Dedico questo blog a mia madre, meravigliosa farfalla dalle ali scure e dal cuore buio, totalmente priva del senso del volo e dell'orientamento e, per questo, paurosa del cielo aperto. Nevrotica. Elusiva. Inafferrabile.

domenica 28 luglio 2019

Rebecca (cap. 4)



UN VIAGGIO DI SOLA ANDATA
Una presenza discreta, quella di Gemma, possibilmente muta e solo se necessaria.
Questo prevedeva la strategia del copione.
Che quella figlia, pur bella quanto l'altra, ma priva dell'odore di femmina, l'avrebbe designata a badante della pazza.
D'altronde la scelta tra quale delle due figlie sarebbe andata sposa non se l'era neppure posta, perché se fosse stata Gemma, anziché Rebecca, a possedere il conturbante dono dell'essenza di Eva, quel sortilegio profumato e peccaminoso che aveva indotto Adamo a trasgredire, sarebbe stata lei l'eletta all'altare.
Così, Concetto Scalavino, deus ex machina dei destini famigliari, non s'addebitava alcun favoritismo dettato da una preferenza personale, o da un affetto più profondo nei riguardi di una figlia a discapito dell'altra, poiché per entrambe nutriva lo stesso distacco emotivo della paternità abiurata, dove il rancore s'era andato solo, e superficialmente stemperando, dopo la nascita virtuale de "la regina in miniatura", in una tiepida indulgenza che forse avrebbe potuto trasformarsi, con il successo del piano, in benevolenza.
Benevolenza di cui avrebbe goduto anche Gemma.

Dopo questa sintetica, ma ineccepibile analisi auto assolutoria, si sentiva pronto a passare dalla progettazione alla realizzazione del suo disegno, predisponendosi con l'autorevolezza di un regista a stabilire la sequenza dei primi piani, la profondità di campo e, soprattutto, la durata delle battute.
Avrebbe prima curato i dettagli scenografici eppoi istruito le sue due attrici, non prendendo in considerazione, neppure come ipotesi, la messa in discussione del copione.

Giandomenico Messinese, nonostante fosse di pochi anni maggiore di Gemma e di Rebecca, sembrava però più adulto, con un principio di calvizie prematura ed un fisico mingherlino, intabarrato, qualunque fosse la stagione, in cupe palandrane odorose di resina.
Aveva però occhi mansueti e profondi, del colore del mare, orlati di folte ciglia setose, e mani d'artista con dita lunghe e polpastrelli sensibili.
La consapevolezza del suo aspetto, che egli reputava poco attraente, lo aveva reso impacciato e balbuziente.
Più simile ad un giovane abate che ad un artista scarmigliato, partecipava raramente agli eventi societari, e questo gli era valsa la fama di arrogante e alienato le simpatie del popolo come quelle dei notabili, che quella sua ritrosia, originata da una timidezza patologica scambiata per alterigia, non concedeva varchi a blandizie di alcun tipo, rendendolo inavvicinabile ma, soprattutto, incorruttibile.
Un'odiosa iattura quella di avere un rappresentante di tale fama e non poterne in alcun modo disporre, perché il giovane maestro ebanista s'era fatto da sé e non doveva nulla a nessuno, se non a quel suo genio ereditato, e da lui maledetto, dacché avrebbe mille volte preferito esserne nato sprovvisto e non dover essere quel Giandomenico Messinese che, al pari di nostro Signore, sarebbe stato costretto a dover trasportare sulle sue fragili spalle, e contro la sua stessa volontà, la pesantissima croce del suo prodigioso talento.
Quel talento lo avrebbe ora condotto a Roma, nella città di San Pietro, dove egli andava segretamente accarezzando l'idea di prendere i voti in un qualsiasi ordine monastico, non per esigenze di fede ma per necessità di sopravvivenza.
Un viaggio di sola andata.

Era questo il progetto che il giovane maestro ebanista andava segretamente meditando.
Avrebbe però prima adempiuto all'impegno contratto con la Santa Sede per la creazione di uno scrittoio e di una cassettiera, arredi  per le stanze private di  papa Leone XIII.
Sarebbe stata la sua opera ultima.
Sarebbe stato il suo capolavoro.
...poi, senza darne notizia ad alcuno, si sarebbe ritirato in un convento, lontano dalle ipocrisie e dal chiasso del mondo, per ritrovare le ragioni della sua arte, studiare e sperimentare, maturare il suo genio e finalizzarlo ad uno sopo universalmente più grande, non più al servizio della vanità degli uomini ricchi, quelli che potevano permettersi di comprarlo.
Quest'ultima verità, sopra ogni altra, gli riusciva intollerabile, non per una questione di amor proprio ma di pudore violato. Lucidamente si riconosceva come vittima, però consenziente. Continuare ad accettare questo stato di cose lo avrebbe, infine, reso complice.
Non sospettava minimamente, Giandomenico Messinese, che proprio uno di quei ricchi commercianti, che egli così profondamente disprezzava, mirava a comperare non solo il suo nome ma anche il suo gene.

