppo grande, col vento che sale di forza nessuna imbarcazione si può definire solida, e nessuno sarà così folle da voler tentare l'impresa.» Aveva ribadito, in tono ostile, il giovane capitano del mercantile "Genova".
«Tentiamo noi della"Queen Cristina".»
La voce, dal forte accento straniero, s'era alzata decisa sovrastando le altre e ristabilendo il silenzio.
L'uomo, che aveva parlato, indossava stivaloni e cerata, e fumava la pipa.
«La vostra offerta, capitano, è generosa, ma la vostra nave da sola non basta, ne occorre un'altra.» Obiettò qualcuno dal fondo della sala, ma lo straniero che aveva accolto la proposta di Kalifa, rilanciò la sfida: «L'idea della signora è buona, e noi stiamo sprecando tempo prezioso. Avanti, chi di voi se la sente di tentare con noi?»
Il giovane capitano che aveva bocciato la proposta, punto nell'orgoglio, si dichiarò pronto a collaborare.
Così la notizia del tentativo di salvataggio aveva allertato tutti, isolani e stranieri, che avevano allestito bivaccamenti per il primo soccorso, con bevande calde e coperte per accogliere i naufraghi, mentre donna Reparata e Kalifa, a capo di un gruppo di volontari, avrebbero provveduto alle emergenze mediche.
Don Saverio, con la toga svolazzante nel vento, s'aggirava come un grosso fantasma scuro, con l'ampolla dell'olio benedetto per salvare almeno dalle fiamme dell'inferno coloro che non fossero scampati all'apocalisse delle acque.
Le due grosse imbarcazioni s'avventurarono tra i flutti irascibili e le bestemmie del vento, per soccorrere la piccola imbarcazione in pericolo, che con le vele squarciate ed il ponte divelto, iniziava ad imbarcare acqua.
Il vento saliva d'intensità e al largo ruggiva ancora più forte, mentre le navi preposte al salvataggio avanzavano lentamente dopo sfibranti scaramucce tra le chiglie ed i flutti.
Le campane avevano smesso di suonare.
C'era solo la furia del vento armato di lame di sole che micidiali oscuravano la vista.
Il mercantile "Genova" e la nave passeggeri "Queen Cristina" procedevano a tentoni, un paio di volte rischiando di perdere di vista la piccola imbarcazione esausta.
Quando finalmente la raggiunsero si posero come sentinelle di scorta ai suoi fianchi, mentre la navicella, a pelo dell'acqua, faticosamente riacquistava l'equilibrio.
Avanzavano come lente ombre nere sul mare incendiato dal vento colore di fiamma, in formazione compatta, con le due navi più grandi ai lati e la piccola al centro.
Le tre imbarcazioni giunsero a riva appena in tempo, miracolosamente schivando la rappresaglia di una tromba marina, una colonna d'aria di proporzioni immani sospinta, al loro inseguimento, da un vento che soffiava a 100 Km/h.
Quella sera le campane suonarono a festa in onore del coraggio dei due capitani e di Kalifa-domatrice-del-vento.
Lo diamo qui il finale, nel bel mezzo dei festeggiamenti, sotto la pioggia che sferza irruenta e di cui nessuno pare accorgersi, tutti presi come sono a sentirsi invincibili, una volta almeno nella vita, che qualche goccia d'acqua cosa volete che sia?
Anzi, le donne paiono ancora più belle, i capelli liberati dagli scialli che il vento ha strappato via, splendono di stille luminose di pioggia, con gli abiti bagnati che aderiscono e rivelano i corpi.
Questa notte tutte le isolane sono dee.
Donna Reparata con la borsa del pronto soccorso e don Saverio con l'olio dell'estrema unzione, non hanno, per fortuna, granché di lavoro da svolgere, tranne che suturare qualche lieve ferita, rincuorare qualcuno, distribuire coperte e cercare un alloggio per i naufraghi che le due locande, dio santo, due sole locande sono davvero insufficienti per gli afflussi sull'Isola.
«Bisognerà pensare alla costruzione di un albergo più moderno.» Pensa, a voce alta, donna Reparata.
