Dedico questo blog a mia madre, meravigliosa farfalla dalle ali scure e dal cuore buio, totalmente priva del senso del volo e dell'orientamento e, per questo, paurosa del cielo aperto. Nevrotica. Elusiva. Inafferrabile.

martedì 9 ottobre 2018

Anatomia di un racconto: I libri dei defunti



Canone a due voci
Lo stile di questo racconto, didattico e leggermente pedante, non è casuale ma una scelta precisa per configurare, fisicamente e caratterialmente, i profili del padrone di casa e della giovane donna interessata all'appartamento.
I due protagonisti si esprimono in un  linguaggio classico e i dialoghi denotano affinità, interessi comuni e la stessa visione del mondo. Immaginiamo anche l'appartenenza alla stessa classe sociale.

Lui, il padrone di casa, potrebbe essere un professore (un avvocato o un dottore) a fine carriera, forse già in pensione. Un uomo colto, che coltiva l'etica e le buone maniere. Un gentiluomo.
 Un uomo forse non dotato di una fantasia eccessiva ma capace di cogliere nelle sfumature il nucleo  originale del colore. Un lettore dalla cultura umanistica per il quale i libri non sono semplici oggetti ma soggetti, sentinelle della cultura e custodi della memoria. E su questo fondamento quella stravagante collezione acquisisce un valore universale, perché ogni libro contiene la sua storia originale e le infinite altre che da questa sono derivate, e tutte le altre, non ancora scritte, che ne conseguiranno: una genesi letteraria. La stanza, completamente tappezzata di libri, è il fecondissimo utero da cui tutto genera, per poi espandersi, modificarsi, contaminarsi, mai però morire. La morte, intesa come stato definitivo, non esiste se si mantiene in vita la memoria. Ma pure su quella stanza, in ultimo, ne incombe la minaccia perché la figlia del padrone di casa non è interessata a rilevare quell'eredità. Nè a perseguire la missione.

Lei, la ragazza, la immaginiamo vestita in maniera sobria, tinte chiare, tono su tono, i capelli legati a coda di cavallo o raccolti in uno chignon. Dettagli che descrivono una giovane dinamica, sicura di sé, che non necessita di fronzoli aggiuntivi per sentirsi a posto.
Forse una studentessa in procinto di dare la tesi, che noi immaginiamo conseguirà col brillante risultato di centodieci e lode. Una ragazza matura, fornita di un solido bagaglio culturale, comprensivo di principi etici e morali ed indirizzo politico. Consapevole delle sue scelte, si muove in un mondo che non la contrasta. E nella sicurezza delle sue certezze. Affascinata dalla scoperta di quella stanza, sinceramente coinvolta dal racconto delle storie dei defunti, stabilisce da subito un feeling col padrone di casa. La ragazza è un'ascoltatrice davvero interessata, non interrompe mai il racconto dell'uomo con domande o riflessioni che potrebbero spezzarne il filo. O deviarne il corso.
Si lascia guidare da lui all'interno della stanza così come all'interno delle storie. Indirettamente, e con discrezione, si propone come sostituta della figlia a rilevare il testimone e continuare lei la  missione. A riprova che non è la consanguineità a renderci affini ma, piuttosto, l'identica visione della vita.
In ultimo, sarà ancora lei a proporre la soluzione più idonea attraverso cui usufruire del lascito testamentario rispettando le rigide norme che ne sanciscono l'uso: in viva voce e senza l'ausilio di supporti  meccanici, per stabilire un rapporto intimo tra chi racconta e chi ascolta.
You Tube, è la soluzione al problema, di cui il padrone di casa, uomo di altri tempi, ne ignora l'esistenza.
You Tube è il nuovo che non fagocita il vecchio, anzi ne diventa prezioso supporto e strumento di sopravvivenza: l'umanesimo applicato alla tecnologia, perché senza la filosofia umanistica i software, così come gli algoritmi, sono solo stupide macchine, perfino pericolose.

Canone Inverso
Mafalda Ferrante (Sorrento1775 - 1817) e Attilio  Rossetti( Blevio 1901 - Menaggio 1944) nati in epoche diverse, separati da uno spazio temporale di 126 anni, di fatto non si sarebbero mai potuti incontrare se non in quella stanza e su quello scaffale, opportunamente predisposto a mò di panchina, dal vecchio e romantico collezionista di libri (il padre di quel cortese padrone di casa di cui abbiamo fatto la conoscenza nella prima parte di questa storia).