UNA NUOVA IMMAGINE PER GIANDOMENICO MESSINESE
Rebecca e Gemma, al pari del giovane ebanista, proseguivano le loro esistenze all'oscuro dei calcoli che Concetto Scalavino aveva computato con precisione di mercante, certo della qualità indiscutibile della sua merce e del prezzo richiesto, assolutamente irrisorio per un articolo di così grande pregio.
Un affare per l'acquirente, se chi vendeva non era per mera necessità d'incasso ma per la vanità d'allocare la sua merce in una vetrina di maggior prestigio.
Non una svendita, quindi, ma una transazione alla pari.

...così, in ossequio alla prima regola del commercio che da sempre suggerisce la massima discrezione per portare a termine un buon affare, Concetto Scalavino del suo progetto non avrebbe fatto parola con nessuno fino al momento in cui i Messinese lo avrebbero contattato per una nuova fornitura: solo allora avrebbe fatto la sua proposta di matrimonio tra il loro Giandomenico e la sua Rebecca.
Era certo che la transazione sarebbe andata a buon fine, perché la fanciulla non solo era ricca ma era anche bella, e avrebbe contribuito a migliorare la stirpe dei Messinese, prolifica di geni ma non di adoni.

Nel frattempo aveva iniziato a delegare sempre più spesso Gemma, in maniera accortamente casuale, per non generar sospetti, alla custodia della madre, coinvolgendola con tecnica subliminale alla sua gestione, che poi nel breve tempo sarebbe diventata di sua piena, ed esclusiva, competenza.
Le affidava piccoli, ed apparentemente innocui, compiti di dama di compagnia, gratificandola di lodi per l'autorevolezza con cui lei svolgeva tali mansioni.
E con attestazioni di fiducia incondizionata.

Gemma, cucciolo di cane, sensibile a questa nuova agnizione che la gratificava finalmente per la prima volta nella sua vita di un riconoscimento personale di così vasta portata, dove la lode e la carezza erano forse anticipatori di quell'adozione così disperatamente agognata, che aveva rinserrato zanne ed artigli predisponendosi, fiduciosa, ad una resa incondizionata.



 Mimì Messinese lo aveva finalmente contattato per una ingente commessa di pregiatissimo legno di seta e di legno viola, da recapitarsi direttamente a Roma, presso la Santa Sede.
Il carico avrebbe preceduto il giovane maestro ebanista che, preso com'era dalla progettazione dello scrittoio e della cassettiera per Sua Santità, viveva ormai recluso nel suo laboratorio come un asceta, dimentico perfino dei suoi più elementari bisogni.
Questa confidenza, timida quanto inaspettata, era affiorata con un sospiro di preoccupazione dalla voce di Mimi Messinese, insinuandosi abusiva tra cifre e clausole (poche, in realtà, che tra loro due vigeva l'onore della parola data) e inconsapevolmente fornendo al mercante l'opportunità di un alibi introduttivo al suo progetto.

 Mimì Messinese, padre di Giandomenico ed amministratore dell'azienda di famiglia, nutriva nei confronti dell'imprenditore una stima sincera ed illimitata, che se non s'era approfondita in un'amicizia più intima era stato per non venir meno a quella norma dell'etica professionale, e del buon senso, a cui sempre, e senza pentimento, s'era rigidamente attenuto, e che saggiamente suggeriva di evitare commistioni tra amicizia ed affari.
Ma quel giorno la preoccupazione era affiorata spontanea nelle parole sommesse di quella confidenza inaspettata con cui, per la prima volta in tutti quei decenni d'intensa collaborazione professionale, s'era d'improvviso imposta come  ineludibile, la necessità di condividere un assillo così intimo.
Un atteggiamento inedito per il carattere schivo di Mimì Messinese, ma di cui Concetto Scalavino, passato l'attimo dello stupore, abilmente si accingeva a servirsene per portare l'altro sul proprio terreno, palesandogli il suo progetto come una strategia  spontanea, scaturita dall'empatia suscitata da quel suo scoramento evidente a cui non solo emotivamente partecipava, ma se ne faceva carico, fornendogli una soluzione istantanea, semplice e di buon senso