«E di una cattedrale.» Le fa eco don Saverio,
Gli scampati al naufragio donano oggetti personali all'emporio che custodisce le reliquie dei naufraghi: ex voti da esporre in una futura, nuova ala.
«E perché non farne un museo?» Suggerisce un imprenditore.
Le imbarcazioni sono attraccate al molo nella formazione in cui sono giunte: le due grosse navi di fianco a proteggere quella più piccola.
I capitani sono andati alla locanda a festeggiare.
L'inglese Johnson della Queen Cristina, ed il giovane capitano italiano del mercantile Genova, sono propensi a prendersi una sbornia epocale che, in alcuni momenti dell'operazione, la paura c'è stata, e tanta.
«Il vostro secondo non si unisce a noi? » chiede l'italiano al capitano Johnson che spiega con un sorriso: «Jericho Lloyd non è il mio secondo, è un fotografo del National Geographic, è qui per un reportage sull'Isola e per intervistare la regina nera dai capelli di sole.»
Lo diamo qui il finale, nel bel mezzo dei festeggiamenti, sotto la pioggia che sferza irruenta e di cui nessuno pare accorgersi, tutti presi come sono a sentirsi invincibili, una volta almeno nella vita, che qualche goccia d'acqua cosa volete che sia?
Anzi, le donne paiono ancora più belle, i capelli liberati dagli scialli che il vento ha strappato via, splendono di stille luminose di pioggia, con gli abiti bagnati che aderiscono e rivelano i corpi.
Questa notte tutte le isolane sono dee.
Donna Reparata con la borsa del pronto soccorso e don Saverio con l'olio dell'estrema unzione, non hanno, per fortuna, granché di lavoro da svolgere, tranne che suturare qualche lieve ferita, rincuorare qualcuno, distribuire coperte e cercare un alloggio per i naufraghi che le due locande, dio santo, due sole locande sono davvero insufficienti per gli afflussi sull'Isola.
«Bisognerà pensare alla costruzione di un albergo più moderno.» Pensa, a voce alta, donna Reparata.
«E di una cattedrale.» Le fa eco don Saverio,
Gli scampati al naufragio donano oggetti personali all'emporio che custodisce le reliquie dei naufraghi: ex voti da esporre in una futura, nuova ala.
«E perché non farne un museo?» Suggerisce un imprenditore.
Le imbarcazioni sono attraccate al molo nella formazione in cui sono giunte: le due grosse navi di fianco a proteggere quella più piccola.
I capitani sono andati alla locanda a festeggiare.
L'inglese Johnson della Queen Cristina, ed il giovane capitano italiano del mercantile Genova, sono propensi a prendersi una sbornia epocale che, in alcuni momenti dell'operazione, la paura c'è stata, e tanta.
«Il vostro secondo non si unisce a noi? » chiede l'italiano al capitano Johnson che spiega con un sorriso: «Jericho Lloyd non è il mio secondo, è un fotografo del National Geographic, è qui per un reportage sull'Isola e per intervistare la regina nera dai capelli di sole.»
Kalifa, invece, si è appartata.
Ha bisogno di star sola.
Deve analizzare lucidamente ciò che è avvenuto, si rende conto di aver indotto a rischiare la vita ai capitani delle due navi sulla base di una semplice intuizione.
E con quanta supponenza ha imposto il suo punto di vista, pur senza averne alcun diritto!
Non si limita a pensarlo ma lo dice a voce alta, perché i pensieri, quando sono evocati, acquistano peso e volume.
«Hai fatto ciò che andava fatto. Non devi rammaricartene.»
Ha bisogno di star sola.
Deve analizzare lucidamente ciò che è avvenuto, si rende conto di aver indotto a rischiare la vita ai capitani delle due navi sulla base di una semplice intuizione.
E con quanta supponenza ha imposto il suo punto di vista, pur senza averne alcun diritto!
Non si limita a pensarlo ma lo dice a voce alta, perché i pensieri, quando sono evocati, acquistano peso e volume.
«Hai fatto ciò che andava fatto. Non devi rammaricartene.»
La voce, alle sue spalle, la fa sussultare.