 Immaginiamo ora seduta su quella panchina, sullo sfondo di una mattinata estiva, una giovane donna molto graziosa che indossa un abito leggero color rosa tea, ed è immersa nella lettura del libro di Jane Austen, "Orgoglio e Pregiudizio", al passo dove lizabeth Bennet con convinzione afferma che

solo il vero amore può condurmi al matrimonio, ragion per cui...morirò zitella *
ed alzando lo sguardo scorge, a pochi passi da lei, un uomo alto, vestito di scuro e col fucile in spalla, che la sta osservando.

poi

* Si trovarono a una ventina di passi uno dall'altra, e il suo apparire era così improvviso, ch'era ormai impossibile evitare il suo sguardo. Subito i loro occhi s'incontrarono e a ciascuno il viso avvampò del più intenso rossore *

 Attilio non riesce a staccare lo sguardo da quella donna scaturita da un'epoca remota a fargli dono della voce e del sorriso,, e ad interrompere per un momento il suo solitario cammino.
Avvedendosi del suo turbamento lei gli sorride invitandolo, con un gesto cortese, a sedersi sulla panchina.
- Non passa mai nessuno di qui che è un miracolo poter parlare con qualcuno. Per fortuna che esistono i libri. Senza di loro l'eternità risulterebbe intollerabile.-
Sospira, facendogli posto.
Lui la ringrazia con un buffo inchino.
- Siete gentile quanto bella - mormora lievemente impacciato, sedendole accanto.

 * Le donne credono sempre che l'ammirazione significhi qualcosa di più di quello che è in realtà *
Puntualizza, ridendo, Mafalda.

* L'immaginazione di una donna è molto veloce, salta dall'ammirazione all'amore e dall'amore al matrimonio in un momento *
 Attilio ribatte, divertito da quella schermaglia.

 * Lui se ne sentiva attratto più di quanto gli facesse piacere *

 Lui che non aveva avuto troppo tempo da dedicare alle donne e all'amore, e di quel poco accaduto nel suo passato ne ha perfino dimenticato il calore, ma che ora seduto accanto a Mafalda, estasiato, riscopre esistere.
 La morte solo apparentemente cancella il ricordo delle dolcezze della vita che, invece, ad onta di ogni più radicale pessimismo, viaggiano con noi, magari clandestine, ma pronte a riemergere alla prima sosta propizia, per recarci conforto e speranza.
 Attilio non ha avuto modo, fino a quel momento, di far quella sosta, e così ora, a questa fermata imprevista, tutte le dolcezze del mondo riemergono intatte col profumo della rosa tea che miracolosamente cancella l'odore del sangue, e il fumo degli spari.
Seduto accanto a lei, Attilio intuisce d'esser giunto alla meta, che quel suo lungo viaggio notturno termina su quella panchina calda di sole.
Mai più dovrà uccidere.
Mai più dovrà morire.
E' finalmente libero.

Libero di lasciarsi permeare dall'intensità delle emozioni. Dal calore dell'estate. Dal profumo della rosa tea.
Si è seduto e ha deposto il fucile ai suoi piedi, un simbolico atto di resa alla donna e alla pace, coinvolto nel gioco di quella scaramuccia verbale che li ha resi complici.

 * E' una verità universalmente riconosciuta che uno scapolo facoltoso senta il bisogno di prendere moglie. Per questo, appena un tale uomo appare all'orizzonte, tutte le famiglie del vicinato lo considerano proprietà legittima delle loro figlie in età da marito *
Sentenzia ora lui in tono scherzoso.

- Suppongo, allora, che voi siate scapolo ma...non direi facoltoso, almeno a giudicare dai vostri abiti.-
-  E voi siete una di quelle figlie in età da marito? -
- L'età l'ho superata ormai da un pezzo. La verità è che nutro una seria allergia al matrimonio, ragion per cui, come s'afferma in questo libro, morirò zitella -
- Il matrimonio non è indispensabile all'amore. L'amore vive d'altro, di momenti come questo, di questa panchina, del vostro profumo, del libro che state leggendo e di cui io non conosco la storia, ma che spero vorrete un giorno raccontarmi, se non avete fretta d'andare e se non c'è un altro che v'aspetta. -

Una composizione contrappuntistica
Nella musica classica, un canone è una composizione contrappuntistica che unisce ad una melodia una o più imitazioni che le si sovrappongono progressivamente. Entrano inoltre in gioco la distanza temporale tra ciascuna voce e il fatto che gli intervalli della seconda voce coincidano con quelli della prima, o vengano modificati in base alle esigenze della scala diatonica.
Un canone inverso fa muovere la voce conseguente in moto contrario alla voce antecedente. Ad esempio, se quest'ultima sale di una quinta, la conseguente scende di una quinta, e viceversa.