 ...per Giandomenico, così timido e schivo, una moglie bella, e di carattere, sarebbe stata la soluzione a quei problemi esistenziali di cui Mimì Messinese gli aveva fatto l'onore della confidenza.
Una moglie bella e ricca, la cui ingente dote non solo sarebbe servita a garantirgli la tranquillità indispensabile a poter coltivare il suo talento al riparo dagli assili ineludibili della quotidianità ma, inoltre, avrebbe fugato i sospetti di un matrimonio di convenienza. Quella ricchezza avrebbe attestato il sentimento e non il calcolo, permeando di romanticismo la loro unione e, perfino, positivamente modificato l'immagine pubblica di Giandomenico Messinese, il cui ermetismo congenito gli aveva alienato le simpatie del pubblico e gli entusiasmi della critica. Questa nuova immagine sarebbe andata  morbidamente sovrapponendosi a quella scorbutica ed introversa dell'asociale. Un'immagine  più conformista, e di più facile accettazione, di uomo austero ma di meritata fama e di solidi valori. Una moglie gravida, in ultimo, avrebbe posto fine a tutte le insinuazioni maligne, lesive della persona e dell'onore, e sfatato l'ignobile diceria, dettata dall'antipatia e dall'invidia, che voleva il giovane artista attratto da quelli del suo stesso sesso.

mercoledì 24 luglio 2019

Rebecca (cap.3)



UNA SECONDA IPOTESI DI NASCITA
"Questa bambina, che inebria i sensi con la  fragranza delle mandorle e scalda il sangue con l'entusiasmo della cannella, potrebbe benissimo un giorno, se non corrisposto, spingere un uomo al suicidio".
Era questa la certezza conseguita da Concetto Scalavino dopo aver preso attentamente a studiare la sua ultimogenita.

...e, pur arrossendo di questo pensiero, del quale s'era vergognato come dall'aver commesso atto d' incesto, ne aveva preso però nota, non riuscendo a stabilire se dolersene o rallegrarsene, consapevole che una creatura simile, che andava scoprendo indomita quanto seducente, non poteva avere che impresso nel suo destino un drammatico futuro di gloria, perché è universalmente noto che se la bellezza può con irruenza trascinare all'amore, con altrettanto trasporto può suscitare l'odio.
...e così l'anima del mercante, essendo stata molto più a lungo e con consapevolezza esercitata, aveva preso il sopravvento su quella del genitore, dandosi, in ultimo, perfino dell'idiota per tutti quegli anni passati a dolersi sulla mancata nascita di un erede maschio, quel giovane Concetto Scalavino mai venuto al mondo, il motivo per cui s'era stoltamente precluso, fino a quel momento, ogni altra possibile alternativa.
...e se non fosse stato per lo scandalo casalingo di quel cane infoiato, di sentinella davanti alla camera da letto di Rebecca, egli, forse, non si sarebbe mai degnato di valutare la fortuna che ora gli si palesava dinnanzi come una rivelazione esaltante, pregna di progetti fattibili per realizzare i suoi sogni.

Quella sera stessa, a Rebecca, venne concessa una seconda ipotesi di nascita, m astavolta, però, a   partorirla sarebbe stato lui stesso, adempiendo all'evento con tutta la partecipazione emotiva, e l'entusiasmo, di cui aveva difettato, invece, la moglie.
Come una Dea sarebbe stata espulsa, con forza maschia, ma non brutale, dai lombi paterni, per essere accolta nell'incavo ospitale delle sue grandi mani e rifugiata, poi, al sicuro, sul suo largo petto, in concomitanza della regione del cuore, per ninnarla, dolcemente, con la ritmica cadenza dei suoi battiti.

Ed ecco così esistere, nello stesso tempo, e nello stesso luogo, seppur su due paralleli diversi, Rebecca "la regina in miniatura", appena partorita dal padre, e Rebecca l'adolescente, che dorme nella sua camera, vigilata dal cane domestico in preda agli eccessi di una malia sessuale.


LA REGINA IN MINIATURA
Rebecca, "la regina in miniatura", respirava tranquilla i suoi primi attimi di vita, al sicuro sul petto del padre e protetta dalle sue grandi mani, mentre Rebecca, il cucciolo di lupo, s'era destata all'improvviso, inquieta e con i sensi  allertati, istintivamente presagendo un pericolo.
Ed il pericolo era in agguato fuori la porta della sua camera, sulla cui soglia vigilava il cane lascivo.
Se quella sera Concetto Scalavino malauguratamente avesse osato oltrepassare la porta, il cane, di sicuro, lo avrebbe sbranato.

Reduce da questo suo metaforico parto, quando finalmente, e per la prima volta, aveva assaporato le gioie intime della paternità, il mercante s'era convinto che "la regina in miniatura"sarebbe stata il suo riscatto. La sua rivincita.
Lo strumento col quale avrebbe beffato il suo destino.


Ipotesi ancora in nuce che andava accortamente elaborando attraverso un disegno minuzioso e circostanziale, dove tutte le tessere di quell'ipotetico mosaico avrebbero dovuto essere allocate nel loro alveo naturale, così da risultare strettamente connesse, con precisione millimetrica, da mistificare, anche da vicino, l'inevitabile saldatura del collante e dei chiodi, nella perfetta sintesi di una superficie compatta, liscia e pulita, una trama omogenea e non un meticoloso rammendo: il capolavoro di un maestro ebanista.
...e mentre lo Scalavino artista fantasticava sul tema degli sfondi ove far risaltare al meglio le potenzialità inedite di Rebecca, lo Scalavino mercante, invece, vagliava le conseguenze, in termini di ricchezza e gloria, che ne sarebbero successivamente derivate.
Più di gloria che di ricchezza, che di quest'ultima ne aveva già a profusione.