Riconosce, nel buio, lo straniero che ha appoggiato il suo progetto e contribuito ad attuarlo.
« E' stata una intuizione formidabile.» Lui afferma, convinto. « Alla spiaggia stanno festeggiando così come alla locanda. Domani ci saranno molti postumi da sbornia. » Ride.
Riconosce, nel buio, lo straniero che ha appoggiato il suo progetto e contribuito ad attuarlo.
« E' stata una intuizione formidabile.» Lui afferma, convinto. « Alla spiaggia stanno festeggiando così come alla locanda. Domani ci saranno molti postumi da sbornia. » Ride.
Ha una risata aperta, contagiosa.
Kalifa sente allentarsi la tensione perché lui l'ha alleggerita dal peso immane di quella responsabilità istintivamente assunta e che solo ora, che tutto è positivamente risolto, valuta nella sua pienezza.
«Grazie per avermi appoggiata, capitano.» Risponde grata, con un sorriso.
«Prego, ma non sono capitano. Mi chiamo Jericho Lloyd, fotografo del National Geographic, giunto fin qui per parlare delle meraviglie dell'Isola e di quelle della sua regina nera dai capelli di sole. E stanotte ho assistito ad un prodigio...d'intuito, certo, ma pur sempre prodigio. Allora, Kalifa, mi concederai l'onore di questa intervista? E poi quello ancora più grande d'invitarti a cena?» Le chiede con un sorriso accattivante.
Ci sono inviti ed incontri scritti nel destino, a cui non ci può sottrarre. O non ci si vuole sottrarre.
L'incontro con Jericho e il suo invito fanno parte di questi.
Kalifa lo sa: sorride e gli risponde si.
Kalifa sente allentarsi la tensione perché lui l'ha alleggerita dal peso immane di quella responsabilità istintivamente assunta e che solo ora, che tutto è positivamente risolto, valuta nella sua pienezza.
«Grazie per avermi appoggiata, capitano.» Risponde grata, con un sorriso.
«Prego, ma non sono capitano. Mi chiamo Jericho Lloyd, fotografo del National Geographic, giunto fin qui per parlare delle meraviglie dell'Isola e di quelle della sua regina nera dai capelli di sole. E stanotte ho assistito ad un prodigio...d'intuito, certo, ma pur sempre prodigio. Allora, Kalifa, mi concederai l'onore di questa intervista? E poi quello ancora più grande d'invitarti a cena?» Le chiede con un sorriso accattivante.
Ci sono inviti ed incontri scritti nel destino, a cui non ci può sottrarre. O non ci si vuole sottrarre.
L'incontro con Jericho e il suo invito fanno parte di questi.
Kalifa lo sa: sorride e gli risponde si.
domenica 8 maggio 2011
L'Isola (capitolo 5)
LA FIGLIA ESULE DELLA REGINA D'AFRICA
Kalifa aveva molti talenti, alcuni innati ed altri improvvisati, come quello d'indovinare il sesso di un nascituro dalla pezzuola intrisa del sudore della mamma.
Amaro, per una femminuccia, aspro, invece, per un maschietto.
Odori difficili da individuare perché su tutti primeggiava quello della stanchezza delle puerpere.
Così le gravide le portavano il loro straccetto d'annusare e Kalifa dava la notizia buona di un maschio o quella meno buona di una femmina, che in tutto il mondo valevano gli stessi principi, in terra d'Africa così come in Italia, dove la nascita di una femmina quasi mai era motivo di festa.
Aveva un fiuto infallibile e non sbagliava un pronostico, cosicché la voce si sparse in fretta, ed ecco, allora, capitani e mozzi portarle i fazzoletti intrisi del sudore delle loro donne per conoscere in anticipo il sesso del nascituro.
Era una divinazione che non costava nulla, che mai Kalifa avrebbe speculato su un evento di nascita, cercata o casuale, fonte di gioia o di tristezza, secondo i punti di vista e le necessità.
Quando questa novità giunse alle orecchie di donna Reparata, l'ostetrica dell'Isola, e a quelle di don Saverio, il prete, si ebbero sussulti e reazioni opposte.