Così, su uno spartito immaginario, in questa seconda parte, ho intrecciato dialoghi scritti da me a brani, evidenziati dall'asterisco, tratti dal libro di Jane Austen "Orgoglio e Pregiudizio"
Mi piaceva l'idea di questa composizione contrappuntistica dove le storie si narrano a vicenda: da una lontananza remota la voce appassionata di Elizabeth diventa quella scanzonata di Mafalda, allo stesso modo il tono fiducioso di Attilio fa da contrappunto a quello più pessimistico di Darcy.

Storie che raccontano di altre storie, che s'intersecano e interagiscono, ipotesi che prendono forma, trame che s'evolvono in altro, alternativo o contrastante, dove nulla termina con l'ultimo capitolo e la frase finale può benissimo rappresentare l'inizio di un nuovo racconto.

E' anche un tributo, questo mio Canone Inverso, a Jane Austen, scrittrice che immensamente amo.

Particolarità
- Mafalda Ferrante, la prima delle protagoniste del mio racconto "I libri dei defunti" è nata nella stessa epoca e ha la stessa età anagrafica di Jane Austen (Sorrento 1775- 1817), e come lei muore a causa del morbo di Addison, senza essersi mai sposata.

"Un incontro, a raccontarla vera, non facile, che all'inizio pur c'era stata tra di loro una qualche incompatibilità determinata da entrambi da un certo ORGOGLIO e anche da un certo PREGIUDIZIO"
In questo inciso vi è il riferimento al romanzo della Austen "Orgoglio e Pregiudizio" da cui sono anche tratti i brevi dialoghi contrassegnati dall'asterisco.

- La data e i luoghi di nascita e di morte di Attilio Rossetti (Blevio 1901 - Menaggio 1944) sono quelli di un  partigiano realmente esistito e di cui ho incautamente smarrito l'identità.

I libri dei defunti


Entrai.
Era una stanza più lunga che larga, completamente tappezzata di libri che poggiavano su assi grezze  attaccate alle pareti.
Le assi partivano appena sopra il livello del pavimento, salendo verso il soffitto.
Gli unici varchi liberi erano la finestra e la porta.
Niente altro che libri posti in orizzontale e in verticale, in obliquo, pressati ed accatastati in bizzarre geometrie di volumi e accostamenti di colore.
Esaurito lo spazio verso l'alto, alcuni grossi tomi giacevano sul pavimento, sotto le assi più basse, quelle a livello di suolo.
- Nelle condizioni d'affitto troverà la clausola che questa stanza non può essere modificata. Liberamente può, invece, disporre del resto della casa -
- E' una collezione fantastica -
- Lieto che la pensi così. Abbiamo difficoltà ad affittare l'appartamento proprio a causa di questa collezione. Per la maggior parte delle persone è uno spreco di spazio e un ricettacolo di polvere, anche se questa camera rimane piuttosto appartata -
- A chi appartengono tutti questi libri?-
- A mio padre. Era un collezionista, non troppo esigente e alquanto fuori dagli schemi. Qui può trovare edizioni molto vecchie e altre molto dozzinali, ma tutte senza valore di mercato. Non ci sono rarità. Tutti questi libri hanno la particolarità di essere appartenuti a persone decedute. Mio padre leggeva i necrologi e si offriva di acquistare i libri del defunto qualora sussisteva la necessità di disfarsene. La loro particolarità è nell'essere appartenuti a persone morte -
- Perché solo di persone morte? -
- Gliel'ho detto che era un collezionista fuori degli schemi. Ogni libro è stato da lui personalmente visionato e medicato, ed infine, collocato fra gli innumerevoli altri. Qui tutto può apparire disposto secondo la casualità, ma in realtà vige una sua personalissima metodica di collocazione. Dei defunti, a mio padre, non gli interessavano solo i libri ma anche le loro vite: interessi, passioni, idiosincrasie. Tutto questo per creare poi sugli scaffali una giusta armonia finalizzata a favorire rapporti di buon vicinato. Questa stanza per lui, convintamente ateo, era un luogo sacro. Qui si entrava in silenzio e vi si sostava con rispetto. Ci passavamo interi pomeriggi. Era davvero coinvolgente il racconto di quelle vite reali che s'intrecciavano con storie assolutamente fantastiche da lui inventate per spiegarci la metodica del suo ordine.
Come quella del partigiano Attilio Rossetti e della signorina Mafalda Ferrante.

