Dedico questo blog a mia madre, meravigliosa farfalla dalle ali scure e dal cuore buio, totalmente priva del senso del volo e dell'orientamento e, per questo, paurosa del cielo aperto. Nevrotica. Elusiva. Inafferrabile.

domenica 8 dicembre 2019

Rebecca (cap. 11)




IL FANTASTICO MOMENTO DI CONCETTO SCALAVINO
«Non c'era bisogno di una governante, avremmo provveduto noi alla mamma e alla casa. Non temete che un'estranea possa rivelare ad altri le sue condizioni di salute dopo che avete in tutti i modi cercato di nasconderle al mondo? O forse sono cambiati i vostri progetti? »

Aveva domandato Gemma,in tono ironico, a suo padre, quando Brigida Catalano era andata via.
Lo fronteggiava calma e con una sicurezza nuova, pacata. Adulta.
Un sorriso lieve, leggermente beffardo, le increspava le labbra, e i bellissimi occhi scuri lo sfidavano.
Non c'era più nessuna traccia in lei di quell'emotività che la rendeva guardinga e vulnerabile, inducendola all'invisibilità: autodifesa, questa, che l'aveva indotta a privarsi del suo odore e spogliarsi della sua ombra. Per tutto quel tempo era rimasta in attesa che suo padre rilevasse la sua presenza per amore e non per convenienza, come invece era stato. Aveva così smesso ogni attesa, ogni illusione, riguardo l'uomo che l'aveva generata, al quale avrebbe anche perdonato quella sua vita da orfana se solo avesse compiuto nei suoi riguardi un riconoscimento. Che però non c'era stato.
Così come non c'era stato verso nessuna delle sue altre sorelle, tranne per Rebecca.
Ma di questo non era gelosa. Gemma, per sua natura, non era portata, al pari della sorella, al sentimento dell'invidia o del predominio, cosicché quella loro intesa s'andava evolvendo in maniera schietta e naturale, assolutamente priva d'incresciosi imbarazzi o speciose ipocrisie.

«Starò via per un periodo piuttosto lungo e la signora Catalano sarà, in questa circostanza, la mia e la vostra referente. Dovrete essere, per questo, collaborative e rispettose. In quanto alle condizioni della mamma... la signora saprà gestire la situazione con la dovuta discrezione. Confido su di voi affinché durante la mia assenza non accada nulla di spiacevole. Nulla di cui io debba chiedervene ragione.» L'ultima frase, anche se pronunciata nel tono asciutto delle altre, sapeva di minaccia.

Assorto dai preparativi del viaggio, e dal disbrigo degli affari in corso che contemplavano anche una visita a Mimì Messinese per metterlo al corrente della sua partenza imminente e rassicurarlo che la fornitura di legname per Giandomenico era cosa già fatta, e sollecitando così, in modo subliminale, quell'invito a cena che ancora non c'era stato.

«Il legname è in deposito nel mio magazzino di Palermo, pronto per essere spedito a Roma quando il vostro figliolo lo riterrà opportuno. Pregiatissimo mogano per il quale non esigo alcun compenso.»
Aveva detto stracciando il vecchio contratto e porgendogli il nuovo. Mimì Messinese era arrossito: «E' una cifra ingente. Siete sicuro?» Aveva domandato confuso da quel gesto.
Per tutta risposta, Concetto Scalavino, gli aveva sorriso: «Caro Mimì, posso permettermelo questo  mio omaggio all'arte dell'ebanisteria e all'artista che magnificamente la rappresenta: una questione superiore dove gli affari non c'entrano. Un gesto simbolico. Sentimentale. Un sincero riconoscimento nei riguardi di un giovane, ma già così grande artista, qual'è il vostro Giandomenico. Siete un uomo fortunato. E lo sono anch'io che posso vantare il il privilegio della sua conoscenza.» Aveva concluso in tono commosso nell'atto di congedarsi. Era stato allora che Mimì, stringendogli grato la mano, aveva contraccambiato l'invito: «Domenica a pranzo, naturalmente con la vostra famiglia.»

"Domenica a pranzo, naturalmente con la vostra famiglia."
Andava ripetendosi soddisfatto Concetto Scalavino, per quell'evento da espletarsi alla luce del sole, senza formalismi o messinscene. Soprattutto senza alibi di facciata con cui motivare alla comunità le ragioni di quel convivio
...che su tutte, comunque, agli occhi della gente, sarebbe prevalsa quella di un probabile apparentamento tra le due famiglie.
Ipotesi realistica, supportata dall'esistenza di un giovane scapolo e di due signorine ancora nubili.

Nessun dubbio, per il mercante, che quella fosse l'ufficializzazione del fidanzamento tra Giandomenico e Rebecca, mentre invece la possibilità che si potesse a ragione equivocare su quel suo invito, atto dovuto a contraccambiare l'ospitalità ricevuta ma anche nei riguardi dello Scalavino mecenate, aveva cominciato a farsi strada nella mente di Mimì Messinese, gettandolo nell'apprensione sulle possibili reazioni di Giandomenico per non averlo concordato insieme.
Era stato troppo impulsivo.
E sentimentale.
Ma l'invito era stato fatto e non c'era modo di tornare indietro.



LA CATTIVA SORTE
Il fantastico momento che Concetto Scalavino stava vivendo s'era bruscamente interrotto in un pomeriggio casalingo quando s'era ritrovato a ruzzolar lungo la scala che stava scendendo, nel tentativo di schivare la moglie che avvolta in un lenzuolo, i capelli spioventi sul viso e armata di  retino, la percorreva, invece, in senso inverso, correndo trafelata dietro a qualche suo invisibile fantasma. Fallendo la manovra era rovinosamente precipitato lungo le scale, mentre lei non s'era neppure voltata a guardare, incurante (ma più giusto sarebbe dire inconsapevole, che lo stato di follia in cui versava la rendeva assolutamente innocente)  delle sorti del marito che, inerte, giaceva ai piedi della scala.

Immobilità per un periodo di due mesi, il tempo necessario al rimargino delle fratture della gamba sinistra, costretta all'inerzia dalle fasce del gesso. Questo il verdetto del medico a cui Concetto Scalavino, seppur di malavoglia, aveva dovuto soggiacere. Due mesi, un tempo infinito per chi, come lui, aveva progetti nell'immediato presente, e tempi circoscritti per realizzarli. Ma era ben deciso, nonostante la sorte ostile, a portare comunque a termine i suoi programmi, che non sarebbe stato di certo quell'accidente a deviarlo dai suoi piani facendogli riscrivere quella storia che fino a quel momento, pur con fatica e qualche forzatura, pareva finalmente avviarsi al lieto fine.
Quel lieto fine che nessuno, nonostante quell'increscioso incidente di percorso, gli avrebbe scippato e che anzi, invece, con più determinazione avrebbe perseguito, avendo la sorte, che lui forse in maniera eccessivamente sbrigativa aveva etichettato cattiva, voluto ricordargli in quel modo la caducità degli uomini e la brevità della vita. Un sollecito, quindi, a non sprecare altro tempo in inutili arzigogoli esistenziali e teoremi filosofici, cosicché dal suo letto d'esiliato avrebbe comunque fatto fronte alle avversità della sorte, a dimostrare che l'invincibilità non è un derivato del caso ma piuttosto del talento, e così ben sarebbe stato in grado di ribaltare, a suo vantaggio, quella sciagura.

No, non sarebbe stata quella caduta a metterlo in ginocchio.
Sorrise al suo stesso gioco di parole.
L'unica variazione ai suoi programmi sarebbe stata l'entrata in scena anticipata di Brigida Catalano.

D'altronde, in previsione della sua partenza, era certo di aver serrato con tripla mandata il chiavistello e aver diligentemente assicurato le catene al gancio più robusto della casa, famiglia e averi, tutto responsabilmente tutelato sotto il suo più stretto controllo.

Ma se così fosse la storia dell'uomo si ridurrebbe a ben pochi capitoli, se davvero catene e lucchetti risultassero così efficacemente intimidatori da dissuadere gli oppressi dai tentativi di libertà, saremmo solo stirpe di padroni e di schiavi, facile da governare perfino a quel Padreterno, che pur disponendo di strumenti molto più potenti e sofisticati di quelli umani per l'assoggettamento delle masse, come la terribile minaccia dell'inferno e del suo diavolo e quella sempre incombente della fine del mondo
... ma che nei dati di fatto neppure a lui è riuscito di domare, in modo definitivo, disobbedienze e anarchie.

mercoledì 27 novembre 2019

Appunti per una canzone


Hey baby, stai giocando col mio sistema nervoso
 e prima o poi la miccia prenderà fuoco ed io esploderò.
I miei neuroni  sono pronti all'attacco
faresti meglio a smettere quel sorriso stronzo.

Hey baby, le mie notti insonni hanno un prezzo davvero pesante,
nessuna pillola mi fa dormire
 e i miei occhi accesi sono sulle tue tracce.
Ti porti addosso gli odori di altre donne, profumi costosi.


Hey baby, con me è un gioco in cui t'impegni solo quando decidi tu.
Non posso più accettarlo, ora sarò io a stabilire le regole.
La tua anarchia è solo un pretesto se poi ti fai regalare collari di smeraldo.
Quanto chiedi per le tue performance?

Hey baby, togliti la maschera e guarda i miei occhi accesi
non scherzo bambino quando ti parlo con questa voce calma
sai che presto arriverà la violenza dello scroscio
dovresti ormai presagire dal tono i miei umori.

Hey baby, stai camminando su terra minata e il detonatore è in agguato nel fondo dei miei stivali.

domenica 24 novembre 2019

Il gatto dietro la porta



Il gatto dietro la porta
inutilmente tenta d'entrare
spingendo con la zampa il battente
che però non s'apre.

Gratta e miagola
a palesare la sua presenza,
o meglio ancora la sua assenza,
che lo scrittore avrebbe dovuto già da un po' rilevare
dalla calma inusuale della casa
e dal silenzio degli oggetti
stabili al loro posto.

Nessun vaso, per dispetto frantumato.
Nessuna lampada, nell'enfasi del gioco, gettata a terra.
Nessuna morbida zampina ad interporsi
fra le sue dita e la tastiera
a tracciare sul foglio bianco
una sequenza incoerente di lettere
indecifrabili agli occhi
ma chiarissime al cuore.

Il gatto dietro la porta
s'interroga sull'oltraggiosa indifferenza dello scrittore,
cieco sulla sua assenza
e sordo ai suoi incessanti miagolii,
cosicché è impellente per lui capire i motivi di quel distacco
e in base a quelli decidere se rimanere o andarsene via,
che farsi mettere da parte non è nel suo carattere.

Se non può accedere dall'uscio entrerà dalla finestra.

Con un balzo raggiunge il davanzale
e quieto vi si accovaccia
invisibile tra i vasi di gerani e di basilico
in attesa che lo scrittore sgombri la postazione
e su quel suo stesso foglio, fittamente infarcito di parole,
quelle si senza senso,
scriverà il suo messaggio d'addio
coinciso e chiaro,
inequivocabile,
lasciando la sua impronta
come è nello stile di un gatto.

E quando lo scrittore s'alza e s'avvia alla cucina,
con un balzo salta sulla scrivania per metter nero su bianco
in prosa e in poesia
le ragioni della sua delusione.

E' il gatto di un letterato sa bene quali termini usare!

Ma lo scrittore su quel foglio ha scritto solo un rigo:
ho sperimentato che è il gatto la fonte delle mie ispirazioni, e in sua assenza questa pagina bianca lo attesta.

Molto più di una dichiarazione d'amore, quello dello scrittore
è un atto di fede indissolubile che lega i loro destini.