In realtà il progetto che andava elaborando non era impossibile da realizzare, che la materia prima c'era, e della qualità più pregiata, ed avvalendosi delle sue comprovate capacità nel campo degli affari non avrebbe avuto difficoltà alcuna ad immetterla sul mercato e a condizioni, per lui, assolutamente vantaggiose.
L'idea era quella di combinare il matrimonio tra "la piccola regina in miniatura" ed il giovane, talentuoso maestro ebanista, Giandomenico Messinese, la cui fama aveva già travalicato i confini della Sicilia per giungere fino alla Città del Vaticano da dove gli era stata commissionata la creazione di uno scrittoio e di una cassettiera, arredi per le stanze private di Sua Santità, papa Leone XIII.

Concetto Scalavino era da sempre il fornitore unico per il legno da cui s'approvvigionava la famiglia Messinese, che vantava un paio di generazioni di ottimi e riconosciuti maestri ebanisti ed ora, tra tutti, Giandomenico, l'enfant prodige, il cui genio avrebbe inesorabilmente oscurato la fama di Giuseppe Maggiolini.
Ne era certo Concetto Scalavino che nutriva nei riguardi della famiglia Messinese un sentimento ambiguo di stima e d'invidia per quella progenie feconda di maschi e di talenti destinati a perpetrare, nel corso dei secoli, il proprio nome nella fama, mentre invece, lui, non avendo avuto in sorte nessun erede maschio sarebbe definitivamente morto dopo il suo ultimo giorno di vita.
 Per ovviare a questo, alla stipula del contratto matrimoniale avrebbe preteso come unica, indiscutibile condizione, che ai futuri nipoti venisse imposto, insieme al cognome del padre, anche quello della madre.

Un progetto così ardito da indurlo a non trascurare alcun particolare nella stesura del canovaccio e la distribuzione dei ruoli nel progetto che andava elaborando, perché per questo matrimonio, a differenza di quelli combinati per le altre sue figlie,(affette dalla stessa tara materna che portava a generare solo femmine) nessuno dei quali, però, aveva comportato un suo coinvolgimento così personale e così diretto, tanto da non prendere in considerazione, per il caso specifico, l'eventualità di un inciampo o di un rifiuto, poiché la posta in gioco era il suo diritto al nome e ad una discendenza che degnamente lo rappresentasse.
...fantasticava, Concetto Scalavino, davanti la stanza de "la regina in miniatura", sulla futura progenie di nipoti maschi, dotati del genio del padre e del carisma della madre.
E del suo cognome.

In virtù di quella sagacia che egli pur con molte ragioni s'accreditava, si predisponeva allo studio di una strategia sottile e psicologica, poiché in quel frangente nulla era da trascurare, neppure la demenza della moglie, che lo spauracchio di una tara ereditaria avrebbe potuto costituire valido motivo di rifiuto da parte della famiglia Messinese.
...quella moglie incapace di generare un erede maschio e la cui follia egli, sacrificandosi personalmente, era riuscito fino a quel momento a tener nascosta al mondo, e che mai avrebbe permesso interferisse con quel suo progetto esistenziale.
...seppur si rendeva conto che non avrebbe potuto farla sparire così da un giorno all'altro, relegarla in una struttura manicomiale o domiciliarla in un convento, che la voce si sarebbe inevitabilmente sparsa.
Anche l'assenza da casa, motivata ad esempio con una visita ad un parente, poteva essere solo una soluzione temporanea per quella moglie squinternata, alla quale non c'era verso di farle tenere indosso neppure una tunica, quando invece una camicia di forza si sarebbe rivelato l'abbigliamento più confacente
... e dal momento che era impossibile farla materialmente sparire, Concetto Scalavino aveva stabilito che meno si mostrava meno se ne sarebbe parlato, più facile sarebbe stato rimuoverla dal mondo dei vivi.

A tal scopo aveva drasticamente ridotto il personale domestico ad una giovane cameriera sordomuta, una cuoca part time, ed un factotum delegato a svolgere le  mansioni all'esterno della casa, mentre invece, per l'educazione scolastica delle due adolescenti, era stato ristrutturato un piccolo vano indipendente dalla casa, circondato da alberelli sempreverdi e siepi espansive, allo scopo di limitare, alle istitutrici, la vista diretta sulla casa.
Accortezze comunque puerili, inadeguate, che questo suo progetto necessitava di uno scenografia più convincente, di complici e non di comprimari (in ultimo, non aveva neppure quelli), quando da dietro le quinte avrebbe diretto i suoi attori, ed esposto se stesso solo quando il copione lo avesse previsto.
In questo modo si predisponeva a recitare un monologo spacciandolo per un racconto a più voci.
...eppoi avrebbe dovuto fare in modo che Gemma accettasse la parte che le aveva riservato.
Un ruolo secondario, indispensabile, però, alla riuscita della commedia.