MAFALDA E ATTILIO
"Il rosso" (questo il nome di battaglia di Attilio Rossetti) era a capo di una brigata partigiana, quando una notte i fascisti fecero irruzione nell'accampamento e li ammazzarono tutti. Un tradimento di sicuro. Nessuno di loro aveva avuto il tempo di difendersi. Nessuno di loro l'aveva scampata.  "Il rosso" era morto  a 43 anni senza aver realizzato nessuno dei suoi sogni: quello della liberazione dal nazi fascismo e quello di visitare l'Africa. L'Africa di Hemingway, però, quella de "Le nevi del Kilimangiaro". Ci teneva a precisarlo, restringendo ulteriormente il campo all'incipit che lo aveva stregato:
"vicino alla vetta occidentale c'è la carcassa rinsecchita e congelata di un leopardo. Nessuno ha saputo spiegare cosa cercasse il leopardo a quell'altitudine"
Lui avrebbe scalato il Kilimangiaro e dato risposta a quell'interrogativo. Appena finita la guerra sarebbe partito. Quella sarebbe stata la sua missione di pace.
Mafalda Ferrante era morta a 41 anni colpita dal morbo di Addison, una malattia rara per la quale nel 1817, anno della sua morte, non esisteva diagnosi né cura. Mafalda coltivava velleità di scrittrice e sogni d'indipendenza in un'epoca in cui le donne erano, in tutti i settori societari, subordinate agli uomini. Non s'era mai voluta sposare, anche se le era capitato d'innamorarsi. però mai così follemente da rischiare la sua libertà. Cosi aveva fatto sua la frase del poeta tedesco Friedrich  Holderlin "ti amo, ma la cosa non ti riguarda" e su questa aveva basato la sua filosofia esistenziale e la trama dei suoi racconti, dove le protagoniste erano giovani donne intellettualmente emancipate che anelavano
all'affermazione personale da realizzarsi senza la fede nuziale e senza la protezione di un uomo.
Poter vivere della propria penna: era a questo a cui Mafalda aspirava. Un sogno difficilissimo da realizzare per le donne della sua epoca, ancor di più per quelle come lei nate nel sud del mondo.
I suoi racconti, una raccolta di quaderni dalla copertina rosa tea e mai pubblicati, avevano infine trovato in mio padre, lettore attento e sensibile, una platea simbolica e corrispondente.
Attilio e Mafalda, anime ribelli e di gran temperamento, vissuti a distanza di un secolo mai si sarebbero incontrati, neppure in quello stesso Paradiso, straordinariamente vasto e sovraffollato, dove ad entrambi era stato concesso diritto d'asilo.
Ma quell'incontro s'era alla fine realizzato sullo spazio ristretto di quello scaffale. Un incontro, a raccontarla vera, non facile, che all'inizio pur c'era stata tra di loro una qualche incompatibilità determinata da un eccesso di orgoglio da parte di lei e da un certo pregiudizio da parte di lui.
Non era stato il classico colpo di fulmine a farli innamorare ma quella gragnuola di scaramucce che pure aveva messo in evidenza le loro affinità prima ancora che le loro diversità. Avversari leali e poi amanti appassionati.
Ma per loro, concludeva mio padre, niente matrimonio!

Storie tristi, divertenti, bizzarre. Incredibili, ma tutte profondamente umane. Da mio padre, amorevolmente interconnesse tra loro. Che se in vita si è costretti alla guerra nella morte si riscopra finalmente la pace, amava ripetermi. E come non dargli ragione? La sua missione era quella di favorire tra i defunti rapporti di buon vicinato. Rasserenare la loro memoria e quietare i loro ricordi per  ristabilire l'equilibrio emotivo, che non è solo faccenda dei vivi il cercare la pace. Come era stato per Edvige Levantini e Franco Serra. Mi aveva detto indicandomi uno scaffale dove diversi spartiti musicali poggiavano su due grossi tomi di medicina chirurgica e una copia, piuttosto vissuta, di "Viaggio al termine della notte" di Celine ". 