La prima cercò di scoprirne la tecnica, giungendo alla conclusione che si trattava di un dono congenito, nessuna stregoneria, come qualcuno teatralmente supponeva con ipotesi fantasiose e dal prete avvallate, seppur con tatto ed in attesa di riscontri, prima di ricorrere ad anatemi e scomuniche.
Ma perché quelli come don Saverio, che pure credevano al parto di una vergine, s'intestardivano a negare le capacità divinatorie di Kalifa?
Una vergine che da alla luce un figlio è una santa. Una donna dall'olfatto diagnostico è una strega.
Questo il ragionamento scettico di donna Reparata, cattolica per tradizione di famiglia ma che al momento giusto, però, riusciva a far chiarezza nell'intrigo tra scienza e fede, mentre don Saverio dal suo pulpito esortava i fedeli a non essere indotti dall'arroganza a credere che fosse dato all'uomo possedere poteri appartenenti solo a Dio, che già il supporlo era peccato mortale.
Ad ognuno il suo, concludeva filosoficamente il popolo, che di domenica gremiva la chiesa e tutti gli altri giorni, invece, il patio dove Kalifa intratteneva i bambini con le storie rivisitate della vita dei santi, e gli adulti con lo spettacolo straordinario dell'uccello delle tempeste che la seguiva appollaiato sulla spalla, e quello del gallo orbo che lanciava i suoi aggressivi richiami tutte le volte che qualcuno tentava di varcare l'uscio di casa.
Farina, zucchero, semi per il giardino, qualche pesce, uno scampolo di tessuto, era questo il contante con cui Kalifa veniva pagata dagli isolani per la sua opera di maestra e d'indovina, che di denaro ne circolava poco ed il baratto costituiva la moneta corrente.
In quello stesso patio, nei giorni di festa, si ritrovavano gli adulti, alla luce fantasmagorica delle luminarie, per sorseggiare un liquore d'erbe, fare un po' di musica o ascoltare le storie di Kalifa,. Quelle stesse che le aveva raccontato il Dottore alla Missione, allo scopo di suscitare stupore e conclamare le sue virtù di veggente.
Ma quale veggenza! Piuttosto una straordinaria carica di empatia, aveva stabilito donna Reparata, che sempre più spesso si avvaleva della collaborazione di Kalifa, della sua mano ferma e delle sue capacità intuitive, per mandare avanti la piccola condotta medica. I marinai e i turisti, invece, facevano la fila sull'uscio della casa di Kalifa, con le pezzuole intrise di sudore e di speranza. Per tutti, lei, aveva una parola buona, ma non illudeva nessuno sulla sua presupposta attitudine a compiere miracoli, limitando le sue divinazioni alle pezzuole e a ciò che il buon senso le suggeriva.
Il nome di Kalifa veniva sempre più spesso associato all'Isola, e la sua casa divenne meta di pellegrinaggi, incrementando così l'economia collettiva.
Nonostante l'opera dissuasiva di Don Saverio, gli isolani continuavano a frequentarla e, soprattutto, ad affidarle la figliolanza, così che in seguito, addossata alla casa, venne costruita una nuova ala adibita a scuola, e lei insignita dell'incarico ufficiale di maestra, con un piccolo stipendio elargito dalla comunità.
Quell'edificio aggiunto fu il primo di uno svariato numero di costruzioni e rifacimenti che avrebbero trasformato, negli anni, la sua casa in un bizzarro, quanto suggestivo, monumento.
Una vergine che da alla luce un figlio è una santa. Una donna dall'olfatto diagnostico è una strega.
Questo il ragionamento scettico di donna Reparata, cattolica per tradizione di famiglia ma che al momento giusto, però, riusciva a far chiarezza nell'intrigo tra scienza e fede, mentre don Saverio dal suo pulpito esortava i fedeli a non essere indotti dall'arroganza a credere che fosse dato all'uomo possedere poteri appartenenti solo a Dio, che già il supporlo era peccato mortale.