lunedì 22 luglio 2019

Rebecca (cap.2)



CINQUE FIGLIE FEMMINE, PER CONCETTO SCALAVINO,  NON COMPENSAVANO LA MANCATA NASCITA DI UN MASCHIO
E con la follia della moglie aveva dovuto fare i conti, personalmente occuparsene dal momento che le stelle, e tutti gli astri celesti sparsi a miriadi nell'universo, pareva non le dessero tregua, perseguitandola col bagliore delle radiazioni a cui lei opponeva lo schermo nero di una mascherina, rassegnandosi a vivere al riparo di un buio fittizio a causa del quale, come una cieca, andava continuamente a sbattere contro i corpi statici, e quelli in movimento, dell'universo fisico.
Concetto Scalavino s'era così trovato a rivestire il ruolo di angelo custode di quella moglie bislacca che girava vestita solo di una mascherina nera sugli occhi, armata del retino per le farfalle e col quale, dal suo mondo di tenebra, menava, a destra e a manca, incauti, quanto pericolosi fendenti.

E così s'era risolto a svolgere a casa buona parte del suo lavoro, riducendo al minimo anche i suoi spostamenti e contando, per la tenuta dell'azienda, sulla solidità del nome e la fedeltà della clientela.
Gli capitava però di sentirsi spesso demotivato in quel suo lavoro, che pur così tanto lo aveva appassionato, sentendosi defraudato di qualsiasi prospettiva di un futuro cosicché, più di una volta gli era capitato di pensare che se tutto fosse andato in malora ne avrebbe patito solo lui.
Immaginava che diverso sarebbe stato se avesse potuto contare sulla presenza di un figlio maschio, idealizzando la complicità di un rapporto, in quella stessa situazione, perfetto e perfettibile, col passaggio di testimone al compagno di squadra più giovane e più in forma, quello che avrebbe terminato per lui, e nel suo nome, il suo percorso fino al gradino più alto del podio.
Invece, ironia della sorte, si trovava costretto a far da balia ad una moglie ritornata bambina e a quelle sue due figlie che gli risultavano estranee e alle quali si rapportava in maniera approssimativa, spesso incoerente, poiché di certo loro seppur non lo intralciavano neanche gli offrivano collaborazione.
Su questa riflessione amara riaffiorava come sempre il rancore, per la verità mai sopito, nei riguardi della moglie che, in cambio del benessere e della ricchezza da lui a piene mani elargitele, gli aveva negato quell'unico dono a cui lui aspirava.
Cinque figlie femmine, per Concetto Scalavino, non compensavano la mancata nascita di un maschio

...anche se il pragmatismo e la consapevolezza, doti prioritarie del suo carattere lo inducevano ora, seppur forzosamente, verso il superamento di questa delusione esistenziale che se non poteva ribaltare avrebbe potuto, però, tentare di modificare.

Le tre maggiori avevano contratto ottimi matrimoni, ma nessuna di loro aveva generato un maschio, che per lui sarebbe equivalsa ad una sorta di compensazione, seppur parziale, dal momento che il nascituro avrebbe acquisito il cognome del padre, e non il suo.
Matrimoni, quelli delle sue figlie, circoscritti all'ambiente commerciale, così Concetto Scalavino aveva iniziato a fantasticare sull' ipotesi di uno sconfinamento in altri ambiti per conseguire un percorso alternativo verso quella sua evoluzione che aveva immaginato possibile solo con la nascita di un erede del suo stesso sesso, e la cui attuazione, adesso, si trovava costretto a vagliare su procedimenti diversi.
Questo suo progetto,( non una necessità dal momento che i suoi affari continuavano a prosperare floridi), era anche un modo per tenersi occupato e sfuggire quegli stati depressivi che lo assalivano con sempre maggior frequenza nella casa abitata dalla presenza turbolenta della moglie e da quella aliena delle figlie.
In virtù di questo nuovo progetto, che direttamente contemplava il coinvolgimento delle due adolescenti, e il tentativo di stabilire con loro un primo vero, difficile contatto, dal momento che entrambe si mostravano genuinamente avulse alle seduzioni materiali così come alla retorica dei sentimenti che, d'altra parte, Concetto Scalavino, pessimo attore, malamente metteva in scena alzando a sproposito i toni e, altrettanto a sproposito, abbassandoli, nell'intento di proporsi in quel ruolo paterno che egli stesso era ben conscio non essere in grado minimamente d'interpretare.