EDVIGE E FRANCO
Edvige, nata nel 1919, era una giovane, promettente soprano. Bellissima, colta e raffinata, aveva sposato, contro il volere della famiglia, un oscuro violinista, quello che oggi potremmo definire un musicista di strada, di quelli che suonano all'angolo di una via o all'ingresso della metropolitana. Violinista scadente ma convincente affabulatore. L'aveva prima stregata e poi manipolata. Lei perdutamente innamorata anelava per lui un successo più grande del suo, che stentava ad arrivare. S'era allora prodigata per fargli avere un contratto nell'orchestra del teatro dove si sarebbe dovuta esibire, ottenendo solo gentili ma decisi rifiuti, dovuti all'inesistente talento di lui, che pure mal digeriva la popolarità crescente della moglie, che perfino il cinema la richiedeva.
Lei aveva cercato di farlo partecipe del suo successo, offrendogli il ruolo di manager, che lui sdegnosamente aveva però rifiutato. Proposta generosa ma ingenua, quella di Edvige, che un egocentrico, per di più esasperato e al contempo umiliato dal successo prorompente della moglie, mai avrebbe accettato l'oltraggio del dietro le quinte. Così, per stupida ripicca, s'era industriato a renderle la vita difficile, ostacolarla con miseri espedienti o in maniera plateale. Fino a quando lei stremata  aveva minacciato di lasciarlo. Lui allora l'aveva uccisa tagliandole la gola. Edvige aveva solo 32 quando aveva smesso per sempre di cantare.
Franco, invece, nato nel 1976, era stato medico chirurgo di un piccolo ospedale di provincia e cooperante di Emergency, e proprio durante una missione umanitaria a Kabul aveva perso la vita a 39 anni, scivolando su una mina anti uomo. Aveva amato la vita con la stessa intensità con cui aveva odiato la morte, con un'ostinazione quasi eroica nel contrastarla che rasentava il fanatismo.
Era questa sua peculiarità che s'imponeva, come una virtù distorta, su tutti gli altri suoi pregi, cosicché di lui si ricavava l'impressione malevola di un fondamentalista,o quella appena un pò più benigna di un sognatore depresso. Opinione stabilita dall'umore, dalla cultura e dall'ideologia di chi lo stava giudicando. Ma lui se ne era sempre disinteressato di come il mondo affrettatamente lo aveva  etichettato, pur essendo consapevole che questo giudizio di primo impatto creava una distanza. Distanza che Franco quasi mai si curava di colmare, non per indifferenza ma per la necessità di preservare le proprie energie per confronti ben più ardui, come quello quotidiano con la  morte.  Questo suo atteggiamento era preso come scostante, tipico di chi si sente superiore al resto del mondo. Un comportamento, questo, non conforme con la sua missione. Ma questa distanza spariva negli ospedali da campo dove si operava con mezzi di fortuna, tra il fumo degli spari e quello delle macerie. Là ci si aggrappava gli uni agli altri, quelli col bisturi in mano e quelli stesi sulla lettiga. Ci si ritrovava. Ci si riconosceva. Non c'erano fraintendimenti.

Edvige e Franco, al margine di quello scaffale, s'erano trovati e riconosciuti. Lei con la sua cicatrice evidente sulla gola e quella più profonda nascosta nel cuore. Lui naufrago in un deserto di fumo e di detriti, e con addosso l'odore della morte. Lo stesso che pure emanava da lei, solo più dolce, più mansueto. Un odore addomesticato, che anche la morte è permeabile alla bellezza e in qualche modo la preserva. S'erano riconosciuti all'odore prima ancora che alla vista. E poi al tatto, che quando la cicatrice profonda di Edvige aveva cominciato a sanguinare le dita sensibili di Franco l'avevano tamponata e poi sanata. Lei aveva ritrovato la sua voce e lui la ragione delle sue scelte.
S'erano innamorati in silenzio, senza mai pronunciare la parole amore.

Eppoi c'è Maya, l'ultima arrivata, quella alla quale mio padre era più devoto. Mi aveva detto guidandomi verso l'unica finestra sul cui ripiano poggiava un diario scolastico dalla copertina dai colori fluorescenti che rifrangevano la luce in spicchi d'arcobaleno. Accanto, in un allegro disordine,  tutta la serie  de "I racconti del Vampiro", un grande numero di romanzi dark, "Cime tempestose" della Bronte" e "Grandi speranze"di Dickens.

MAYA
 Letteratura classica e contemporanea e un diario di scuola, questa la brevissima biografia di Maya, il cui cuore inspiegabilmente aveva smesso di battere a soli 17 anni. Sindrome di Brugada, che con la morte, pure quando dispone di un nome mai ci si famigliarizza, anche se riconosco che questo suo è un tentativo che merita rispetto, aveva detto la mamma di Maya la prima volta che aveva visto la stanza e disposto sul davanzale della finestra il fagottino dei libri appartenuti a sua figlia. Qui c'è una bella luce, adatta per leggere, aveva poi aggiunto. E prima di andar via aveva chiesto, cosa racconterà di Maya? Diciassette anni non bastano neppure alla stesura di un racconto breve. Non è la lunghezza del capitolo a stabilire l'importanza del racconto, le aveva risposto mio padre. E così lei era tornata a raccontare di Maya, attraverso i caratteri minuscoli dell'infanzia e quelli macro dell'adolescenza. Allungava il racconto con dovizia di particolari e sfumature, per ritardare lo spazio bianco dell'ultimo capitolo. Non erano inopportune confidenze quelle intime rivelazioni sulla vita di Maya che lei andava facendo a mio padre, ma le raccomandazioni di una madre in procinto di affidare la propria figlia a qualcun altro, con l'elenco dettagliato delle cose che a lei piacciono, quelle di cui ha assolutamente bisogno, ed anche quelle sui cui è sacrosanto non dargliela vinta. E' tornata ancora qualche altra volta per completare il racconto con quelle minuzie che andava via via ricordando, ma che per lei erano straordinariamente importanti perché riguardavano Maya, e se avesse potuto ricordare avrebbe raccontato ogni minuto di quei suoi diciassette anni, e mio padre ne avrebbe religiosamente preso nota. E lei lo aveva capito. Sapeva che di lui poteva fidarsi, che l'avrebbe amata e protetta. Sapeva che Maya in quella stanza era al sicuro. L'ultima volta che è venuta è rimasta tutto il tempo in silenzio. Prima di andar via ha stretto la mano a mio padre e lo ha ringraziato.
 Non è più tornata.