Soddisfatto di quell'attestazione che ristabilisce una verità fondamentale
che colloca le cose al posto giusto,
il gatto si concede all'attesa,
e tornato dietro la porta riprende a miagolare dal punto in cui s'era interrotto.

martedì 19 novembre 2019

Rebecca (cap. 10)



GENERALESSE IN CAMPO
Ed eccole insieme,  Rebecca e Gemma, sedute allo stesso tavolo, confabulare a bassa voce, novelle cospiratrici,  ravvicinate, per la prima volta nella loro vita, dal perseguimento di uno scopo comune che abbisognava, per esser raggiunto, del credito di una fiducia illimitata l'una nell'altra.
Rebecca aveva così reso partecipe la sorella delle proprie positive impressioni riguardo a quel suo pretendente, che le era parso anch'egli essere vittima degli scopi esistenziali di Concetto Scalavino. Ma di questo occorreva acquisire la certezza assoluta, prima di proporgli una compartecipazione in quel loro piano, ancora tutto da imbastire, per far fallire il progetto matrimoniale

Generalesse in campo, concordarono sull'esigenza di stabilire una strategia comune basata sull'apparente sottomissione alla volontà paterna, cosicché conquistando la sua fiducia avrebbero goduto di una maggior libertà di azione. Occorreva poi fare in modo che Rebecca potesse liberamente parlare con Giandomenico, al quale avrebbe confidato francamente la sua propensione all'indipendenza, al voler gestire da sola la propria vita e le proprie scelte, nella convinzione che nessun marito, per quanto condiscendente, le avrebbe mai permesso di attuarle in piena libertà e senza previo consenso, ed essendo lei dotata, per virtù o per disgrazia, di una natura orgogliosa che rifiutava a priori genuflessioni e piaggerie, le sarebbe stato dunque impossibile adempiere, convenientemente, al ruolo di moglie
...e per questo necessitava a Rebecca uno schietto confronto col giovane ebanista, senza testimoni inopportuni ad influenzarlo.
Occorreva quindi organizzare quest'incontro in gran segreto per non suscitare nessun interrogativo esterno, nessuna curiosità che potesse dar vita a pettegolezzi e illazioni.
Che niente giungesse alle orecchie paterne.
Bisognava, quindi, aver pazienza ed aspettare il momento giusto
...anche se dopo quella cena di matrimonio non s'era più parlato.

Ripristinata la routine casalinga, gli umori però s'erano fatti indecifrabili, soprattutto quelli del capo famiglia che passava lunga parte della giornata chiuso nello studio a dirigere i suoi affari o brevemente assentandosi per seguire quelli che necessitavano della sua presenza. In realtà, Concetto Scalavino, cominciava a non sopportare più quella clausura che s'era auto imposto per senso di dovere verso la moglie demente e le due figlie minorenni, divenuta ancor più intollerabile dopo la battuta d'arresto del suo progetto di matrimonio tra Rebecca e Giandomenico. Un disastro, quella cena, ma non certo un fallimento perché il giovane Messinese una risposta non l'aveva data
... e se gli erano dispiaciuti i suoi modi di sicuro non gli era dispiaciuta Rebecca, e questo poteva affermarlo con certezza perché aveva notato, nonostante l'apparente dissimulazione, quanto lui ne fosse, invece, rimasto affascinato.
Non disperava, lo Scalavino, di porre di nuovo mano a quel progetto che considerava al momento solo accantonato perché l'etichetta imponeva ai Messinese un invito a cena a contraccambiare l'ospitalità da lui offerta
... senza contare che a garanzia di futuri contatti c'era la consegna del legname commissionato per le opere di Roma.
No, non disperava affatto di realizzare il suo disegno, considerando che l'amo lo aveva teso e il giovane, nonostante l'apparente resistenza, sarebbe stato ben felice di rimanere intrappolato in quella stessa rete dove guizzava la magnifica sirena dai capelli rossi e dal profumo conturbante
... sempre che Giandomenico fosse realmente uomo e non, come si mormorava e come anche a  lui stesso era parso, solo una parodia. In quel caso nemmeno il profumo tentatore di Rebecca avrebbe potuto esercitare la sua malia.

Rebecca e Gemma, dal canto loro, con cura evitavano ogni possibile contrasto col padre, facilitate dalle sue sempre più frequenti assenze da casa, iniziando perfino a nutrire qualche speranza che il progetto di matrimonio fosse sfumato, dal momento che di quello non s'era più parlato.
S'era parlato, invece, di un probabile viaggio del capofamiglia nelle Americhe, per motivi di lavoro, e della sua intenzione, durante quell'assenza, di assumere una governante che si prendesse cura della casa, ma soprattutto sorvegliasse la moglie e le figlie.

«Cercherò di tornare al più presto, nel frattempo affido la gestione della casa alla signora Brigida Catalano, alla quale sono certo porterete rispetto ed obbedienza.»  Aveva detto presentando la governante, una donna minuta, di un'età indecifrabile, vestita di scuro.
«La signora Catalano alloggerà nella stanza di Gemma, che è contigua a quella della mamma, e Gemma condividerà la stanza con Rebecca, che è ampia abbastanza per ospitare un letto ed un armadio supplementari.» Poi, rivolto alle figlie, aggiunse severo: «Conto sulla vostra collaborazione.»


BRIGIDA CATALANO
Brigida Catalano era la secondogenita, ed unica femmina, della nutrita stirpe di figli maschi del capitano di marina Filippo Maria Catalano, che rimasto vedovo e costretto dalla sua professione alle lunghe assenze delle traversate in mare, aveva delegato a lei, poco più che adolescente, la responsabilità della casa e degli altri quattro fratelli. Compito di cui Brigida mai s'era lagnata, ma anzi aveva assolto con dedizione ed allegria, crescendo quella nidiata di fratelli, di cui il maggiore, di neppure un anno più grande di lei, era nato ostile al mondo, e la levatrice aveva dovuto usare il forcipe per convincerlo a lasciare l'eremo uterino, nel cui interno s'era barricato. Così, Silvestro, questo il suo nome, era nato con una lieve paresi facciale e lo sguardo ermetico degli angeli.
Era, fra tutti i fratelli, il suo preferito, e di lui si prese maternamente cura fin quando morì, appena trentenne, stroncato da una polmonite tardivamente diagnosticata.
Per sua scelta, Brigida non s'era mai sposata, anche se di pretendenti ne aveva avuti, che bella lo era: minuta, ma ben proporzionata, occhi verdi e capelli biondi, dotata di una personalità schietta e brillante, che s'imponeva all'attenzione. A chi le chiedeva il motivo di questa sua avversione al matrimonio, Brigida, ridendo, obiettava: «Dopo aver svezzato e cresciuto quattro fratelli non sento l'esigenza di dover svezzare e crescere anche un marito.»
Essendo l'unica donna in una famiglia di maschi aveva imparato a fronteggiare le situazioni, anche le più scabrose, senza troppi sofismi e in maniera risolutiva, per non doverci ritornare sopra una seconda volta
... così, quando s'era resa conto, da certe inconfondibili macchie sulle lenzuola di Silvestro, della sua esigenza di un contatto fisico con una donna, s'era rivolta alla maitresse della più rinomata casa d'appuntamento di Palermo, per una ragazza: «Non importa che sia la più bella, ma importa che sia la più dolce. La più gentile.» Aveva specificato all'esterrefatta tenutaria che aveva ribadito: «Di solito l'educazione sessuale dei figli maschi è compito del padre, sono loro a portarli qui, e invece voi siete una donna e troppo giovane per vantare un figlio adolescente. E' forse per voi la ragazza? Ne abbiamo di specializzate in amore saffico.»
Brigida l'aveva guardata divertita: «Se fosse stata una mia esigenza non avrei avuto alcuna difficoltà a dirvelo, ma la richiesta è per mio fratello.» Porgendole la somma pattuita, aveva ripetuto: «Voglio per lui la più dolce e la più gentile delle vostre ragazze.»

Quando il padre era morto, e tutti i suoi fratelli s'erano felicemente incamminati nella vita,, Brigida, rifiutando i generosi aiuti economici da loro  offerti, aveva fatto i bagagli ed aveva iniziato a viaggiare per l'Italia, mantenendosi col lavoro di segretaria  o di governante, secondo le opportunità e le proposte
... ed era da poco ritornata in Sicilia che era stata contattata da Concetto Scalavino alla ricerca di una referenziatissima governante a cui affidare la casa e gli affetti, in previsione del suo viaggio nelle Americhe.
«Per un periodo breve » Aveva specificato alla stipula dell'accordo « Ma con uno stipendio ottimo e trattamento famigliare.»

E così Brigida Catalano, quel giorno, aveva fatto la sua comparsa nella vita di Rebecca e Gemma, anche se sarebbe stato solo  per un periodo breve, come era nei programmi di Concetto Scalavino che nonostante le avvisaglie più recenti continuava a riporre cieca fiducia in se stesso e nel suo destino.

continua...


venerdì 8 novembre 2019

Sulle tracce di Leon (cap. 2)



BEATRIZ E CONSUELO
Gli incontri ai giardinetti divennero frequenti e le confidenze tra Beatriz e Consuelo si fecero fitte.
E sorprendenti.
«Mi piacciono le donne » Aveva rivelato Consuelo «Ed è il motivo per cui i miei mi hanno ripudiato» Rise, ma si capiva che quell'allegria era la maschera un dolore ancora vivo. «Quando lo dissi a mia madre, lei cercò  di redimermi con un bel po' di schiaffi.» Istintivamente si era toccata la guancia . «Era mamma che portava i pantaloni. Papà si adeguava. D'altronde lui non c'era mai. Così era lei a dettare le regole e stabilire, sulla sua personale scala dei valori, cosa fosse giusto e cosa sbagliato. Ed essere lesbica era tra le cose più sbagliate.»
 Beatriz, l'aveva baciata sulla guancia, dove invisibile permaneva l'impronta di quegli schiaffi.
«E tu, invece, cosa sei? » Consuelo chiese a Beatriz
«Una vedova, che non è mai stata sposata. «
Teatralmente, Consuelo, s'era inginocchiata: « La sposerei io, signora... se solo vestisse un po' meglio!.»
« Chi critica il  mio stile non mi merita! Sono io a non volervi sposare!» Da dietro un invisibile ventaglio, era giunta la replica sdegnata di Beatriz. Ma, gettando un'occhiata perplessa al suo look multistrato, chiese in tono semi serio: «Cosa non va nel mio abbigliamento?»
 Consuelo le girò intorno emettendo piccoli mugugni di disapprovazione: «Tutto! » Concluse, allargando le braccia.
 A quell'inappellabile responso Beatriz scoppiò a ridere, cementando un'amicizia che sarebbe durata tutta la vita.

Quegli incontri al parco erano diventati, per entrambe, una piacevole abitudine. Sedute su una panchina si dividevano un panino e una birra, godendo di quella loro vicinanza. Ridevano molto. Litigavano anche. Litigi però, di breve entità e di breve durata, che non necessitavano di pretesti per riappacificarsi: ritrovarsi per loro era semplice e spontaneo.
Talvolta, invece, rimanevano in silenzio, a leggere un libro o guardare Jorge giocare.
 Beatriz amava teneramente il bambino che la chiamava zia Bea
Ed era stato durante uno di quei momenti di silenziosa vicinanza che Consuelo le disse : «Se dovesse accadermi qualcosa, giura che ti prenderai cura di Jorge, che non lo abbandonerai, perché non ci sarà nessuno a reclamarlo.»
Beatriz  promise: «Nessuno? Nemmeno un padre?»

«Il padre...cioè l'uomo col quale l'ho concepito, non sa dell'esistenza di Jorge. Quello che  è accaduto tra noi è stato imprevisto: ero ubriaca e ci sono finita a letto. In quel periodo ci andavo giù pesante con l'alcool, ma droghe no... di quelle non ne ho mai fatto uso. Ed è stato un bene per Jorge perché non mi sono resa subito conto di essere incinta. Non ho un ciclo regolare.» Aveva tenuto a precisare. «Ricordo solo di essermi svegliata al mattino con un mal di testa da ospedale e di aver vomitato tutto il giorno. E lui non c'era più.»

«Davvero non ricordi niente dell'unico uomo col quale sei stata a letto? »
 «Te l'ho detto, ero ubriaca, se fossi stata lucida credi che ci sarei andata?.»
« Hai mai pensato di cercarlo?»
«No.»
«Perché era un uomo?»
Consuelo scosse la testa: «Sono attratta dalle donne ma non per questo odio gli uomini. Anche se  avessi voluto cercarlo non avrei saputo da dove cominciare. Non avevo alcun indizio che mi potesse condurre a lui. Sarebbe stato come dare la caccia ad un fantasma. E poi chissà una volta trovato magari avrebbe avanzato pretese nei riguardi di Jorge. Non ero disposta a correre rischi.»