Ad ognuno il suo, concludeva filosoficamente il popolo, che di domenica gremiva la chiesa e tutti gli altri giorni, invece, il patio dove Kalifa intratteneva i bambini con le storie rivisitate della vita dei santi, e gli adulti con lo spettacolo straordinario dell'uccello delle tempeste che la seguiva appollaiato sulla spalla, e quello del gallo orbo che lanciava i suoi aggressivi richiami tutte le volte che qualcuno tentava di varcare l'uscio di casa.
Farina, zucchero, semi per il giardino, qualche pesce, uno scampolo di tessuto, era questo il contante con cui Kalifa veniva pagata dagli isolani per la sua opera di maestra e d'indovina, che di denaro ne circolava poco ed il baratto costituiva la moneta corrente.
In quello stesso patio, nei giorni di festa, si ritrovavano gli adulti, alla luce fantasmagorica delle luminarie, per sorseggiare un liquore d'erbe, fare un po' di musica o ascoltare le storie di Kalifa,. Quelle stesse che le aveva raccontato il Dottore alla Missione, allo scopo di suscitare stupore e conclamare le sue virtù di veggente.
Ma quale veggenza! Piuttosto una straordinaria carica di empatia, aveva stabilito donna Reparata, che sempre più spesso si avvaleva della collaborazione di Kalifa, della sua mano ferma e delle sue capacità intuitive, per mandare avanti la piccola condotta medica. I marinai e i turisti, invece, facevano la fila sull'uscio della casa di Kalifa, con le pezzuole intrise di sudore e di speranza. Per tutti, lei, aveva una parola buona, ma non illudeva nessuno sulla sua presupposta attitudine a compiere miracoli, limitando le sue divinazioni alle pezzuole e a ciò che il buon senso le suggeriva.
Il nome di Kalifa veniva sempre più spesso associato all'Isola, e la sua casa divenne meta di pellegrinaggi, incrementando così l'economia collettiva.
Nonostante l'opera dissuasiva di Don Saverio, gli isolani continuavano a frequentarla e, soprattutto, ad affidarle la figliolanza, così che in seguito, addossata alla casa, venne costruita una nuova ala adibita a scuola, e lei insignita dell'incarico ufficiale di maestra, con un piccolo stipendio elargito dalla comunità.
Quell'edificio aggiunto fu il primo di uno svariato numero di costruzioni e rifacimenti che avrebbero trasformato, negli anni, la sua casa in un bizzarro, quanto suggestivo, monumento.
venerdì 6 maggio 2011
L'Isola (capitolo 4)
TANTE VITE QUANTE NE POSSIAMO VIVERE
Kalifa l'affabulatrice, la figlia esule della regina d'Africa, l'infermiera senza diploma e divinatrice all'occorrenza, aveva da subito stregato gli isolani con la sua grazia esotica e l'eccentricità della sua chioma circense, luminosa come l'aureola sfolgorante sul capo della Madonna.
L'Isola l'accolse e lei ne divenne parte.
La vita vi scorreva monotona, cadenzata da abitudini secolari, radicate dalla posizione geografica e dalle intemperanze del clima.
Una economia povera, derivata in maggior parte dal mare e dalle scarse ricchezze del suolo, che inesorabilmente si stava traducendo nell'emigrazione dei più giovani verso il Continente.
Una terra destinata all'abbandono, fino alla notte in cui Kalifa, figlia povera dell'Africa, vi giunse per restare.
La differenza tra l'Isola, e l'angolo di Niger che l'aveva partorita, era essenzialmente nel paesaggio, ma identica, invece, nella qualità della miseria, perché anche qui le donne si coprivano il capo, i bambini giravano nudi e gli uomini lottavano per sopravvivere.
La vita attiva si svolgeva per lo più sul molo, punto d'attracco delle navi, ben poche per la verità, perché quel tratto di mare era solo meta per gli equipaggi più esperti che si fermavano per una sosta transitoria, il tempo necessario al commercio per poi riprendere il largo.
Approdavano le navi, per lo più mercantili diretti verso il Continente, ed imbarcazioni girovaghe costrette dagli imperativi del mare a gettare le ancore.