- Racconti affascinanti. Storie incredibili. Meravigliose. Suo padre avrebbe dovuto scrivere un libro perché il mondo dovrebbe sapere dell'esistenza di questa stanza.  Ed ora è lei a curare la collezione?-
- Io, anche se presumo che con la mia morte tutto questo finirà in un macero. Ho provato a coinvolgere mia figlia, ma non è interessata. Colpa mia, forse non sono un buon narratore -
- E se raccontasse a me le storie dei defunti?  Potremmo registrarle. -
- Niente meccanica, diceva mio padre, le storie vanno tramandate oralmente, meglio ancora vis a vis, perché i morti per tornare a vivere hanno necessità di uno sguardo e di una voce. Un nastro di registrazione li renderebbe anonimi, irrevocabilmente morti -
- Un modo c'è per non disperdere questo prezioso patrimonio e farlo conoscere al mondo rimanendo fedeli alle regole stabilite da suo padre: ha mai sentito parlare di YouTube?

giovedì 4 ottobre 2018

Delia


(Pubblicato nell'antologia "Ti racconto la donna" da "Writer Monkey.it" Dicembre 2018)


LA DISTRAZIONE DI UNA VIRGOLA

La storia di Delia nasce per un fortuito caso dalla distrazione di una virgola che avrebbe dovuto, invece, all'interno di una corretta punteggiatura, esser punto.
O meglio, quella virgola, in origine, era un punto nato con un sottile sbafo che fuoriusciva dal rigo, ingannevole alla vista, così da esser scambiato per una virgola, segno ortografico che anziché chiudere un discorso lo prosegue.
Senza quello sbafo sarebbe potuta essere, questa di Delia, una storia da raccontarsi in un unico paragrafo, senza alcun unto a capo né asterischi di richiamo.
Una biografia davvero breve, quella sua, col nastro rosa a certificarne la nascita e un serto di lillà ad annunciarne la morte prematura. E incastonata fra i due eventi una storia di rose e di spine, così come ce ne sono, appunto, altre migliaia.
... se non ci fosse stato, a modificarla, quel punto col codino.

Delia era nata graziosa, armoniosa e minuta, ma potente sognatrice.

I suoi sogni li ricamava all'uncinetto, preziosi capolavori amanuensi di pazienza e dedizione, che un giorno andarono ad adornare l'altare maggiore dell'antica Basilica della piccola città dove viveva.
Il suo dono a Sant'Anna Madre della Vergine Maria, ringraziamento per averla salvata, ancora adolescente, da una meningite fulminante.
Ed è proprio nell'estremità ricurva di questo suo uncinetto che materialmente si può constatare la trasformazione del punto in una virgola, che altrimenti la storia si sarebbe subito chiusa con null'altro da raccontare.
Ma il miracolo aveva invece permesso il prosieguo della storia trasformando la fine in un inizio. E poi la realizzazione di una candida tovaglia impreziosita da balze multiple di finissimo merletto. Un capolavoro da maestro orafo quella filigrana sottilissima, tappeto per i piedini scalzi della Santa.

Il candore fosforescente del prezioso merletto, esaltato dalla luce solenne dei lampadari e dal bagliore tremulo delle decine di candele accese, non era passato inosservato agli occhi dell'aristocratica sposa genuflessa ai piedi dell'altare, incantata dalla trama di quel complicato, perfettissimo arabesco, al paragone del quale il lussuoso pizzo del suo velo appariva modesto. Dozzinale.
Quali mani, se non quella di una fata o di un angelo, avevano potuto realizzare un simile capolavoro?

UN PUNTO INTERROGATIVO CAPOVOLTO
Un punto interrogativo, che se lo immaginiamo capovolto ci possiamo di nuovo ravvedere l'estremità ricurva dell'uncinetto a ricamare nuovi capitoli alla storia di Delia che nel frattempo, grata a Sant'Anna, andava valutando l'ipotesi di farsi monaca, nonostante il parere contrario dei genitori che  disapprovavano la sua decisione di seppellirsi viva in un convento dopo essere scampata alla morte per meningite.