JORGE E LEON
Era stato dopo quella confessione che Beatriz aveva deciso di rivelare all'amica le sue supposizioni sull'identità del padre del bambino. Una rivelazione che non l'avrebbe esposta a nessuno di quei rischi che lei paventava, perché Leon era morto e non avrebbe potuto insidiare il suo status di genitore unico e né avanzare richieste di nessun altro tipo. E con la sua fedina penale nessun giudice gli avrebbe affidato il bambino.
La sua scoperta, piuttosto, le avrebbe invece offerto l'opportunità di colmare quei vuoti che sarebbero emersi quando Jorge le avrebbe fatto domande sul padre, e lei non avrebbe avuto risposte.

« Credo di sapere chi è il padre di Jorge»
«Davvero? E come avresti fatto a scoprirlo in mancanza di un qualsiasi riferimento? » Domandò Consuelo stupita, e già sulla difensiva.

Beatriz le mostrò una fotografia di Leon: un primo piano nitido che evidenziava la straordinaria somiglianza con Jorge.
 Consuelo, guardò la foto: « E allora? Una somiglianza che non prova nulla. »

«E' più di una somiglianza: è quasi un dna.»

«E' solo la tua immaginazione» Sarcastica, le restituì la foto.

«Lo stesso colore d'occhi, la fossetta sul mento e il ciuffo ribelle sulla fronte: forse non hai guardato con attenzione.»  Beatriz le porse nuovamente la foto ma Consuelo la respinse: « Perché mi stai facendo questo?» Domandò aspra.
« Perché un giorno dovrai dare delle risposte a Jorge. »
«E' un problema che non ti riguarda. Stanne fuori! » Intimò Consuelo infuriata.
Se ne andò sbattendo la porta ma dopo un paio d'ore la chiamò al cellulare: «Chi è l'uomo della foto?»

«Era... perché è morto. Leon Molina, era l'uomo che amavo.»
 Dopo un breve silenzio, Consuelo ingiunse aggressiva: «Mi devi delle spiegazioni. E fa in modo che siano convincenti!»

LEON
Consuelo aveva ascoltato attenta, e senza mai interrompere il racconto di Beatriz, al termine del quale esplose furibonda: «Dovrei raccontare a Jorge che suo padre era un piccolo delinquente, che entrava ed usciva di galera, e quando era in libertà, condizionata presumo, sfruttava una donna, stupida ed innamorata, che lo manteneva col suo lavoro, e che lui, per ringraziamento, tradiva? Sei sicura che di questo suo padre, Jorge, ne andrebbe fiero? »

« In questa tua cinica, approssimativa e sgradevolissima sintesi, il sentimento è del tutto assente.»  Replicò, altrettanto infuriata, Beatriz. «Mi hai descritto come una donnetta stupida, succube di un delinquente, ma io non mi sento così: ho amato Leon, nonostante fosse Leon, consapevolmente, ma non si può dire lo stesso di te che ti sei data a lui nei fumi dell'alcool, ubriaca al punto da non essere cosciente delle tue azioni. Non farmi quindi la morale e...»

«Ho sentito abbastanza, me ne vado.» Consuelo si diresse alla porta ma Beatriz, precedendola, la chiuse a chiave, e poi, senza troppi complimenti, la spintonò verso una sedia.
«No, non vai da nessuna parte. Ti siedi qui e mi ascolterai fino alla fine. Solo dopo potrai andartene.»
 Sorpresa, Consuelo non oppose resistenza, e Beatriz riprese il suo racconto.
«Voglio bene a Jorge non perché presumo sia il figlio di Leon ma perché è il tuo. Sei tu che lo hai cresciuto, ed hai fatto uno splendido lavoro. Ma un giorno, inevitabilmente, ti chiederà di suo padre e se  tu non gli darai delle risposte le cercherà altrove, col rischio d'imbattersi nella verità, e di interpretarla al tuo stesso modo. Ma potremmo, con una sua biografia leggermente modificata, prevenire questa eventualità.»
« Una biografia leggermente modificata? »  Le aveva fatto eco, sarcastica, Consuelo «Sei fuori di testa. Dovresti smetterla di farti di marijuana.»
Beatriz, non rivelò la provocazione e proseguì il suo racconto
«Leon, come ti ho detto, era dedito ai furti, molti dei quali eseguiti in maniera spericolata, motivo per cui era diventato una leggenda negli ambienti della malavita, e non solo. I requisiti per essere popolare li aveva tutti: era bello e temerario, e viveva fuori dal sistema. Fino a questo punto è tutto assolutamente vero. Nella parte modificata, invece, risulterà che beneficiari dei furti di Leon erano i più poveri, gli emarginati: i disperati della periferia di Madrid. Insomma, i suoi non erano furti ma espropri applicati al Vangelo .Questo, però, non risultava scritto in nessun verbale di polizia e neppure alleggeriva  la sua fedina penale, perché la legge non fa differenza sui motivi per cui si ruba, per cui anche lui finiva in prigione come un ladro qualsiasi. Con la differenza che di Leon Molina anche la polizia ne aveva rispetto. E i giudici, costretti però, loro malgrado, ad applicare la legge e condannarlo per quei furti che, in realtà, erano atti di giustizia sociale.»

«Sinceramente, sei davvero convinta che qualcuno crederebbe a questa storia ai confini della realtà? » Il tono della domanda era beffardo, ma anche stavolta Beatriz non ne prese atto.
«Assolutamente si. Una storia che nessuno potrà smentire perché testimoni di quel periodo non ce ne sono più. Ho fatto ricerche molto accurate perché solo alla morte di Leon ho realizzato di aver vissuto in una realtà circoscritta e scandita da soli due tempi: Leon in prigione e Leon fuori di prigione. Ma quando è morto mi sono resa conto che di lui, in realtà, non sapevo niente, e che nessuno mi avrebbe aiutato a colmare quel vuoto. Non fare a tuo figlio quello che io ho fatto a me stessa. Non lasciare che quel vuoto diventi per lui irrimediabile. Il capitolo della tua storia con Leon si esaurisce in poche righe, non sarai costretta a troppi dettagli e a lunghe spiegazioni. Gli dirai che quando hai deciso di avere un figlio, hai scelto lui come padre, perché incarnava i tuoi ideali e il tuo bisogno di giustizia. Lui, però, non ha mai saputo della sua nascita perché le vostre strade, quando hai scoperto di essere incinta, s'erano già divise. Così non hai saputo più niente di lui fino a quando ci siamo incontrate.» Trasse di tasca le chiavi e gliele consegnò: « Non c'è altro. Puoi andartene. »
Ma Consuelo, invece, era rimasta.

«Lo hai davvero amato così tanto il tuo Leon? » Chiese con inaspettata dolcezza
« Di più » Rispose Beatriz stringendo fra le mani la foto di Leon. «Mai più misteri fra noi, amore mio.» Aveva sussurrato riponendola sullo scaffale. Dallo stesso ripiano trasse le poesie di Prevert e i racconti di King, e mostrandoli con aria perplessa all'amica, sospirò « Ecco, invece, un mistero destinato a rimanere irrisolto: il collegamento tra Leon e questi due libri, dai quali non si separava mai. Quando gliene chiesi il motivo si limitò a sorridermi, senza però soddisfare la mia curiosità. »

«Il tuo Leon, secondo me, giocava a fare il misterioso per mantenere inalterato il tuo interesse e non perdere, ai tuoi occhi, il suo fascino di fuorilegge bello e maledetto. E tu  ne eri troppo innamorata per renderti conto di quella sua montatura psicologica. Non ci sono misteri nella sua vita se non quelli che tu hai voluto vedere. Hai una fantasia fenomenale, Beatriz, ma l'hai messa al servizio esclusivo di Leon. Forse è giunto il momento che tu la riscatti per te stessa, realizzando il tuo sogno di scrivere. Ma tornando ai libri di Leon... io credo che siano il bottino del suo primo colpo andato a segno. Due libri trafugati a caso, forse dalla biblioteca della sua scuola. Un furto giovanile: il primo della sua carriera. Strano che tu non ci abbia mai pensato, eppure Leon di mestiere faceva il ladro. »

«Refurtiva!»  Beatriz, colpita dall'intuizione dell'amica, schioccò le dita: « Ma certo! Refurtiva. Cercare il nesso tra Leon e quei suoi due libri tra loro antitetici è stato il mio rompicapo per tutti questi anni, e la soluzione invece era di una semplicità elementare.»
«Se fossi stata meno innamorata lo avresti almeno supposto.»
Risero. Di nuovo complici. Di nuovo amiche.


 «Allora, sei ancora in collera con me? »
«No, non più Volevi solo che Jorge avesse un padre. E che quel padre fosse speciale. Il tuo è stato un atto d'amore.»
«Accrediterai quindi la mia versione? » Domandò speranzosa
«Certo che no! » Esclamò Consuelo fingendosi scandalizzata. « A Jorge racconterò esattamente come sono andate le cose. Cercherò le parole giuste, ma sarà il racconto originale.»
«Converrai almeno che la rassomiglianza c'è.»
«Solo nella tua testa.» Rispose Consuelo abbracciandola «E nel tuo cuore» Aggiunse commossa.

venerdì 1 novembre 2019

Sulle tracce di Leon (cap. 1)


BEATRIZ E LEON
Entrata in casa, Beatriz, si tolse le scarpe e gettò la borsa sul divano, e dopo aver poggiato l'urna cineraria su un ripiano della libreria, si riempì il bicchiere di una generosa dose di "Tinto de verano" per un momentaneo ristoro dalla calura e dalla disperazione. In camera da letto si sfilò l'abito da lutto, e sintonizzò la radio su una stazione di musica leggera, perché il silenzio la deprimeva e lei non voleva più piangere, ed entrò in bagno per una doccia che la restituisse ai sensi e alla vita.
Leon era morto e a lei erano rimaste solo le sue ceneri. Niente altro.
Prima di morire le aveva afferrato le mani e con un filo di voce aveva mormorato: «Beatriz, se credi di poterti finalmente liberare di me, ti sbagli!»
Questo il suo testamento, e la sua tardiva dichiarazione d'amore.

Quando era spirato gli aveva chiuso gli occhi, raccolto le braccia sul petto, e scattato una foto.
Era una sua mania quella di fotografare Leon. E lo aveva fatto anche nel momento della sua morte.  « Per ricordarmi che non tornerai mai più ma che neppure andrai più via.» Aveva sussurrato dandogli l'ultimo bacio.
Alla commemorazione funebre c'erano solo lei e il prete che, in mancanza di un pubblico, si era limitato alla semplice benedizione della salma. Dopo due giorni le era arrivata la comunicazione dell'avvenuta cremazione e la convocazione per il ritiro dell'urna cineraria, quella stessa che aveva posto sul ripiano della libreria tra una raccolta di poesie di Jacques Prevert e un'antologia di racconti di Stephen King: i libri di Leon. Tutti gli altri, invece, erano suoi.
Inutilmente s'era sforzata di trovare la connessione tra quella raccolta di poesie e i racconti horror, perché alla sua richiesta di una spiegazione lui le aveva sorriso enigmatico, senza darle una risposta.
Ma le zone d'ombra erano insite nel suo modus vivendi.
Ve ne erano altre, e forse di più grande importanza, con le quali  lei aveva convissuto fingendo che non ve ne fossero. Che tutto avvenisse alla luce del sole.
Quel piccolo mistero, però, aveva solleticato per molto tempo la sua fantasia. Poi aveva smesso di pensarci fino al momento in cui, d'istinto, aveva deposto l'urna e la foto di Leon scattata sul suo letto di morte, proprio fra quei due libri.
«Non voglio liberarmi di te » sussurrò con dolcezza all'uomo all'interno della cornice «se lo avessi voluto lo avrei fatto tanto tempo fa.»