 Queste sue incoerenze generavano scompiglio, nella collaudata convivenza di Gemma e Rebecca, basata sull'autonomia e sul rispetto dei relativi territori, dettami a cui entrambe s'attenevano con la deferenza leale con la quale due soldatesse, che pattugliando i confini dei propri avamposti, si scrutano da dietro le rispettive trincee, senza mai parlarsi, ma consapevoli l'una della presenza dell'altra.
Due soldatesse che non s'erano mai combattute ma che neppure s'erano mai strette la mano, oscuramente trovando in questo loro quotidiano, pacifico fronteggiarsi, una solidarietà che, seppur non s'identificava nell'affetto, di certo radicava nell'empatia
Nella capacità di mettersi nei panni dell'altra.
Entrambe, pur non essendolo, erano cresciute come orfane, nell'indifferenza materna e nel disprezzo paterno, senza quegli esempi del mondo adulto che contribuiscono, nel bene o nel male, a forgiare lo spirito dei giovani, spingendoli all'emulazione o alla ribellione, stimolando contrasti o armonie, indurendo o addolcendo quei caratteri ancora informi quando, immaturi, subiscono la fascinazione dei prototipi parentali: le bambine emulano la mamma così come i maschietti il papà.
Nulla di tutto questo, invece, era toccato a Gemma e a Rebecca che s'erano industriate, fin dalla più tenera età, a voler esser somiglianti solo a se stesse, poiché gli adulti che gli si paravano davanti sembravano avere la stessa aleatoria consistenza delle ombre cinesi che, per essere visibili, abbisognano di una luce indirizzata e di una parete disadorna.

Somiglianti solo a se stesse, col risultato di esserlo diventate davvero, ed in maniera così radicale che neppur4e il miglior pedagogo convinto della sua missione, e per di più supportato dall'ausilio di una ferula, sarebbe riuscito ad imporre un cambiamento, e altrettante scarse speranze di recupero lasciavano presagire i metodi abborracciati di Concetto Scalavino.


GEMMA, CREATURA INCOMPIUTA
Gemma e Rebecca, nonostante le defezioni genitoriali, non erano cresciute come creature primitive.
O ribelli.
Nessuna delle due propugnava l'anarchia o il sovvertimento dei codici societari, d'altronde non ne avevano bisogno perché entrambe, nei mondi dove regnavano, le regole erano loro stesse a stabilirle.
Fisicamente si somigliavano: non molto alte ma ben proporzionate, i capelli di fiamma, gli occhi grandi e neri, in contrasto con la carnagione chiara, tipica delle rosse che se in Gemma, al pari delle altre sorelle, aveva acquisito i toni sfumati del pallore materno, in Rebecca, invece, aveva i toni luminosi del miele.
E non era solo l'incarnato l'unica differenza evidente, che da quando Concetto Scalavino aveva iniziato ad osservarle più attentamente, le dissomiglianze gli balzavano evidenti agli occhi.

Gemma, maggiore di Rebecca di un paio d'anni, si mostrava trattenuta, avara di sorrisi e di gesti, scivolava silenziosa  tra gli oggetti, e la sua presenza, priva di odore, richiamava quella di una sentinella in avanscoperta in un territorio sconosciuto, che pur cerca di espletare, nel più breve tempo possibile, la missione affidatele per poter far ritorno in fretta alla sua garitta.
Quell'affaccio da cui poter sorvegliare il mondo mantenendo le distanze.
Eterea e malinconica, Gemma, creatura incompiuta, era forse più bella di Rebecca ma l'estraneità severa verso se stessa, di cui si faceva ornamento, quella corazza che l'aveva protetta dalle delusioni dei respingimenti, col passar del tempo però, le avrebbe imprigionato l'anima.

...perché nell'attimo stesso in cui era  fuoriuscita dalla vagina di sua madre, Gemma aveva da subito percepito dalla freddezza con cui era stata accolta, la disgrazia di esser nata col sesso sbagliato. E così era venuta al mondo con le labbra serrate e i pugni chiusi. E la ferma intenzione di non piangere.
La levatrice, allora, le aveva dato dei colpettini leggeri per stimolare col vagito il primo respiro.
Quella sculacciata d'incoraggiamento, professionale ed asettica, era stata la sola carezza con la quale era stata accolta alla vita.

A differenza di Gemma e delle altre sorelle che l'avevano preceduta, e che già al momento della nascita avevano accettato, nella stimmata del proprio sesso, il destino del ripudio, e per questo s'erano apprestate a venire al mondo silenziose ed asciutte, in maniera sbrigativa e senza creare problemi aggiuntivi, consapevoli dell'imbarazzo materno e della delusione paterna, Rebecca, invece, aveva trasgredito gli schemi, nascendo con gli occhi aperti e i polmoni liberi e la voce spiegata: un ingresso da protagonista.
 Femmina. Senza ombra di dubbio.
Né di pentimento.