S'erano perfino raccomandati alla Santa, affinché inducesse la loro figlia ad un ripensamento.
Una ingratitudine bella e buona questa loro verso la Madre della Madonna, autrice del miracolo.
 Ma questa loro consapevolezza non impediva la richiesta di un miracolo aggiuntivo, a discapito della Santa.

Per Delia, invece, la scelta del convento non rappresentava affatto la rinuncia alla vita, ma piuttosto il suo perfezionamento. La clausura non le avrebbe tolto nulla di ciò di cui abbisognava, tanto meno gli affetti, che quelli sarebbero comunque perdurati in qualunque luogo e in qualunque circostanza. Che l'amore non è un mero fatto di posti o di abitudini, ma di sentimenti.
E non avrebbe dovuto rinunciare neppure alla sua passione per l'uncinetto, quella sua artistica propensione a confezionare delicate ragnatele in cui incastonare petali di fiori, tralci di foglie, ali di farfalla. Promesse di sole. Quella natura che così tanto la incantava e della quale, attraverso i suoi fili di seta sapientemente intrecciati, ne raccontava la poesia. Il ringraziamento per la sua resurrezione.

Ma pure capiva il punto di vista dei suoi genitori, quelle loro obiezioni alla sua scelta, che per loro era come se lei fosse nata due volte, ed ora temevano di perderla di nuovo, e per sempre, inghiottita dalla penombra di una cella di clausura. Allora quel suo desiderio le pareva unicamente dettato dall'egoismo, perché la sua felicità basava sulla loro infelicità, e quindi il perseguirla non era poi così giusto. Prendeva tempo, Delia, che non era certo una decisione facile la sua, combattuta tra l'amore per i suoi e la sua vocazione. Seppure era certa che tra le due cose non ci fosse nessun conflitto. Fiduciosa confidava in un segno del cielo che la indirizzasse verso la strada più giusta. Ed era assolutamente certa che quel segno sarebbe arrivato, anche se al momento quella strada attraversava una miriade di puntini sospensivi.

 UNA MIRIADE DI PUNTINI SOSPENSIVI
Puntini sospensivi che quel giorno l'avevano condotta verso l'altare maggiore, ad onorare con un mazzolino di fiori di campo, la sua protettrice. E così aveva visto che la sua tovaglia di merletto era stata sostituita da un'altra molto bella. Ma non come quella sua.
Quella sostituzione l'aveva profondamente addolorata. Ed anche umiliata.
In quel piccolo capolavoro all'uncinetto Delia aveva profuso tutta la devozione della sua anima, giovane ed incorrotta, in gloria della Santa Madre che l'aveva strappata alla morte, intessendo per lei, con fili di seta, i suoi sogni ancora intatti. Prati di margherite e voli di farfalle. Le immagini della sua resurrezione, dopo che il cielo s'era oscurato e poi le era  piombato addosso a seppellirla in quel suo minuscolo campo di margherite.
Per un anno intero s'era prodigata a tessere all'uncinetto quella splendida tovaglia, un capolavoro liberty di minuti arabeschi e ghirigori floreali. Un lavoro certosino, da esperto gioielliere anziché d'apprendista merlettaia. Ci si era consumata gli occhi su quella trama così complessa, particolare, che pure aveva riscosso grande apprezzamento, tanto da esser giudicata all'unanimità, la più degna dell'altare maggiore. Ma poi, dopo pochi giorni, sostituita. Comprensibile quindi la sua delusione.

Attenta, Delia, che stai peccando di superbia. E di vanagloria.
Ripeteva a se stessa per ridimensionare la delusione e renderla meno amara. Ma pure non ci si rassegnava, che una spiegazione ci doveva essere così da mettersi il cuore in pace, e magari trarne perfino motivo di gioia. Così rasserenata, Delia, aveva chiesto spiegazioni al prete, ma quest'ultimo, s'era mostrato fuggente. Evasivo. Niente affatto contento di quelle sue domande.
Domande poste con voce garbata e un sorriso timido. Di scusa.
«Un dono, una volta dato, non ci appartiene più. E di quel che se ne fa non ci riguarda.» Aveva borbottato il prete, senza neppure guardarla in faccia.
«Ma io non lo rivoglio indietro. Vorrei solo sapere perché non è più al suo posto.» Delia aveva rispettosamente obiettato, stupita di quei suoi modi
«Il suo posto...il suo posto. Chi lo ha deciso che quello fosse il suo posto. Tu? Pecchi di superbia a pensarla in questo modo, e oltraggi Sant'Anna che pure ti ha miracolata. Per quanto bello quel tuo lino è sempre e solo un oggetto a cui tu, stoltamente, stai attribuendo un valore sproporzionato. Di sacralità. Una bestemmia!» La risposta del prete, secca e definitiva, non ammetteva repliche.
La spiegazione è quella. La si accetti o meno. Ma quella è. E basta.