Quando s'erano conosciuti Beatriz aveva diciassette anni, sognava di fare la scrittrice ed era in fuga dal mondo borghese della sua famiglia. Vestiva come una hippy e fumava marijuana, graziosa, ma senza eccedere in bellezza, era dotata di una personalità prorompente che la poneva al centro degli sguardi. Viveva alla giornata senza però essere una sbandata.
Leon, occhi verdi screziati di azzurro e faccia d'angelo, era un teppista che a vent'anni era già detentore di un sostanzioso curriculum delinquenziale. Noto alla polizia locale per l'audacia dei suoi misfatti, s'era conquistato, presso gli emarginati delle periferie di Madrid, l'aura di bello e  maledetto: una rock star del crimine.
Di quel personaggio da romanzo Beatriz s'innamorò perdutamente.
Leon, abituato a suscitare passione nelle donne, benignamente s'era concesso al suo amore a patto che non ne reclamasse l'esclusiva, ma, soprattutto, che non cercasse di redimerlo, perché lui era quello che era e non intendeva cambiare.
Sarebbe stata comunque libera di andarsene quando la storia non fosse stata più di suo gradimento.
Erano trascorsi gli anni, Beatriz era rimasta e Leon non era cambiato
... così il romanzo che lei avrebbe voluto scrivere lo aveva invece vissuto nella trama quotidiana dei tradimenti e delle bugie e, quando lui era in galera o in fuga, nella solitudine delle attese.
Ma sempre da lei ritornava, se non per amore per attingerne dal suo.
E Beatriz lo sapeva.
Avrebbe potuto andarsene, ma invece era rimasta.

SULLE TRACCE DI LEON
Beatriz, dopo la morte di Leon, rispolverò i suoi vestiti da hippy, riprese a fumare marijuana e a frequentare la periferia di Madrid.

Le strade dei sobborghi erano da sempre il rifugio degli emarginati e dei disperati. Dei fuggitivi.
A nessuna di queste categorie lei poteva più ascriversi, che la vita con Leon, paradossalmente l'aveva imborghesita: a lui l'avventura e a lei la routine, con un lavoro stabile e uno stipendio con cui pagare l'affitto di una casa e la proprietà  di una macchina, al solo fine di garantire a Leon un rifugio sicuro dove riposarsi dalle sue fughe. E forse da se stesso.
Lui tornava e lei lo accoglieva. Nessuna messa in scena. Nessuna forzatura.
Se qualcuno avesse insinuato di una violenza psicologica ai suoi danni, Beatriz di cuore ne avrebbe riso. Ma aveva smesso di dar spiegazioni su quella sua ostinazione ad amare un uomo che non la ricambiava, perché nessuno empatizzava con quel suo sentimento
... e forse, da quella visuale esterna, neppure a lei sarebbe riuscito.

Non era più tentata dalla vita di strada come lo era stata a diciassette anni, allora fuggiva da un destino borghese di agi e certezze, con un presente già previsto e un  futuro prevedibile, mentre lei che sognava di scrivere, aveva bisogno, invece, di materia prima, grezza ed inesplorata, e nell'audacia del giovane criminale ne aveva intravisto il nucleo fiammeggiante.

Strutturalmente la periferia di Madrid era rimasta immutata ma di Leon, però, aveva smarrito la memoria. Nessuno si ricordava più di lui, di quello che lei immaginava fosse continuato ad essere, perché davanti a tutti quei non so chi sia, non lo conosco, mai visto, si rese conto d'averne perso le tracce lei per prima e già da lungo tempo.
Chi era davvero Leon?


CONSUELO E JORGE
Il pallone era rotolato sulla strada dove le macchine sfrecciavano veloci, Beatriz lo raccolse e fece cenno al bambino che s'apprestava ad attraversarla, di non muoversi che glielo avrebbe riportato lei. Era giunta nel frattempo una donna che lo aveva preso per mano ed ora, insieme, attendevano che Beatriz li raggiungesse.
Quando lei fu alla loro portata, la donna, capelli corti corvini, jeans strappati e t-shirt nera, esordì cordiale: «Grazie, è stata davvero gentile, Jorge lsa che non deve attraversare la strada e neppure...»

«...e neppure dovrebbe essergli permesso di giocare a pallone vicino ad una strada così pericolosa.»
Beatriz puntualizzò in tono accusatorio.
A quell'accusa la donna si tolse gli occhiali da sole e guardandola in faccia seccamente rispose: «ma vaffanculo!»
Prima che lei potesse ribattere per le rime, Jorge s'intromise: «La mamma mi porta a giocare ai giardinetti, era lì che stavamo andando, ma il pallone mi è scivolato dalle mani.»

Il tono sereno del ragazzino le fece considerare di aver giudicato frettolosamente e solo sulla base di una sua supposizione, per giunta errata. Non aveva giustificazioni per quella sua aggressione verbale. Poteva solo scusarsi.

« Soddisfatta della spiegazione? » Chiese sarcastica l'altra  «Oppure intende segnalarmi ai servizi sociali?»

«Le faccio le mie scuse. Sono stata impulsiva ed inopportuna. Chiedo scusa anche a te»
Beatriz s'era chinata verso il ragazzino ed era stato allora che aveva notato che il colore dei suoi occhi era della stessa tonalità di verde screziato di quelli di Leon. Un colore raro. Ma la rassomiglianza era anche nella fossetta sul mento e nel ciuffo ribelle che gli ricadeva sulla fronte: Leon in miniatura.  Leon da bambino.
Doveva essere visibilmente impallidita tanto che l'altra le chiese se stesse male.
Nonostante fosse sconvolta riuscì a ricomporsi e porgendo la mano si presentò: «Beatriz Flores»

«Consuelo e Jorge Soler» Disse la donna accomunando il suo nome, e quello del figlio, sotto lo stesso cognome. Con un sospiro di sollievo, Beatriz, prese nota che il bambino non si chiamava Molina come Leon. Jorge poteva essere il figlio di un parente. Poteva essere...no, non  poteva essere altro che suo figlio, perché tra i due era di quelle che non lasciano dubbi.

«Ora dobbiamo proprio andare» Disse la donna distogliendola dalla sua riflessione.
«Possiamo rivederci?» Beatriz chiese d'impulso.
 «Perché» Domandò sorpresa Consuelo
«Sono arrivata da poco in città e non conosco nessuno.» Mentì «Tu e Jorge siete i primi coi quali ho avuto un'interessante, seppur vivace, scambio d'opinioni.»
Alla battuta Consuelo scoppiò a ridere: «Certo. Ci farà molto piacere, vero Jorge? Quando c'è bel tempo andiamo sempre a giocare ai giardinetti.» Con la mano indicò la direzione. «Ci trovi lì.»
Al semaforo si voltò per un ultimo saluto: «Benvenuta a Madrid.» Disse strizzandole l'occhio mentre Jorge le faceva ciao con la mano.

giovedì 26 settembre 2019

Rebecca (cap. 9)


TRA LUCI ED OMBRE: BIOGRAFIA DI UN GIOVANE ARTISTA
La cena s'era protratta per il tempo stabilito dalla buona creanza, neppure un minuto di più, poi i due invitati s'erano congedati con la promessa di ricambiare "la squisita ospitalità"e la porta di casa Scalavino s'era richiusa alle loro spalle.

Sulla via del ritorno, padre e figlio camminavano affiancati, schermati dalla notte, assorti nei propri pensieri, in un silenzio che per entrambi aveva il sapore dei sensi di colpa. La serata s'era in ultimo rivelata disastrosa e Mimì non riusciva a perdonarsi di aver coinvolto, contro il suo volere, Giandomenico, per assecondare i desideri di Concetto Scalavino, che però, ad essere onesto, erano anche i suoi, perché agognava la serenità per quel figlio così tormentato: una stella destinata a brillare solitaria al centro di un cielo deserto. Un'immagine che gli faceva male e così avrebbe preferito vedere il suo Giandomenico configurato nel vasto firmamento come una stella infinitamente più piccola, meno luminosa, attorniata, però, da miriadi di altre stelle.
E lo scopo di quella cena, per Mimì, era appunto quello di offrirgli l'opportunità d'incontrare la stella più bella. E irraggiungibile.
Dopo un lungo tratto di strada quel silenzio s'era fatto per lui insopportabile, perché lo percepiva diverso da tutti gli altri silenzi di cui sovente erano costellate le loro conversazioni.
Un silenzio ostile che tracciava, per la prima volta nel loro rapporto, una distanza.
Sentendosi colpevole aveva provato a giustificarsi. E a giustificare.
- Ti chiedo scusa per come sono andate le cose. Non era negli accordi di questa cena parlare di matrimonio. Scalavino ha agito senza il mio consenso e d'impulso. La sua unica giustificazione è che sinceramente ti ammira e vede in te quel figlio tanto desiderato e mai avuto. -

- Le scuse dovreste farle a Rebecca perché nessuna motivazione può giustificare l'umiliazione che le è stata inflitta. Umiliazione di cui siamo stati entrambi compartecipi: io col mio tacere e voi con il vostro accondiscendere. -
Aveva replicato, coinciso e amaro, Giandomenico, chiudendosi a qualsiasi altra obiezione.
Per la prima volta provava rancore verso il padre che teneramente amava, per averlo obbligato a quella pantomima. E verso se stesso, che in nome di quell'affetto, aveva acconsentito.
Quante cose stupide, folli, paradossali, si fanno per amore! Quante, e quali prove si affrontano in suo nome anche quando, consapevoli dei nostri limiti, si ha la certezza di uscirne sconfitti.


Ed era con quei limiti che Giandomenico, nella solitudine della sua camera, si predisponeva a fare i conti, maledicendo la sua mancanza di spirito e la timidezza endemica che lo portava a balbettare, poi ad arrossire e, in ultimo, ad isolarsi. Si disprezzava per essere goffo, insicuro, privo di quelle attrattive che destano l'interesse in una donna e dopo aver conosciuto Rebecca ancora più amaramente se ne doleva, perché immensamente gli era piaciuta. Lo sguardo dell'artista aveva catturato lo splendore dei suoi capelli e dell'incarnato; il bagliore scuro degli occhi; la flessuosità del collo e dei movimenti.
Lo sguardo dell'uomo, invece, aveva percepito che in Rebecca tutto era spontaneo, vero. Incontaminato
Non vi era nulla in lei di lezioso, artefatto, programmato ai fini della seduzione
...neppure quel suo profumo terso di foresta che s'era imposto ai suoi sensi, ammaliante come un incantesimo d'altri tempi.
Incantesimo che lo aveva travolto in un turbinio di emozioni e sentimenti nuovi e magnifici, impetuosi ed intensi, che incoerenti volgevano da quell'euforia alla disperazione, nella certezza che Rebecca mai si sarebbe potuta innamorare di lui, privo com'era di qualsiasi attrattiva fisica, scuro e taciturno. Indecifrabile. Era rimasto nel suo angolo, impassibile e silenzioso,  quando il padre di lei, in quel discutibile modo gliel'aveva offerta in sposa. Un silenzio che Rebecca di sicuro aveva interpretato come di rifiuto o di muto consenso.
Di disprezzo o di condiscendenza.
Ad ogni modo un silenzio riprovevole.

Ma quel silenzio era stato di riguardo verso il padre che con lo Scalavino vantava una lunga e solida collaborazione commerciale, e che la sua risposta istintiva, avrebbe potuto mettere in crisi. Un sodalizio che funzionava da decenni perché il mercante, il più grande importatore di legname dalle Americhe, era da sempre un sincero ammiratore della famiglia Messinese e della la sua progenie di raffinatissimi, rinomati mastri ebanisti, eccellenze di livello nazionale ed internazionale, perché i  due figli maggiori di Mimì, avevano fondato a Parigi un laboratorio sperimentale, di grande rilevanza europea, precursore delle future scuole di arti applicate..
Concetto Scalavino, il più grande importatore di legname dalle Americhe e dall'Africa,  era il fornitore esclusivo per le attività della famiglia Messinese, di cui Mimì era l'amministratore unico.
Un rapporto privilegiato, quello tra Mimì e Concetto, e che lui, quella sera, con una risposta istintiva avrebbe potuto mettere in crisi. Suo padre stava invecchiando e l'ultima cosa che voleva era quella di complicargli la vita, soprattutto dopo aver deciso di prendere i voti.
Decisione che Mimì non osteggiava ma neppure approvava, e quella cena era stato il suo estremo tentativo per dissuaderlo. L'incontro con Rebecca avrebbe potuto indurlo ad un ripensamento e, forse, perfino ad una visione diversa di se stesso.
Una riconciliazione con la sua immagine intima. E quella pubblica
...perché Giandomenico Messinese, l'astro luminoso,"non solo un raffinato mastro falegname ma un genio che coniuga nell'ebanisteria  l'arte della scultura, quella  dell'ingegneria e della pittura, perché è lui stesso, sofisticato paesaggista, a realizzare gli originali dipinti dei suoi arredi",  il genio riconosciuto, non era affatto amato dalla sua gente.