Ma la differenza inequivocabile, tra le sue due figlie, era nell'odore: al contrario di Gemma che non ne aveva alcuno, Rebecca, invece, inebriava.
Se ne era reso conto, Concetto Scalavino, la sera che aveva visto il cane di casa masturbarsi con lo stesso veemente entusiasmo di un uomo, davanti la porta socchiusa della stanza da letto della sua figlia minore.

sabato 20 luglio 2019

Rebecca (cap.1)


FEMMINA. E SENZA OMBRA DI DUBBIO.
Rebecca era nata in un mondo limitato, vuoto e silenzioso che lei, al momento della sua nascita, aveva provveduto a colmare con abbondanza di capelli e vigorosi vagiti.
Era fuoriuscita dalla vagina esausta della madre, avvolta nel bozzolo rosso della sua chioma, contestando, a pieni polmoni, la sorpresa per quella fraudolenta estirpazione uterina.
La levatrice, con fatica, aveva convinto la madre ad attaccarsela al seno per metter fine a quel trambusto neonatale, poiché la puerpera, dopo i patimenti del parto, era preda della tentazione del ripudio, consapevole che anche quest'ultima figlia avrebbe subito, al pari delle altre quattro che l'avevano preceduta, la fredda accoglienza paterna.
Ed in sopraggiunta sarebbe di nuovo sfumato lo splendido collier di Boucheron, 2.000 diamanti e zaffiri blu cobalto, pattuito come regalo per la nascita di un maschio.

 Femmina. E senza ombra di dubbio.
La drastica conferma della levatrice aveva scaraventato nel mutismo dell'impotenza il padre della neonata, opulento commerciante nel ramo del legno e con ambizioni d'ebanista, che aspirava alla nascita di un figlio maschio al quale tramandare la prospera attività  famigliare, e la passione per i mosaici e gli intarsi.
Per lui avrebbe dato vita al più prestigioso laboratorio d'ebanisteria della storia, una fucina che avrebbe indirizzato alla sperimentazione giovani talentuosi tra i quali, ne era certo, sarebbe emerso il nuovo Giuseppe Maggiolini.
E chissà, se dopo tanto sperare e tanto credere e tanto desiderare, come accade nei sogni più arditi,  sarebbe stato proprio quel figlio, battezzato col suo stesso nome, il redivivo Maggiolini.

Ed invece era nata lei, Rebecca, la quinta delle sue figlie.
A differenza, però, delle sorelle che passivamente avevano respirato l'indifferenza paterna, rimanendone poi condizionate con identici sintomi fisiologici quali l'incarnato opaco, lo sguardo incerto ed il languore nei gesti, quest'ultima nata, niente affatto scoraggiata da quel freddo disinteresse, rifulgeva di luce propria.

Così, il ricco commerciante di legname Concetto Scalavino, s'era dovuto rassegnare a questa ennesima, sconfortante paternità, quando ancora una volta erano andate deluse le sue speranze di un figlio maschio che gli garantisse la continuità del cognome e quella del commercio.
Questa bambina, però, sarebbe stata anche l'ultimo tentativo poiché l'utero amaro della moglie s'era dimostrato incapace di generare figli maschi e, oltretutto, le gravidanze ravvicinate l'avevano resa arida al riguardo di qualsiasi persuasione sperimentale, farmacologica o popolana, tant'è che s'era risolta a dormire in un letto singolo e con la porta inchiavardata, ben lontana dalla camera matrimoniale e dalle stanze delle figlie, così ferma nel suo proposito di castità da riuscire, lei così sensibile al potere seduttivo dei gioielli, a restare indifferente all'insidia di una meravigliosa spilla di Tiffany, un sofisticato capolavoro floreale in oro, smalto e gemme preziose, che il marito le aveva proposto in cambio di un altra gravidanza.
Lo sfavillante bouquet era stato sdegnosamente rispedito al mittente che, profondamente risentito, s'era poi astenuto da qualsiasi altro tentativo di corruzione coniugale, rimanendo comunque fedele a quel matrimonio ormai solo di facciata.
Concetto Scalavino s'era allora acquartierato nei suoi uffici commerciali dispensando la sua presenza casalinga  solo per le occasioni importanti, come le feste comandate e gli anniversari.
O quando necessitava la recita di un'armonia domestica.
Un'armonia così somigliante ad un'educata, vicendevole indifferenza.

Maritate le figlie maggiori erano rimaste le adolescenti, Gemma e Rebecca, a suddividersi gli enormi spazi disabitati della casa, senza peraltro contendersi nulla perché estranee l'una all'altra, che niente mai avevano condiviso, neppure il ricordo dell'infanzia recente, quella indelebile memoria che, nel bene e nel male, accomuna nell'appartenenza alla stessa progenie.

Ma quando un giorno, la madre delle sue figlie, s'era affacciata alla soglia della sua camera d'esiliata, completamente nuda e con in mano un retino per farfalle con cui acchiappar le stelle cadenti e i frammenti delle code delle comete, che a suo dire la perseguitavano col loro bagliore esasperato, impedendole il buio e il sonno, mostrandosi refrattaria a qualsiasi ragionevole convincimento che la distogliesse da quella sua bislacca guerra alla Via Lattea, che Concetto Scalavino s'era risolto ad un ritorno stabile in famiglia.


