Dedico questo blog a mia madre, meravigliosa farfalla dalle ali scure e dal cuore buio, totalmente priva del senso del volo e dell'orientamento e, per questo, paurosa del cielo aperto. Nevrotica. Elusiva. Inafferrabile.

sabato 27 agosto 2016

L'abisso di Icaro


La cosa terribile non è la morte, ma le vite che la gente vive o non vive fino alla morte.
(Charles Bukowshi)


Come Icaro progettiamo ali per scalare il cielo, e come lui precipitiamo, invece, negli abissi.
(Amaranta)



Ora che Amaranta mi ha quasi completamente soppiantata nel ruolo di autrice (gli aforismi e i mini scritti recano la sua firma, e non ho difficoltà ad ammettere che si sono rivelati provvidenziali  per questo blog), ho molto più tempo libero da dedicare a tutte quelle cose che fino ad ora ho trascurato e per le quali, confesso, non provo però nessuna attrattiva.

Le faccende domestiche grandemente  mi annoiano (e pensare che un tempo espletavo questo compito con la sacralità di una sacerdotessa); fare la spesa...questo mi riesce ancora abbastanza tollerabile, seppure in maniera discontinua, che quando sono dell'umore giusto la trasformo in una caccia al tesoro, e spesso mi premio con piccoli, innocenti trofei, primizie di stagione o peccaminose golosità, che troppo spesso, poi, finiscono dimenticate in un angolo della credenza.
Niente è più devastante del piacere associato ai sensi di colpa.
Niente è più triste di quel consumarlo in solitudine.

Una cosa che mi è sempre piaciuta, e continua a piacermi, è la stesa del bucato, con il vento che anima i tessuti e li gonfia di vita, compiacendoli perfino di un'anima e di una storia.
Non è semplice biancheria quella che sciorino al sole, ma "sacre sindoni".

Pulire la casa, fare la spesa, stendere il bucato, lavorare e ancora lavorare: è per queste cose che noi viviamo?
Ho consumato buona parte della mia vita (sia per dovere personale che di lavoro) ad assolvere questi compiti,  ma per quale fine?
La polvere, l'attimo stesso che è stata spazzata via si deposita di nuovo sulla stessa superficie, e su di te.
E' una lotta impari da cui si uscirà sempre sconfitti da quel polline scuro che noi stessi innocentemente trasportiamo, agevolandone la prolificazione sulle superfici, negli angoli e negli anfratti, su lembi di cielo e di pelle.
E' la polvere la padrona che domina incontrastata sul mondo, quella che inali quando dormi, fai l'amore, mangi, canti, urli, piangi, ridi, preghi e bestemmi.
E' il primo elemento con cui dobbiamo fare i conti appena veniamo al mondo e fino al nostro ultimo giorno, quando finalmente la metamorfosi si completa e diventiamo noi stessi polvere.
 Bisogna, quindi, rassegnarsi a questa convivenza.
E, in ultima analisi, neppure la più scandalosa tra le tante, e più nefaste, a cui consapevolmente o meno ci assoggettiamo (guerre, catastrofi, ingiustizie) senza batter ciglio.

E a qual fine dannarmi l'anima a rassettare se i miei momenti migliori sono stati quelli vissuti nel disordine e nell'incuria?
Quelli sono stati anche i miei momenti più creativi.
I più appassionati.
Per creare bisogna stare terribilmente bene o terribilmente male; ridere a crepapelle o consumarsi nelle lacrime; impetuosamente sentirsi vivere o disperatamente voler morire.
Non ci sono vie di mezzo: la creatività le esclude perché la routine la uccide.
La noia e la maledizione del dejavù, quel film visto e rivisto, di cui conosci ogni battuta e non ne vivi più il pathos, e così quando sai che sta per arrivare il colpo di scena tiri un sospiro di sollievo, che tra il primo ed il secondo tempo c'è sempre quel provvidenziale intervallo in cui si può andare in bagno, versarsi da bere, fare una telefonata, e per i più ottimisti ipotizzare un finale diverso.
...che mai accade.

Perché la storia è sempre quella, con gli interpreti condannati all'immutabilità, prigionieri, al pari di te, di quella messa in scena da cui non c'è scampo, coscienti che fuori dal cono di luce sul palco, c'è solo il vuoto, il buio e l'assenza di un pubblico: l'abisso di Icaro
Marilena

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