Quel giovane pallido, dagli occhi color del mare e dalle lunghe ciglia femminee, più somigliante ad una abate che ad un artista, blindato nella corazza del suo pastrano nero e di quel rigido riserbo che gli era valsa l'etichetta di misantropo. La sua natura solitaria, e la totale mancanza di protagonismo, lo avevano indotto a fuggire i riflettori e rifugiarsi nella sua bottega d'artigiano, frequentata da giovani apprendisti desiderosi d'apprendere le sue raffinate tecniche d'ebanista. E dal momento che Giandomenico non era mai stato visto in compagnia di una donna, e in quella sua bottega ci trascorreva spesso anche la notte, erano fiorite illazioni maligne riguardo la sua propensione sessuale.

Eh, l'illustrissimo maestro anche stanotte... lavora!

Insinuavano, dandosi di gomito, i nottambuli che transitavano nella stretta viuzza dove era ubicato il laboratorio dell'ebanista, da cui anche a tarda ora trapelava la luce.
Quelle congetture irriguardose erano così assurte a verità incontrovertibili, creando un incolmabile divario fra lui e la sua gente che pur era costretta, per via di quel suo genio nazionalmente conclamato, a riconoscerlo rappresentativo di tutti loro, quando invece era di disprezzo il sentimento dominante nei suoi confronti. Giandomenico Messinese: un intruso. Un alieno, perché neppure le sue caratteristiche fisiche combaciavano con quelle loro. Sulla base di questo disconoscimento anche l'onestà di sua madre, era stata messa in dubbio, perché lui, chiaro di occhi e di capelli, non somigliava a nessuno dei suoi fratelli.
Mimì aveva sorriso di quelle chiacchiere mormorate, che proprio quel figlio dagli occhi chiarissimi e dall'incarnato pallido, così diverso dalla razza bruna dei Messinese, era quello che più gli somigliava.  Quel figlio enigmatico, luminoso ed oscuro, era quello che sentiva più suo.
 All'inizio s'era provato a spiegare che nella famiglia di sua moglie scorreva sangue normanno, ma aveva presto scoperto che quella verità, pura e semplice, veniva invece screditata con ferocia, come una giustificazione puerile a mascherare l'adulterio, estrema difesa per salvare l'onore e la faccia davanti all'opinione pubblica. Mimì, allora, s'era imposto di tirar dritto per la sua strada e non prestare più orecchio alle calunnie che alle sue spalle, e a scapito di ogni plausibile obiezione, si sarebbero continuate a sussurrare.
Tutt'ora nel presente così come era stato nel passato.

UN UOMO LEALE
Della fama nebulosa del giovane artista Rebecca non sapeva quasi nulla, ma seppure fosse stata a conoscenza di quei supposti particolari scabrosi che ne alimentavano la leggenda, il suo giudizio su Giandomenico Messinese non sarebbe cambiato, perché l'aver vissuto in solitudine la maggior parte della sua giovanissima vita l'aveva preservata dalla trappola dei pregiudizi.
In quel giovane taciturno e che facilmente arrossiva, Rebecca aveva ravvisato i sintomi di una sensibilità estrema, un animo nobile e un carattere superiore, che s'affermavano nello sguardo piuttosto che nelle parole. Un uomo leale che mai si sarebbe reso complice di una prevaricazione.
...questo, Rebecca, aveva visto in Giandomenico.
Questo avrebbe raccontato a Gemma, delegata quella sera a far da custode alla loro madre che aveva trovato nella follia la sua libertà.

continua...

venerdì 13 settembre 2019

Rebecca (cap. 8)


LE BASI PER UN'ALLEANZA 
L'entrata in scena dei Messinese prevedeva cortesi sorrisi, educati silenzi e le battute circoscritte alle formule dell'ospitalità.

- Mi scuso per l'assenza di mia moglie, in visita a parenti. Visita programmata da così tanto tempo che non è stato possibile, in ultimo, rinviare. -
Questa la spiegazione sintetica con la quale Concetto Scalavino aveva chiarito l'assenza della moglie, ben sapendo che i suoi discretissimi ospiti non avrebbero chiesto altri particolari.
- Ad espletare le mansioni di padrona di casa supplirà Rebecca, la mia figlia minore. -
Aveva aggiunto con una nota di malcelato orgoglio presentando la giovane al suo fianco.

La semplicità dell'abito, e la pettinatura severa in cui aveva imbrigliato i suoi capelli di fiamma, piuttosto che sminuire la bellezza di Rebecca la esaltavano. E la malia di quel terso profumo che emanava da lei, ne materializzava la presenza rendendo irreale tutto il resto.
Concetto Scalavino s'era deliziato dell'effetto prodotto dalla figlia sui due uomini: il più giovane, che indossava un cappotto scuro, pesante per la stagione, aveva mormorato, arrossendo, una frase di circostanza; il più anziano, timido al pari dell'altro, s'era prodotto in un inchino impacciato.

Al primo impatto entrambi i Messinese erano piaciuti a Gemma. Le era sembrato che non ci fosse nulla di artefatto nel loro modo di presentarsi. Nessuna maschera sui loro volti.
E il rossore sul viso dell'ebanista lo testimoniava.
L' esser nato privo di una schermatura dietro cui poter intimamente elaborare le sue emozioni, aveva significato, per Giandomenico, l'obbligatorietà di una visibilità abbagliante e inopportuna. Questo vivere costantemente allo scoperto aveva ancor di più esasperato la sua ipersensibilità per cui, in ultimo, e come estrema difesa, s'era trincerato dentro quella sua timidezza come all'interno di un fortino, rendendosi inaccessibile.
Il fortino era diventate il suo scudo. La sua seconda pelle. Ma non la sua finzione.
Giandomenico Messinese, da quel suo riparo, continuava ad esser se stesso.

Intenzionata a farli sentire a proprio agio, Rebecca aveva guidato gli invitati verso la sala dove si sarebbe svolta la cena.
Dando mostra di un raffinato acume psicologico, il padrone di casa aveva voluto fosse non la più fastosa ma la più intima, quella riservata ai pranzi di famiglia, per sottolineare il carattere informale di quel convivio ma, soprattutto, a sottintendere l'avvio di una relazione parentale.
Intorno alla tavola sobriamente imbandita ognuno avrebbe recitato, senza inganno, la parte di se stesso, che la posta in gioco, per tutti, era grande, e giocare a carte coperte non era nel carattere degli astanti, fatta eccezione per Concetto Scalavino pronto a barare pur di vincere.

Mimì Messinese avrebbe accettato di buon grado quella parentela senza però attuare nessuna forzatura nei riguardi del figlio, lasciandolo in ultimo libero di decidere. Dopo aver visto Rebecca, però, ardentemente desiderava che Giandomenico cambiasse idea, che la ragazza immensamente gli era piaciuta, bella e di modi gentili, e con una personalità ben delineata nonostante la giovane età.
La moglie ideale per suo figlio. Discretamente, e con imbarazzo, poiché non possedeva la capacità  di decifrare le espressioni, aveva cercato di capire, osservando Rebecca, quanto interesse le avesse suscitato Giandomenico. Conoscendo l'idiosincrasia del suo Giandomenico per le relazioni sociali, aveva sperato che almeno in quell'occasione uscisse  dal suo riparo per mostrarsi nella limpidezza del suo essere. Per la prima volta nella sua vita Mimì Messinese aveva provato nei confronti del figlio del risentimento per essere così strutturato. Ma l'attimo dopo s'era disprezzato per quel pensiero, l'equivalente di un'abiura, di un disconoscimento paterno, e di cui immediatamente s'era pentito. Giandomenico doveva essere amato per quello che era e non per quello che si desiderava fosse. Una conoscenza intima, però, avrebbe rivelato la sua straordinaria grandezza spirituale ed intellettuale di cui per pudore non faceva sfoggio.
 E Rebecca aveva le doti per entrare in comunione con lui.
Se un sentimento doveva nascere sarebbe germogliato spontaneo da un interesse reciproco, senza forzature a piegarne le rispettive volontà.
 In ogni caso lui non sarebbe stato il loro grimaldello.

Forzature, invece, che senza nessuna remora aveva già messo in atto Concetto Scalavino nei confronti di entrambe le figlie, intenzionato ad avvalersi di qualsiasi tecnica coercitiva per sottometterle al suo volere. Una scommessa, però, che avrebbe dovuto tentare da solo dal momento che Mimì Messinese non sembrava possedere l'autorità per imporsi a quel suo figlio straordinariamente talentuoso ma carente delle attrattive fisiche con cui destare l'interesse di una giovane donna.
 Durante la cena aveva avuto l'opportunità di studiarlo con agio e nel dettaglio: il viso lungo, l'incarnato pallido, gli occhi chiarissimi, incorniciati da lunghe ciglia folte, femminee. Quando non era impacciato i suoi gesti erano lenti, quasi languidi. I capelli di un biondo opaco, già radi alla sommità del capo, gli conferivano l'aspetto di un giovane abate: la sola nota maschile, aveva riflettuto, con feroce ironia., dopo aver osservato che anche le mani erano bianche e delicate come quelle di una donna.
...anche se le mani di un artista non possono essere callose e brune come quelle di un contadino.
Una giustificazione insufficiente, però, a dissipare i dubbi sulla virilità del giovane artista e sull'effettiva capacità di generare figli.
 ...perché Giandomenico non somigliava per niente al padre, e neppure ai suoi fratelli: una stirpe di maschi ricciuti e bruni, dal torace possente e le ossa solide. Decisamente maschi.
Senza ulteriori paragoni, già dal confronto col padre di molti anni più vecchio e col fisico appesantito, il giovane ne usciva penalizzato. Lo aveva visualizzato  al fianco di Rebecca, ma di lui neppure l'ombra riusciva a captare, tanto grande era la sua insignificanza che neppure la vicinanza della splendida "regina in miniatura" riusciva a vivificare. Questa ulteriore, sconfortante constatazione, gli aveva suscitato, nei confronti della figlia, un vago senso di colpa, che però aveva prontamente rimosso perché con gli scrupoli si rischia d'inciampare e non si arriva da nessuna parte.
E lui non poteva permetterselo.

Giandomenico aveva solo sfiorato con uno sguardo Rebecca, che gli sedeva di fronte, e dalla quale sembrava emanare una sottile, persuasiva fragranza. Un profumo inebriante che lo spaventava e l'attraeva. Isolandolo. Per pudore non aveva più guardato in direzione della giovane, consapevole che il motivo di quella cena era anche a lei noto, e questo contribuiva a farlo sentire correo di quella vigliacca imposizione a cui lei non s'era potuta sottrarre. Estraniato, partecipava alla conversazione con frasi brevi e asciutte, e solo quando era direttamente interpellato. Il più delle volte limitandosi a cenni d'assenso o di diniego.

Rebecca, inconsapevole del suo sortilegio, cercava di capire quanto fossero complici in quel progetto di nozze i suoi ospiti, ponendo attenzione agli sguardi piuttosto che alle parole, conscia che il regista del copione era suo padre e la conversazione si sarebbe svolta sotto la sua dettatura, quindi le risposte che lei cercava non le avrebbe trovate nelle parole ma piuttosto nelle luci e nelle ombre degli sguardi.
...e negli occhi chiarissimi di Giandomenico non aveva captato minacce.
Inoltre, con la sua sensibilità istintiva aveva interpretato i silenzi del giovane, e le poche scarne frasi, non la prova di una timidezza esiziale ma piuttosto il disagio di essersi reso correo, suo malgrado, di quella forzatura, col ruolo imposto del protagonista.
Un ruolo che rifiutava, allo stesso modo che avrebbe rifiutato qualsiasi altro, perché Giandomenico non era nato per interpretare ma per essere.
Esattamente come lei.
Le basi per una loro futura alleanza c'erano. E delle più solide.