Delia, umiliata e volutamente fraintesa (di questo era certa, perché lui si era dimostrato fin dall'inizio ostile) aveva desistito dall'esigere quelle spiegazioni che non avrebbe avuto.
Delusa s'accingeva a lasciare la Basilica, quando una donna, una sconosciuta col capo velato, materializzandosi dall'ombra, le si era affiancata, e con voce bassa, ma chiarissima, le aveva detto: «Io so come sono andate le cose!»

LA RIVELAZIONE DI UN PUNTO ESCLAMATIVO
Nella dolcezza della voce quel punto esclamativo era emerso imperativo. L'affermazione di una incontrovertibile verità

«Il tuo bellissimo merletto è stato venduto a una giovane e facoltosa signora, che proprio il giorno delle sue nozze  adornava l'altare maggiore. Se ne è innamorata, e senza stare a contrattare sul prezzo lo ha comprato. Una cifra davvero molto grande. La storia è questa. Trai tu le conclusioni, Delia»

A sentir pronunciare il suo nome, Delia aveva alzato gli occhi a penetrare il cono d'ombra che nascondeva il volto della donna. Ma gli unici particolari che era riuscita a vedere erano due occhi chiari e una fronte candida.

«Mi conosci? » Aveva chiesto stupita.
«Ti conosco, e so quanto grande e puro è il tuo cuore. Per questo ho voluto rivelarti la verità, e in base a questa indurti a valutare le tue scelte per il futuro. Le tue mani sanno tessere la bellezza, e questo è un dono di cui dovrebbe goderne il mondo intero e non essere appannaggio esclusivo di qualcuno. Neppure di una Santa. Le cose belle devono appartenere a tutti e non solo a chi ha potere e denaro. E quello che è accaduto lo dimostra. Il tuo prezioso lino dalla penombra della Basilica s'è involato in quella di una stanza privata, forse ad adornare un tavolo di pregio o un'antica testiera. Per impedire che questo accada di nuovo, Delia, deve propagare la tua arte come un fertile seme, ai quattro angoli del mondo, affinché prolifichi anche nei terreni più aridi, laddove c'è troppo o niente sole. Semina a piene mani, che della bellezza il mondo necessita. Fanne soprattutto dono agli emarginati, ai disperati. Ai naufraghi. Sono loro che hanno più bisogno della tua arte per acquisire la possibilità di una speranza. Di una resurrezione. Sarai viaggiatrice instancabile, nomade se occorre, cittadina del mondo. Avanguardia degli invisibili. E' nell'aria aperta che prolificano i pollini e non nel chiuso di una cella. Entrambe abbiamo un compito d'assolvere: il mio è resuscitare i morti, il tuo, invece, i vivi. E questo tuo è senz'altro il più difficile.»

PUNTO FINALE
Punto finale a sancire la conclusione della storia, dopo questo inaspettato, e alquanto rivoluzionario suggerimento, impartito a viva voce da Sant'Anna, che scopriamo esser donna emancipata, pragmatica. Anticonformista. E quel consiglio, la giovane Delia, lo avrebbe fatto suo. Nelle limpide parole della sua protettrice non c'era solo il conforto a volerla risarcire dall'odiosa grettezza del prete, che aveva fatto mercimonio di un bene che non gli apparteneva, trasformando la Basilica in un bazar (ma di episodi simili abbondano le cronache della Chiesa. Nel passato come nel presente), ma soprattutto le aveva indicato la strada per realizzare la sua missione.
 «Come sovente capita che ai guai causati da un uomo, in terra come in cielo, sia sempre una donna a dovervi porre rimedio. E magari trarne anche un positivo vantaggio per molti.» Aveva concluso ironica Sant'Anna, con un sospiro di rassegnazione e un sorriso.

INCISO A PIE' PAGINA
Nelle limpide parole della Santa, Delia aveva trovato la rivelazione sulla strada da intraprendere. Sul modo più giusto di conciliare arte e vocazione: la sua missione
Aveva così seguito il cammino indicatole della sua protettrice. S'era fatta nomade e aveva vestito il mondo coi suoi merletti. Ambiti capolavori in seta, erano andati ad adornare chiese e musei. Dimore reali e palazzi statali. Avevano vestito regine e rock star. First lady e Madonne. Per le sue creazioni lei chiedeva sempre il pagamento in mattoni, (più impalpabile era la trama più pesante era il mattone) così da poter costruire case per gli orfani, ospizi per i vecchi, rifugi per gli emarginati. Ripari per i naufraghi. Per tutti quelli a cui era stata negata la bellezza della vita. E la speranza di poterla un giorno conquistare.
Delia, attraverso la sua arte, offriva loro questa speranza. La possibilità di un riscatto.
E di una resurrezione.