Un paio di locande, alquanto pretenziose, erano preposte all'accoglienza degli sbarcati; una piccola chiesa marina, dove il sagrestano aveva il compito di scrutare l'orizzonte e, quando una nave si accingeva all'ancoraggio, di suonare a festa le campane come segno di benvenuto; un bazar, con l'esposizione delle reliquie ritrovate dei naufragi, ed un vasto assortimento di conchiglie dorate, coralli purpurei e fragili fossili, di cui i collezionisti facevano incetta; un ambulatorio medico, con annessa una modesta farmacia, completava il tutto.
La piccola comunità dell'Isola, all'arrivo delle navi, si riversava sul molo, le donne avvolte nei loro scialli, le ragazze da marito con gli abiti più belli, e le anziane che sorvegliavano le une e le altre, mentre gli uomini barattavano merci e rifornivano le cambuse delle imbarcazioni con gli stentati raccolti della terra e del mare.
La prima volta che Kalifa discese al porto fu per ordinare al traghetto, incaricato degli approvvigionamenti, la tintura per i capelli.
Le suore, per candore religioso, e per democrazia, chiamavano tutte le bambine Maria.
Il secondo nome, invece, era quello dell'individualità.
Alla Missione vigevano regole imposte per necessità e disciplina, e tutti avevano un compito d'assolvere.
Il suo era quello d'infermiera senza diploma, come diceva il Dottore.
Un talento innato, una mano ferma ed una volontà decisa che, in quell'angolo di giungla, stava diventando indispensabile alla comunità, ma non alla realizzazione di se stessa.
Per questo, il Dottore, l'aveva convinta a quel viaggio clandestino: «Esplora il mondo, Kalifa, vale la pena di essere visto e di vivere tante vite quante ne possiamo immaginare. Alla Missione ci saranno altre buone infermiere, la pratica a questo serve, ma un talento vero va riconosciuto ed affermato, e tu ne hai tanti, molti più di quelli che qui ti è dato sperimentare.»
Il Dottore l'aveva spronata ad intraprendere quel viaggio che l'avrebbe condotta verso la conoscenza di se stessa, e quella del mondo che si espandeva dietro la cortina sontuosa degli arbusti dei tamarischi e dei karitè.
Kalifa ascoltava, sedotta dall'eco di risacca delle onde di quel mare inesplorato che s'infrangeva contro le mura della Missione, dove anche l'harmattan odorava di sale.
Tante vite quante ne possiamo vivere, le aveva suggerito Il Dottore, quando ancora lei nulla sapeva dei destini di Kalifa-l'affabulatrice; Kalifa-figlia-esule-della-regina-d'Africa; Kalifa-infermiera-senza-diploma; Kalifa-divinatrice-all'occorrenza.
«Imparerò a nuotare, Dottore, e la tua Isola sarà il primo porto in cui io approderò.»
domenica 1 maggio 2011
L'Isola (capitolo 3)
L'ORO NEI CAPELLI
Kalifa spalancò la casa al vento salino per liberare i fantasmi dei suoi antichi abitanti, i cui lamenti salivano lungo le tubature per soffocare nelle muffe dilaganti. Poi la tinteggiò con i colori della frutta.
Era attratta dalle sfumature arroganti e dai contrasti stridenti, come il biondo sfolgorante dei capelli ed il colore notturno della sua pelle.
Come guardiano della casa aveva adottato un gallo arruffato ed orbo di un occhio, che vigilava, spavaldo ed aggressivo, come un vecchio pirata sulla tolda, dividendosi gli spazi con un uccello delle tempeste che, sulla scia della nave su cui Kalifa aveva viaggiato da clandestina, s'era invaghito di lei e l'aveva seguita fino all'Isola, dove aveva rinnegato la sua indole errabonda, limitandosi a far la spola tra la spiaggia e la casa dove poteva liberamente intrufolarsi, come un pipistrello, in tutte le stanze.
Kalifa aveva costruito un sentiero marino di ciottoli, conchiglie e pietruzze iridescenti che, da un gomito di spiaggia, s'inerpicava verso la sua casa, e rinverdito il giardino che anche negli inverni più cupi avrebbe rispleso come un faro, con le fiammelle degli stoppini intrappolate dentro prismi di vetro, per illuminare l'oscurità con la fantasmagoria di stelle illusorie, a rischiarare le buie notti dei fantasmi dei naufraghi e quelle degli spiriti degli abitanti della casa che lei aveva sfrattato, senza troppe cerimonie, per prenderne possesso
In futuro, quelle luminarie, sarebbero diventate un riferimento stabile su cui organizzare la rotta per le imbarcazioni in navigazione notturna.