UN' IGNOBILE TRATTATIVA
La conversazione, che verteva sulle qualità  e i difetti dei legnami più pregiati e il loro impiego nell'ebanisteria, era disciplinata dal padrone di casa con lo scopo finale di proporre a Giandomenico il matrimonio con Rebecca., perché Concetto Scalavino, dopo un'attenta riflessione, aveva deciso che il modo migliore per esplicare la sua offerta sarebbe stata quella di farla in maniera diretta, senza girarci troppo intorno, nonostante avesse assicurato Mimì Messinese che l'intento di quella cena era quello di un primo approccio fra i due giovani. Ma il mercante aveva deciso di affrontare la questione subito, e di petto, perché la discrezionalità eccessiva di Mimì Messinese, così come l'esagerata referenza nei confronti del figlio, avrebbero potuto rivelarsi controproducenti.
Se Giandomenico fosse stato educato da un genitore più autorevole e meno sentimentale, sarebbe venuto su con i crismi di un vero uomo. Ma non disperava, Concetto Scalavino, dopo le nozze, e sotto la sua guida, di evolvere il giovane.
Un imprinting tardivo ma necessario.
Per rompere gli indugi, e stabilire da subito un'intesa più intima, aveva abilmente dirottato la conversazione dalla tematiche lavorative a quelle esistenziali, e poter così manifestare i suoi apprezzamenti per l'uomo e l'artista. Sentimenti contrastanti, però, che se per l'artista nutriva sincera ed entusiastica ammirazione, scarsa, o quasi nulla, era quella per l'uomo. Se solo avesse potuto scinderli! Ma non gli era possibile dal momento che l'artista e l'uomo coabitavano, indivisibili come cellule monozigote, nello stesso embrione.

-  Il mogano che mi avete commissionato per lo scrittoio e la cassettiera per le stanze di Sua Santità, lo importerò da Cuba, dove ho inviato un mio uomo di fiducia a seguirne la segagione e scegliere le lastre più compatte, di una qualità sopra l'eccellenza, e per le quali non chiedo alcun compenso. E' il mio omaggio alla vostra arte, Giandomenico. -

- Ma vi costerà una fortuna! - aveva replicato, imbarazzato, Mimì Messinese

- Fortuna è vantare la conoscenza, e da questa sera spero anche l'amicizia, con il maestro ebanista più illustre di Sicilia. D'altronde, caro Mimì, il vostro riservatissimo Giandomenico molto incarna quel figlio maschio che io non ho mai avuto, e solo Iddio sa quanto ho desiderato: l'erede destinatario del mio ingente patrimonio. Ma il Signore, invece di un maschio a cui legittimamente tramandare il nome e il capitale, mi ha dato cinque figlie femmine, delle quali tre egregiamente maritate ma che hanno anche loro nel destino una progenie di femmine, mentre le due minori, Rebecca e Gemma, sono ancora ragazze. Non nascondo che il mio desiderio più grande sarebbe quello che una delle mie figlie andasse in sposa ad un giovane di talento che, beneficiando della sua ingente dote matrimoniale, avrebbe l'opportunità dì vivere agiatamente e dedicarsi in piena autonomia alla propria arte. -

Quell'offerta, gettata dallo Scalavino come un pezzo di carne cruda sulla tavola imbandita, fra le stoviglie di porcellana e i bicchieri di cristallo, aveva colto impreparati tutti per la volgarità della formula e per la tempistica.

Rebecca, con uno sforzo supremo s'era costretta ad un atteggiamento neutro per studiare le reazioni dei due uomini.
Mimì Messinese, nonostante il visibile imbarazzo, per educazione aveva mormorato: fortunato quel giovane e la sua famiglia ad essere imparentati con voi.
 Giandomenico, invece, era arrossito non aspettandosi una proposta così aggressiva e diretta, e a cui doveva una risposta.
Le parole che gli salivano alle labbra, però, erano aspre ed ostili. Di disprezzo per l'uomo che aveva in quel modo umiliato la propria figlia, e la volgarità con cui l'aveva trattata, come una merce posta su un bilancino col contrappeso di un forziere d'oro.
Ma per non dispiacere a suo padre quelle parole le aveva con fatica ricacciate in gola, obiettando con un silenzio, prolungato e significativo, che aveva posto fine a quell'ignobile trattativa.

Il silenzio ostile, e il pulsare di una vena sulla tempia di Giandomenico, avevano raccontato a Rebecca, molto più delle parole, dello stato d'animo del giovane che non osava guardarla immaginando che quella sua mancata risposta potesse essere intesa da lei di spregio alla sua persona, mentre invece stava a significare il suo rifiuto a quell'odiosa compravendita.

giovedì 8 agosto 2019

Rebecca (cap. 7)



INTENTI
- Il mio futuro non contempla il matrimonio, per quanto bella e ricca possa essere la ragazza, non ho propensione  per l'intesa coniugale, e di certo la renderei infelice. La mia arte, d'altronde, non abbisogna di molto: uno spazio, gli arnesi per il lavoro, e le mie mani. E di tutto questo già dispongo. Riferite pure all'ottimo Scalavino che sono lusingato dalla sua proposta che però mi sento di rifiutare. E pregatelo che non l'intenda come uno spregio, che per altro sarebbe immeritato, sia nei suoi confronti che in quelli di sua figlia, ma di una mia congenita propensione alla solitudine. -

La risposta di Giandomenico aveva gelato l'allegria della tavolata e ricondotto tutti al silenzio.

- Rifiuti una così generosa proposta senza neppure aver visto la ragazza?-

- Il matrimonio non è mai stato nei miei progetti. Voglio prendere i voti, papà, e continuare i miei studi nella tranquillità di un monastero perché non sono tagliato per la vita sociale, né per il ruolo di capofamiglia -

- Sinceramente, vuoi farti prete per convinzione o per vigliaccheria?-

 Questa domanda era rotolata fuori dalla bocca di Mimì Messinese prima ancora che riuscisse a riagguantarla e formularla in maniera diversa, consapevole, dopo anni trascorsi nel commercio, dell'importanza della forma, e del tono, per portare a buon fine una trattativa.
Pratico nel linguaggio degli affari, di cui conosceva codici e codicilli, si muoveva agile su un terreno sperimentato dove pur sapeva, nonostante la sua timidezza endemica, destreggiarsi e farsi valere.
Ma ora quella domanda dal tono perentorio, inusuale per lui, ben volentieri avrebbe ritrattato per non mettere in difficoltà quel figlio che così tanto gli somigliava, nelle luci e nelle ombre, ma che a differenza di lui, però, possedeva il genio: fattore che annullava quelle loro supposte somiglianze.
Così avrebbe dovuto ricordarsi di non stare a trattare con una persona comune (che davvero Giandomenico non lo era) ma con qualcuno di rango diverso e superiore e le cui necessità differivano da quelle prevedibili dei comuni mortali, e armarsi di pazienza per convincerlo a valutare gli indubbi vantaggi della sua proposta, consapevole che quanto più facilmente quei benefici sarebbero risultati al primo sguardo evidenti alle intelligenze più spicce tanto più paradossalmente sfuggivano, proprio a causa della loro apparente banalità, alle menti più complesse.

Questa psicologia esercitata da Mimì Messinese nella sua professione non era piaggeria e neppure una raffinata tecnica coercitiva, ma aveva compreso che mai sarebbe stato uomo d'assalto e quindi, qual'ora avesse voluto conseguire risultati di un qualche successo nell'impervio campo degli affari, avrebbe dovuto avvalersi di altri metodi, più  morbidi e sofisticati, a lui più congeniali, cosciente che talvolta, per poter avanzare, strategicamente occorre rimanere qualche passo indietro.

 Mimì Messinese si presentava senza infingimenti: la voce pacata e quell'arrossire spontaneo che lo rivelava come uomo timidissimo e schivo, al limite del farfugliamento emotivo, una summa di complessi dietro cui si nascondeva, invece, un uomo perspicace e colto, ma che agli occhi impietosi dei compaesani s'evidenziava solo come una folcloristica macchietta.

Così s'era subito pentito di quella sua domanda irrispettosa, scaturita di getto proprio da lui che mai aveva tentato di metter qualcuno con le spalle al muro, ed ora, invece, facendosi latore di quella allettante proposta aveva, al primo diniego, sovvertito le sue stesse regole a danno proprio di quel figlio del quale conosceva i travagli psicologici da lui ereditati.


- Prendo i voti perché è l'unico modo per me di continuare ad esistere senza dover rinunciare a quello che sono e a quello che al mondo posso dare. Tenermi fuori dai vostri schemi mediante una mia scelta consapevole, e dichiarata, non mi sarebbe possibile, per cui l'unico modo che ho di vivere con coerenza la mia vita, e la mia arte, è quello di ritirarmi da quel palcoscenico dove, mio malgrado, sono stato trascinato, poiché non sarei capace di recitare in nessun altro ruolo se non in quello di me stesso. -
Giandomenico, con dolcezza, aveva ribattuto alla domanda provocatoria del padre.

- Pecchi di superbia, figlio mio -

- Al contrario, papà, è modestia, questa mia. E della più umile -

- E questa modestia t'impedisce di conoscer la ragazza in questione? -

- Il fine delle vostre aspettative non è solo quello di una conoscenza -

- Nonostante i diritti derivanti dalla mia autorità di padre non ti ho mai imposto nulla, Giandomenico, ma questa volta devo farvi ricorso per non far torto a Concetto Scalavino che s'è mostrato, nel corso degli anni, degno della mia stima e del mio rispetto. Oltretutto egli è il nostro principale fornitore del legno, e sempre ci ha favorito riservandoci un trattamento privilegiato. Lascerò a te decidere, ma solo dopo che avrai conosciuto la ragazza, altrimenti recheremmo un offesa troppo grande all'uomo che così tanto ci stima. -

- Non mancherò di rispetto al nostro fornitore rifiutando il suo invito a cena, ma non cambierò idea. -
Aveva ribattuto, in tono tranquillo, il giovane ebanista.



ALLEANZE
Concetto Scalavino e Mimi Messinese avevano instaurato, per via delle proprie attività, cordialissimi rapporti, circoscritti, però, all'interno dei rispettivi uffici, così quello sarebbe stato il loro primo incontro informale. Incontro a cui si sarebbero recati Mimì e Giandomenico Messinese, senza la scorta del resto della famiglia, con la motivazione ufficiale di una cena di lavoro.
Una discrezione, questa, che si sarebbe rivelata utile se per qualche malaugurato motivo la faccenda non fosse andata in porto.

Il mercante aveva organizzato una tavola sobria, di soli quattro coperti, che a quella cena non avrebbero presenziato né la moglie demente e neppure Gemma, addetta alla sua custodia. 
Sorvegliata e sorvegliante sarebbero state relegate nella stanza più lontana da quella dove si sarebbe
svolto l'evento.


Concetto Scalavino avrebbe però dovuto dubitare della docile adempienza di entrambe le figlie ai ruoli da lui imposti per quella cena, piuttosto che intenderlo come un  ritrovato buon senso, seppur sotto minaccia.
 Un grave errore di valutazione questo suo cantar vittoria, che in realtà nessuna delle due aveva intenzione di assecondare quel suo disegno   

 Gemma, defraudata ed usata, s'era chiusa in una sorta di silenziosa impenetrabilità che
aveva reso lieve, come aria, il suo passo e il suo respiro. E la connaturata assenza di odore aveva contribuito a renderla eterea come una presenza ultraterrena, che se non fosse stato per la scia luminosa dei suoi capelli di lei non ci sarebbe stata alcuna visibile traccia.
Quanto più Gemma andava rendendosi invisibile tanto più Rebecca acquistava materialità non
cedendo e né indietreggiando davanti al cipiglio severo del padre, anzi, dominandolo con la  naturalezza del suo essere.
 Sotto quel suo sguardo, chiarissimo e diretto, Concetto Scalavino si sentiva a disagio, cosicché il più
delle volte era lui a battere in ritirata, con la sensazione che lei potesse leggergli  nel pensiero.
Questa suggestione lo faceva sentire vulnerabile e in un costante stato di all'erta.
Si viveva ormai in stato di guerra dichiarata, ognuno trincerato nella propria postazione e senza ipotesi d'armistizio.