UN CUCCIOLO DI CANE. UN CUCCIOLO DI LUPO.
Rebecca e Gemma, cresciute senza l'ausilio del mondo adulto, abbandonate a se stesse, ignoravano l'arte del compromesso così come le sottigliezze della mediazione e, non avendo cognizione di codici etici a cui far riferimento, incarnavano quanto più d'incondizionato si potesse trovare in creature nate nel secolo moderno dell'industrializzazione.

Un cucciolo di cane.
Un cucciolo di lupo.
Entrambe ringhiavano.
Entrambe mordevano.

Ma, mentre nel ringhio di Gemma, cucciolo di cane, s'intuivano note di pianto, un disperato bisogno d'amore, la necessità di scodinzolare per accaparrarsi una lode o una carezza, la disponibilità, seppur non francamente espressa di un'adozione. La resa incondizionata sarebbe avvenuta, però, solo dopo una lotta non troppo cruenta, quando il cucciolo di cane, sguainati zanne ed artigli, non avrebbe dilaniato la mano protesa in una carezza. Sarebbe stata quella, prima di capitolare, una piccola, quanto indispensabile dimostrazione di fierezza, che avrebbe reso meno umiliante la resa.
 In Rebecca, invece, cucciolo di lupo, l'anarchia, scaturita in parte dall'ignoranza delle regole societarie ed in parte naturalmente congenita nella sua natura, si esaltava come dote preponderante di un carattere impavido, fiero ma non altero, e comprensivo di quella lealtà insita nei temperamenti superiori, dati inconfondibili del pedigree di un campione di razza, che si traduceva nel divieto franco, ed imperativo, di sconfinare nel suo territorio. Un avvertimento schietto che, se disatteso, il cucciolo di lupo non avrebbe esitato nell'azzannare l'improvvido trasgressore.

Concetto Scalavino, aspirante genitore di un figlio maschio, si era trovato così, d'improvviso, a doversi confrontare con quelle sue due figlie a lui assolutamente sconosciute.
Un confronto davvero difficile, questo, che s'era accinto ad affrontare con lo stesso piglio col quale trattava i suoi prosperi affari, basato sulla secolare, e sperimentata transazione, del dare e dell'avere, salvo rendersi conto, quasi da subito, che stava invece imbastendo un fallimento e, soprattutto, che entrambe le figlie, a differenza della loro madre, erano immuni al fascino corruttivo dei gioielli.
Gemma e Rebecca, d'altro canto, non nutrivano ostilità preconcette nei riguardi del padre, quanto piuttosto una sorta d'irridente curiosità davanti a quei suoi palesi, quanto infruttuosi tentativi di corruzione. Una scorciatoia puerile per abbreviare i tempi con cui accreditarsi nel suo ruolo genitoriale, saltando i preamboli della conoscenza e affidandosi, invece, a quella consolidata prassi per ottenere favori e supremazie.
Una procedura sperimentata con successo nella sua lunga, quanto prolifica esperienza di uomo d'affari.

Rebecca, la mia incompiuta


Riprendo a scrivere "Rebecca" la mia incompiuta, il cui primo capitolo l'ho pubblicato, su questo blog, nel giugno del 2013  e l'ultimo nell'agosto del 2017.
Lo riprendo a scrivere non perché sia a corto d'ispirazione su altri soggetti (ne ho ben due, in bozze,  da elaborare) ma perché di "Rebecca" non voglio perderne traccia, che di lei ho amato tutto, perfino la prepotenza con cui s'era proposta, in quel lontano giugno del 2013, alla mia fantasia, con chioma tizianesca e pedigree di lupo.

Scavo sotto la polvere e riporto il mio manoscritto alla luce come fosse un reperto antico, ma che risulta nuovo agli occhi di chi per la prima volta lo legge. E ai miei stessi, che seppur ricordo quasi a memoria ogni suo particolare (e questo mi meraviglia, perché la mia memoria di solito labile cancella facilmente anche l'immediato, l'appena accaduto, o spesso lo rielabora in maniera difforme dall'originale), pur sento l'esigenza intima di riappropriarmene. Di riscoprirlo. Di accarezzarlo con mani d'innamorata. Nettarlo dalle scorie del tempo. Mondarlo dal muschio dell'oblio. Rigenerarlo nella sua stessa essenza.
...così ho riportato tutto nel cassetto delle bozze da dove inizierò l'opera di revisione, e accorpamento dei capitoli, ripubblicandoli ex novo e stavolta molto determinata ad arrivare fino in fondo, per dare a Rebecca un destino finalmente compiuto.

P.S - Unico neo è che nella riscrittura andranno persi tutti i commenti.