All'inizio gli isolani avevano seguito a distanza, con curiosità e discrezione, il lavorio infaticabile della nuova arrivata, rifornendola di cibo e generi di prima necessità che lei, grata, aveva accettato come un dono che avrebbe presto contraccambiato, perché alla Missione questo le era stato insegnato: accettare sempre ciò che spontaneamente ci viene dato affinché un giorno si possa, con lo stesso spirito, disobbligarsi. Così, Kalifa, accettava col sorriso quei doni spontanei, contraccambiando con le immaginifiche rielaborazioni delle storie dei Santi come le erano state narrate dalle suore.
Un giorno, alla missione, era accaduto che il corto velo, malamente annodato, che avvolgeva il capo di suor Nazzarena, era scivolato via sciogliendo la treccia bionda dei suoi capelli: Kalifa ne fu abbagliata.
Fino a quel momento aveva immaginato che i capelli delle suore fossero neri come i suoi, o castani come quello delle immaginette della Madonna, oppure grigi o bianchi, secondo l'età, e mai avrebbe supposto che un velo potesse celare una meraviglia simile.
Avere i capelli di quel colore diventò la sua ossessione.
Troppo timida per chiedere il segreto di quell'abbagliante colore, sperimentò nel laboratorio del Dottore intrugli a base di fiori e di spezie di colore giallo che diligentemente si spalmava con cura certosina sui capelli, un rito interminabile, vista l'abbondanza delle sue chiome, quanto inutile, dal momento che nessuna sostanza, e nessuna formula, sembrava avesse il potere di mutarne il colore.
Quel miracolo lo compì, per lei, proprio il Dottore, che aveva notato il furtivo andirivieni nel suo laboratorio della sua migliore allieva.
Quando gliene aveva chiesto spiegazione, Kalifa, tra le lacrime, aveva ammesso la sua colpa e poi confidato la sua aspirazione.
Il Dottore, che ben conosceva le donne, aveva capito che nessuna ragionevolezza avrebbe scalfito la determinazione di quella ragazza, così decise di aiutarla rivelandole i segreti del perossido d'idrogeno, usato in cosmesi come base per la preparazione delle tinture dei capelli.
Le promise di farsene inviare un flacone dall'Italia ma avrebbero prima dovuto parlarne alle suore, le quali, sicuramente, avrebbero cercato di dissuaderla.
Stava a lei convincerle.
Questa richiesta, fuori dall'ordinario, creò trambusto tra le religiose che si trovarono divise in due fazioni: quelle propense a perorare la causa di Kalifa, giustificandola come una innocente vanità adolescenziale, e le altre che in quella richiesta ci ravvisavano una bizzarria con la quale avrebbe, invece, deturpato la sua bellezza.
Pareri di donne, quindi, e non di religiose.
Suor Nazzarena, che seppur incolpevole aveva causato un tale putiferio, tentò di parlare con Kalifa, di convincerla dell'insensatezza della sua richiesta, che il biondo simulato sarebbe stato solo temporaneo perché i suoi capelli nella ricrescita sarebbero tornati di nuovo ad esser neri, essendo quello il colore determinato dal suo codice genetico.
Kalifa, all'apparenza, era sembrata rassegnarsi, ma aveva, però, iniziato a tagliuzzarsi i capelli e nascondere lo scempio sotto un turbante.
Alla fine le missionarie cedettero a quel suo aspetto derelitto di passerotto implume: all'aria malinconica, e sempre più distaccata, con cui s'accingeva a compiere i suoi compiti usuali; allo smagrimento causato dall'inappetenza e dall'insonnia. E alla nenia che il Dottore andava ripetendo loro, di non potersi permettere di perdere la sua assistente più brava.
Così, in aggiunta alla lista di cibo e medicine, venne inoltrata la richiesta insolita di un paio di flaconi di tintura per capelli.
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