Con la sua sensibilità istintiva, Rebecca, aveva però intuito che perseguire quell'atteggiamento apertamente ostile avrebbe avuto come conseguenza una repressione sempre più dura e più difficile da osteggiare.
Non si poteva espugnare una polveriera muniti solo di un coltellino.
Occorreva una strategia di alleanze.
E l'apparente remissività di Gemma e di Rebecca, quella sera era il risultato dell'alleanza clandestina, tacitamene concordata tra loro, anziché la vittoria dei metodi repressivi di Concetto Scalavino.


Era ben conscia, Rebecca, che a quella cena nessuno avrebbe recitato, neppure quel Giandomenico Messinese, l'introverso artista dalla buia aura, a lei destinato come futuro marito.
Di lui che si sapeva poco ma si mormorava molto.
Persino suo padre, che ora ambiva a diventarne il suocero, s'era lasciato sfuggire un qualche commento, talvolta impertinente e talvolta compassionevole, con mezze parole e con termini oscuri, cosicché lei pur nutriva una qualche curiosità nei riguardi di quell'ospite illustre e renitente, di cui era nota era la scarsa predisposizione all'intrattenimento e ai rapporti sociali.
Così immaginava che anche lui doveva aver subito pressioni tali da non potersi rifiutare di partecipare a quella cena che volentieri avrebbe disertato.

E questa congettura alquanto la rincuorava, intravedendovi possibilità di strategie alternative.
E forse perfino l'ipotesi di una loro futura alleanza.
Quella sera le veniva offerta la possibilità di stabilire un contatto diretto con lui e l'opportunità di agire in maniera più adeguata, dopo aver valutato quanto fosse consapevole del ruolo che in quella farsa gli era stato assegnato, per opporsi al disegno del padre.
Non aveva voluto porsi pregiudiziali nei confronti del giovane, cosciente che un giudizio affrettato, e privo di qualsiasi riscontro diretto, avrebbe potuto negativamente condizionarla da subito.
Aveva bisogno di tutta la sua obiettività per capire se il copione che ci si apprestava a recitare intorno a quella tavola sobriamente imbandita fosse opera di uno o più sceneggiatori.

 Così s'era predisposta a partecipare a quella cena svestita di ogni malanimo nei confronti di colui che le era stato designato come marito, indossando il suo abito più semplice e il suo sorriso più onesto.

Encomiabile questa strategia riduttiva di bellezza, messa in opera da una ragazza giovanissima, consapevole di voler lealmente condurre il confronto nel campo della ragione e non in quello della seduzione, che pur consente alle più dotate, e alle più scaltre, di ottenere facili vittorie.
Ma Rebecca, per sua natura, avrebbe rifiutato a priori una siffatta astuzia, l'equivalente della trappola di una buca profonda ricoperta di foglie, dove condurre, attraverso un ingannevole sentiero di petali di rosa, l'incauta preda, con lo scopo ultimo di farla cadere nel precipizio.

Troppo leale, Rebecca, per aspirare ad una vittoria ottenuta con l'imbroglio, non avrebbe però avuto alcuna misericordia se davanti alla sua offerta di uno scontro ad armi pari l'altro avesse ceduto alla tentazione dei colpi bassi.

 Rischio che istintivamente aveva presagito non avrebbe corso quando Giandomenico Messinese aveva fatto il suo ingresso nella sua sala da pranzo. E nella sua vita.

lunedì 5 agosto 2019

Rebecca (cap. 6)



REBECCA, LA MUSA
Quella sera stessa, convocate entrambe le figlie nel suo studio, senza avvalersi di nessuna metafora e con tono inappellabile, le aveva edotte sul suo disegno: a Rebecca l'onore del matrimonio, a Gemma l'onere della madre. Scelta basata sulle qualità individuali e non su una preferenza affettiva, aveva precisato, che Rebecca, più disinvolta e intraprendente, s'era rivelata la più adatta a ricoprire il ruolo di moglie di un artista geniale ma introverso, e di cui lei sarebbe divenuta l'alter ego in quanto dotata di un carattere volitivo e molto risoluto, speculare a quello del futuro marito, meno brillante e più vulnerabile.
Poiché tale era Giandomenico Messinese, il giovane in questione, artista geniale ma dalla personalità opaca e inibito da una timidezza endemica, fattori per i quali, se lasciato solo a stesso, sarebbe stato destinato a rimanere incompreso. Ed incompiuto.
Stava offrendo, alla figlia minore, un matrimonio di prestigio e la certezza di entrare nell'olimpo delle muse.
Gemma, invece, durante il periodo del fidanzamento della sorella avrebbe dovuto continuare ad occuparsi della madre, controllarla e prevenirne le bizzarrie, soprattutto quando fosse stata ritenuta necessaria la sua presenza in pubblico. Presenza che sarebbe stata limitata solo alle occasioni ineludibili.
Aveva perfino considerato l'ipotesi di un loro soggiorno all'estero, ma che non era possibile, al momento, mettere in pratica senza destare domande lecite ma inopportune.
Un compito a termine, questo di Gemma, ma di vitale importanza, che s'aspettava venisse compiuto con intelligenza e diligenza, cosicché lo scandalo di quel giorno non si sarebbe mai più dovuto ripetere.
Avrebbe, da quel momento in poi, ritenuto Gemma responsabile di qualsiasi spiacevole accadimento riguardante la madre.

Entrambe lo avevano ascoltato in silenzio fino a quel punto finale che non ammetteva replica né dissenso, e col quale Concetto Scalavino riteneva conclusa quella sua informativa e s'apprestava a congedar le figlie con l'augurio della buonanotte, ritenendo le carte scoperte e i giochi conclusi, certo d'aver vinto, anche troppo facilmente, quella partita di cui ora doveva solo riscuotere la posta, quando Rebecca, con voce ferma, aveva detto: ma io non intendo sposarmi.
Il giocatore Scalavino aveva avuto dapprima un sussulto e poi aveva battuto un pugno sul tavolo facendo crollare quel suo castello di carte che s'era ingegnato ad innalzare e che, per un momento, aveva ritenuto inespugnabile.

- Non mi sposo, e non capisco su che basi abbiate potuto fare questi vostri calcoli senza chiedere la mia opinione. Il matrimonio non rientra nelle mie ipotesi di futuro, piuttosto scalerei il monte Olimpo per mio piacere personale, in abiti comodi e a me più congeniali, anziché in quelli teatrali di una musa. Il mio compito, dunque, secondo voi, sarebbe quello di spianare la strada ad un marito geniale ma incapace di riscuoter simpatie, mettermi al servizio delle sue necessità e di quelle della sua arte. E a quelle del vostro smisurato ego. Non mi sposo, prendetene atto e mettetevi il cuore in pace. Che padre siete a pretendere d'imporre ad una figlia il ruolo di moglie e all'altra quello d'infermiera, senza tener conto dei nostri sentimenti? così come di quelli della mamma che voi avete contribuito, col vostro cinismo esistenziale, a ridurre alla follia.-

- Non ti permetto di parlarmi in questi termini! La mia autorità...-

- La vostra autorità non vi dà il diritto di decidere della nostra vita.-

- Sei mia figlia e dipendi da me, in tutto e per tutto. Non dimenticarlo!-

- Dipendo da me stessa e da voi meno che da chiunque altro. Non farò la fine delle mie sorelle o, peggio ancora, di mia madre. Cosa potete farmi? Diseredarmi? Accomodatevi! Picchiarmi? Vi consiglio di non farlo. E non perdete neppure tempo a convincermi perché la mia decisione l'ho presa nel momento stesso in cui sono stata partorita. No, non c'è nulla che potete fare per piegarmi al vostro volere. Fatevene una ragione, papà!-

- Fatevene una ragione, papà. -
Glielo aveva di nuovo sussurrato all'orecchio dandogli il bacio della buonanotte.
Un bacio che bruciava come uno schiaffo.


GEMMA, LA GUARDIANA
Gemma, invece, non aveva proferito parola, né mosso un passo né fatto un gesto: impietrita, aveva seguito con lo sguardo Rebecca lasciare la stanza e ora che lei se ne era andata quel suo sguardo cercava, inquieto e smarrito, un punto su cui soffermarsi, consapevolmente evitando di guardare verso il padre che, con le labbra serrate e i pugni stretti, tremava di rabbia a stento repressa.
Di quell'ira non esplosa la stanza era satura e lei l'aveva respirata tutta in attesa della deflagrazione che però non era avvenuta nemmeno quando, d'istinto, s'era sottratta al tentativo di una carezza.
Un insulto quella carezza: un subdolo abboccamento a stabilire un'accordo, un'alleanza segreta e, forse, una redistribuzione dei ruoli.
Raggelata e stordita Gemma s'era rintanata nel profondo recondito di se stessa, lontana dalla realtà devastante di quel momento, preda di un'indicibile stupore per quell'umiliazione appena subita, lottando contro le lacrime che orgogliosamente ricacciava indietro.

Le ragazze Scalavino non erano avvezze alle lacrime che pur sono, secondo l'occasione, sintomo di gioia o di dolore, non avendo avuto nella loro ancor giovane, e troppo solitaria vita, vere occasioni per sperimentare la pienezza dei due opposti, ragion per cui se necessariamente s'erano fatte le ossa all'indifferenza affettiva di certo erano delle sprovvedute riguardo la valutazione soggettiva di queste due nuove materie, (nello specifico, il dolore) scoprendo, all'improvviso, la brutalità dei sentimenti e l'impatto emotivo. E le conseguenti reazioni.
Rebecca s'era opposta al progetto del padre con uno stupefacente, provocatorio, savoir fair: l'equivalente di uno sputo in faccia lanciato con eleganza ed ottima mira.
Gemma, invece, era rimasta stordita, in balia di sensazioni sconosciute e dolorose, dove su tutte, però, predominava quella dell'umiliazione infertale da quel padre che s'era dimostrato affettuoso solo per opportunismo.
Totalmente estranea all'ipotesi di un suo ruolo in quel progetto nefando, mai avrebbe accettato di esserne asservita soprattutto in qualità di vittima sacrificale. E consenziente.
Iniziava, però, a penetrare i sottili meccanismi di quella manipolazione basata sull'inganno, cinicamente messa in atto da quel padre che, se con una mano elargiva carezze, nell'altra aveva pronto il guinzaglio.


Concetto Scalavino, anche se sconcertato dall'atteggiamento delle figlie, era fermamente deciso a realizzare il suo progetto, riconducendo tutto ad una mera questione di metodo, sicuro che nelle sue figlie il buonsenso, adeguatamente sollecitato dal suo pugno di ferro, sarebbe alla fine prevalso
S'era imposto di mantenere la calma, che le redini a guidar la pariglia ribelle erano salde nelle sue mani, cosicché imporre loro la sella era solo questione di tempo, ma alla fine ci sarebbe riuscito, che mai nessun puledro, per quanto recalcitrante fosse, l'aveva mai avuta vinta su un fantino munito di briglie e di speroni.
E comunque informandole sulle sue intenzioni un primo passo lo aveva compiuto.

Quella sera, attraversando il corridoio che conduceva alle camere da letto aveva notato che l'uscio della stanza di Rebecca, dove la luce era già spenta, era ostruito dal cane di casa, apparentemente addormentato, ma che al suo passaggio aveva digrignato i denti ed emesso un ringhio sordo.
Anche dalla porta socchiusa della camera di Gemma non filtrava alcuna luce e, sbirciando all'interno, Concetto Scalavino aveva constatato esser vuota.
Illuminata, invece, era la stanza della moglie che farneticava a voce alta.
Ma non era sola: la voce di Gemma, paziente e decisa, si sovrapponeva alla sua a rassicurarla che mai avrebbe permesso all'uomo nero di salire in cielo e spegnere le stelle.
Scalavino a quella scena aveva sorriso, congratulandosi con se stesso per aver favorito quel legame in cui Gemma, comunque, si dimostrava coinvolta.



Anche Mimì Messinese, dal canto suo, s'era predisposto quella stessa sera a dar la notizia ai suoi dell'ipotesi di un matrimonio tra Giandomenico e Rebecca, presentandosi a casa con un enorme vassoio di dolci, nonostante fosse giovedì, in anticipo di ben due giorni su quello che costituiva da sempre il rito celebrativo della domenica.
Quell'innocente trasgressione aveva causato un allegro trambusto, scatenato interrogativi e supposizioni circa l'avvenimento da festeggiare, e ai quali lui, insolitamente loquace, si divertiva a fornire elementi fuorvianti, immaginifici, così da poter giungere al termine della cena con la sorpresa ancora intatta, che avrebbe rivelato al momento del dolce e prima del bicchiere di Marsala.

- La novità riguarda te, Giandomenico, e la possibilità di matrimonio con la figlia minore del nostro fornitore per il legname, Concetto Scalavino. La ragazza è molto bella ed è un buon partito, e il tuo futuro suocero ha davvero grande stima di te. Hai davanti un destino luminoso, ma non sei ancora affermato, e le incognite nel campo dell'arte, soprattutto in quello dell'ebanisteria, sono troppe: lo sappiamo bene noi che abbiamo visto nella nostra famiglia così tante ascese e così tante cadute. L'ingente dote matrimoniale della tua futura moglie ti garantirebbe quella tranquillità esistenziale con cui tu potrai approfondire i tuoi studi e maturare il tuo talento, preservandoti da ogni compromesso e rendendoti libero nelle tue scelte. -

Detto questo, Mimì Messinese s'era sentito d'aver espletato, nel migliore dei modi, un compito alquanto difficile, perché con quel figlio, che pure tanto gli somigliava nel carattere, non vantava alcuna intimità. Ma si capivano allo sguardo e si muovevano all'unisono, e questo aveva cementato il loro rapporto anche senza il collante della confidenza.

Si sentiva soddisfatto di questo discorso a braccio, privo di preamboli e virgolettati, che dai suoi era stato accolto all'inizio con un  silenzioso stupore e poi con esplosioni di gioia nei riguardi di Giandomenico e della sconosciuta Rebecca.

venerdì 2 agosto 2019

Rebecca (cap 5)


CONFIDENZE PATERNE
Concetto Scalavino s'era reso conto d'aver ecceduto quando aveva visto Mimì Messinese terribilmente sbiancare e flettere le ginocchia e, se di riflesso non l'avesse prontamente sostenuto, di  certo sarebbe stramazzato a terra.
Mimì Messinese, la fisionomia stravolta, boccheggiava in carenza di aria e di parole, tant'è che il commerciante aveva temuto un attacco di cuore, e già manovrava a slacciargli il colletto quando l'altro, svincolandosi da quel contatto, lo aveva respinto con le sue deboli forze.
Il buon senso lo aveva indotto a rispettar la distanza imposta e nel frattempo elaborare una strategia per uscire dal cul de sac in cui s'era andato a cacciare.
Mimì Messinese s'era accasciato su una sedia, il volto coperto dalle mani e le spalle scosse da singhiozzi, rattrappito su se stesso, imbambolato, incapace di una parola o di un gesto di rabbia, tant'è che Concetto Scalavino s'era già avviato alla porta convinto d'aver compromesso non solo il suo piano ma pure i rapporti col suo più illustre cliente, quando questi, invece, inaspettatamente gli aveva chiesto di rimanere.

Che suo figlio non riscuotesse simpatia lo sapeva: troppo timido e troppo insicuro, non riusciva a mostrarsi nel verso giusto, tant'è che spesso aveva dovuto presenziare, in sua vece, anche ad eventi importanti, come ultimamente era accaduto con monsignor Galimberti, l'inviato di Sua Santità, perché Giandomenico era stato colto da una febbre improvvisa, causata dall'ansia e da quella sua sensibilità così esasperata.

- Sensibilità d'artista. -
Aveva sottolineato, con solennità, l'altro.

- D'artista, lo sappiamo io e voi, ma il popolo no. Per la gente Giandomenico è un arrogante, uno schizzinoso, ed ora, dalle vostre parole, anche un depravato. Ma, se  fosse stato vero, Sua Santità gli avrebbe forse commissionato un incarico così prestigioso?-
 A quest'accorato interrogativo, Concetto Scalavino, aveva scosso il capo in segno di diniego e ribattuto con convinzione: chiacchiere maldicenti a cui non dovete prestare orecchio. Il popolo si sa è per natura invidioso e se prende in antipatia diventa anche maligno. Don Mimì, Giandomenico è un grande artista, e dovete essere fiero di lui. E' questa l'unica verità in cui dovete credere.
.
- Fiero lo sono, ma so anche che un talento come il suo avrebbe abbisognato di spalle più forti e di un carattere più prepotente. -
L'altro aveva sospirato afflitto.

- Una moglie, Don Mimì, è quello che ci vuole per Giandomenico. Una giovane accorta e di carattere,  capace di fare i suoi interessi e di sostenerlo. Ricca, perché un artista deve occuparsi solo della sua arte e non essere afflitto da quisquilie, e problemucci materiali, come qualsiasi altro mortale. E bella, perché la bellezza ispira poesia e un artista vive di poesia. Una moglie metterebbe a posto molte cose. La nascita di un figlio, poi, farebbe zittire le malelingue e donerebbe serenità al nostro artista. -
Aveva controbattuto, deciso, Concetto Scalavino.

- Una moglie...ma chi? Giandomenico non ha mai palesato l'intenzione di sposarsi né mostrato interesse per nessuna delle giovani di nostra conoscenza. E' così chiuso. Impenetrabile come un riccio.-
Aveva ribadito sconfortato il Messinese.

- Eppure ci sono donne capaci di trasformare gli aculei del riccio in dita gentili. La mia figlia più giovane, ad esempio, appartiene alla specie. Odora di femmina, Don Mimì, un profumo da risvegliare i sensi ad un morto, ed un caratterino da far rigar dritto i vivi. -
Gli aveva rivelato con un sorriso.
- E' una confidenza, questa mia, che solo a voi mi permetto di fare, da padre a padre, dettata dalla stima incondizionata che nutro per voi e per la vostra famiglia, e per Giandomenico in particolare, che merita il meglio del meglio. Ed è proprio quello che oggi, tramite voi, gli sto offrendo. -
Aveva concluso la sua arringa finale con una mano sul cuore, a testimoniare l'onestà delle sue affermazioni.

Mimì Messinese, ancora frastornato, aveva però trovato il coraggio di chiedere: ma voi cosa ci guadagnate in tutto questo?

- L'onore grande d'apparentarmi con voi! -
 Aveva risposto, con convinzione, Concetto Scalavino.


Per il commerciante le cose si stavano avviando nella giusta direzione dal momento che il Messinese non  solo non aveva rifiutato la sua proposta ma, anzi, se ne era dimostrato perfino grato.
Sapeva, Concetto Scalavino, di averlo ora in pugno e che neppure serviva stringere troppo la presa, e così, molto accortamente, aveva disserrato le dita e aperto il palmo affinché l'altro si sentisse fiducioso e a proprio agio. Confortato.

Mani capaci, con le quali aveva materialmente costruito il suo impero e sul quale, finalmente, avrebbe fondato la sua dinastia attraverso il matrimonio morganatico tra la sua piccola "regina in miniatura" e il giovane artista ieratico.
Unione, i cui discendenti, avrebbe avuto il suo stesso sangue e il suo cognome.
 Clausola, questa, che era stata accettata dal Messinese che nutriva altro genere di sensibilità, e quella d'insignire i futuri discendenti anche del cognome materno, gli era sembrato un innocente egocentrismo, che l'usanza del cognome doppio, triplo o a cascata, era un vezzo in uso in molte famiglie di rango a testimoniare il lustro delle parentele acquisite.

Se per Concetto Scalavino l'unione tra Rebecca e Giandomenico significava l'inizio della realizzazione del suo sogno di grandezza, per Mimì Messinese, invece, sarebbe stata la fine delle maldicenze su suo figlio. Non s'era pienamente reso conto, fino a quel momento, di quanta stanchezza ed amarezza aveva accumulato nel corso degli anni per via degli inganni consapevolmente subiti, delle ipocrisie accettate, dei bisbigli e dei silenzi repentini, delle strette di mano fuggevoli e delle occhiate irridenti.
Ora, finalmente, tutto questo sarebbe cessato.

Con questa certezza s'era avviato verso casa, a passo spedito e le spalle erette, di nuovo in sintonia col mondo, che gli pareva di esser rinato e avrebbe spontaneamente, lui così schivo, condiviso quella sua emozione con chiunque, che pur era così evidente quel suo inedito stato di grazia, leggibile sulla sua bocca che non smetteva il sorriso, e nel piglio deciso con cui affrontava la strada.
Mimì Messinese captava gli sguardi, frontali e trasversali, in modo nuovo, tant'è che nessuno, tra quelli incrociati, gli era parso canzonatorio o irrispettoso o, peggio ancora, di disprezzo.
Gli sembrava che la Sicilia intera fosse al corrente dell'imminente matrimonio, che è risaputo che le notizie corrono, anche quelle non ancora annunciate, figuriamoci questa sua già formalizzata nei dettagli.
Così non si sarebbe affatto meravigliato se qualcuno lo avesse fermato per congratularsi delle nozze future.

Mentre un rinato Mimì Messinese, soavemente imbaldanzito, s'avviava celere verso casa per compartecipare i suoi alla lieta novella, Concetto Scalavino, invece, volutamente ritardava  il rientro, inoltrandosi su stradine secondarie e poco frequentate, per avere il tempo d'imbastire argomentazioni convincenti da poter far digerire ad entrambe le figlie quella sua decisione, presagendo che non sarebbe bastato il pugno di ferro per imporsi ma che avrebbe piuttosto dovuto predisporsi alla pazienza, per far sembrare gustosa quella pietanza che solo il cuoco trovava appetibile.


UN SEGRETO DI FAMIGLIA
Rientrando aveva invece trovato lo scompiglio, con la moglie che, eludendo la sorveglianza di Gemma, aveva scalato un alberello tra i cui rami s'era appollaiata, con il retino in mano, per la consueta caccia alle stelle.
Legato alla catena, e rischiando a tratti lo strangolamento, il cane lascivo abbaiava impotente e rabbioso, con acuti lancinanti e prolungati, che avevano richiamato un manipolo di cani randagi che premevano alla cancellata con la forza disperata dei loro muscoli denutriti.
Quel trambusto aveva finanche attirato l'attenzione della serva sordomuta che sbirciava dall'uscio della cucina, mentre Rebecca, la gonna avvolta sui fianchi, s'apprestava con agilità d'acrobata a scalare l'alberello dove la pazza s'era rintanata con l'intento di assaltare entrambi i carri dell'Orsa.
Gemma, nel frattempo, s'era munita di uno specchio attraverso cui convogliava i fragili raggi del sole a tramonto fra le intercapedini dei rami più bassi con lo scopo di creare l'illusione di stelle cadenti, e indurre la madre a scendere dall'albero.
 E ben aveva assolto al compito quell'ingannevole luminescenza,  che già la pazza si predisponeva alla discesa, incurante dei graffi inflitti dalle fronde, impavida ed incosciente, non si curava a saggiare la consistenza dei rami a cui s'affidava nella discesa, cieca al pericolo e sorda alle voci che da basso l'incitavano di fare attenzione, indirizzandola, come se lei fosse dotata di una qualche ragionevolezza.
Nell'eccitazione del gioco, però, aveva mancato la presa di un ramo e di certo, sarebbe precipitata se Rebecca non l'avesse prontamente afferrata per un braccio.
...e ancora, sospesa nel vuoto, continuava a scalciare e a reclamare, con voce di bimba, il retino che aveva perduto.

La muta dei cani randagi, che mai aveva smesso di ringhiare, aveva impedito ai curiosi d'avvicinarsi al cancello.
Una fortuna questa, che lo scandalo della moglie vaneggiante, appesa nuda a un ramo, assolutamente doveva rimanere circoscritto al perimetro interno del giardino.
Tranne  le due figlie, e la serva sordomuta, non c'erano altri testimoni oculari.
Non era questo il momento che quel segreto famigliare divenisse pubblico.
Non ora, con un matrimonio imminente e la gloria a portata di mano.
Questo rifletteva assistendo alla scena all'esterno dello steccato, Concetto Scalavino, mentre Gemma, con una coperta in mano, correva a prestare soccorso alla madre e alla sorella.
Oltretutto questa vicenda gli forniva lo spunto per mettere al corrente le figlie del suo progetto, e senza far ricorso alla diplomazia, riguardo al ruolo che da quel momento avrebbero dovuto rivestire.