Dedico questo blog a mia madre, meravigliosa farfalla dalle ali scure e dal cuore buio, totalmente priva del senso del volo e dell'orientamento e, per questo, paurosa del cielo aperto. Nevrotica. Elusiva. Inafferrabile.

lunedì 29 gennaio 2018

City of Light

Dedico questa fiaba alla memoria di mia nonna Rosa, ipovedente ma meravigliosamente immaginifica, che mi ha preso per mano, come quando ero bambina, per guidarmi lungo il sentiero di questa storia.


(Pubblicato nell'antologia "La radice dell'infinito"da "Writer Monkey" Luglio 2018)



NEL PAESE SENZA SPECCHI

C'era una volta una regina molto irritabile, la più nevrotica mai esistita nel mondo reale e in quello della fantasia, e terribilmente brutta, seppure, in verità, nessuno l'avesse mai vista in volto dal momento che lei, le rare volte in cui usciva, s'imbacuccava in un mantello il cui cappuccio le nascondeva la faccia, e per rendersi ancora più invisibile, la regina indossava occhiali scuri (questa favola è ambientata in un regno ancora da scoprire, per alcuni versi moderno, per altri, invece, ancora medievale). Affinché nessuno vedesse la sua bruttezza, ma neppure si facesse vanto della propria bellezza, aveva imposto ai suoi sudditi  l'obbligo del mantello e degli occhiali scuri, che mai avrebbero dovuto togliere, neppure in casa. Vietati anche gli specchi, per evitare paragoni a suo sfavore. Aveva persino fatto prosciugare l'unico laghetto del regno, meta di gite domenicali per le famiglie e qualche casuale turista, per impedire che vi si specchiassero. E come se non bastasse aveva preteso, in cucina, l'uso di pentole dal fondo brunito e posate in resina, per impedire qualsiasi tentazione di specchiarsi nell'acciaio. Ovviamente bandito l'uso dell'energia elettrica, pena i lavori forzati a vita a scavare miniere nel ventre freddo, eternamente notturno, della montagna.
 Avrebbe anche oscurato il sole, se le fosse stato possibile, e costretto tutti a vivere in una impenetrabile notte.
In questo regno, di cui s'ignora nome e ubicazione, (di fatto non appare su Google Maps e neppure menzionato in Wikipedia, quindi per noi, davvero sconosciuto) imperavano oscurità e tristezza, che il mondo filtrato dagli occhiali neri pareva senza contorno e senza colore: un universo notturno, popolato di ombre.
Nessuno era contento di vivere lì, e se solo gli abitanti avessero avuto un posto verso cui  emigrare ci sarebbe stato un esodo di massa, e 'fanculo (ops) la regina e le sue ingiuste leggi.
Anche se, a onor del vero, a quei divieti gli abitanti di quel regno senza nome, (uno però dovrò trovarglielo, almeno per orientarmi in tutta questa penombra) continuamente trasgredivano, come gli innamorati, ad esempio, che romanticamente trascorrevano ore a rimirarsi nel buio fitto, carezzandosi il viso con la punta delle dita e scoprendosi bellissimi anche senza vedersi, e le mamme e i papà portavano nei loro occhi le immagini dei figli, come fotografie da mostrare a parenti ed amici.
Insomma, come si dice qui da noi: fatta la legge trovato l'inganno.
Un inganno per riparare ad una palese ingiustizia, per cui, ne sono certa, nessuno punterà il dito contro i trasgressori.

IL GIOVANE SCULTORE CIECO

Ora accadde che in questo regno vivesse anche un giovane Scultore, cieco alla nascita, ma che  nonostante l'handicap creava opere meravigliose che un giorno, di sicuro, lo avrebbero reso famoso.
Lui aveva imparato a vedere attraverso il tatto, ma non lo considerava un privilegio, piuttosto un far di necessità virtù, che ben gli sarebbe invece piaciuto avere il senso della vista. S'era dovuto adeguare, ma  trovava inaccettabile che chi avesse la vista dovesse vivere nel suo stesso mondo di tenebra, solo perché così aveva deciso la Regina.
Il giovane Scultore cieco aveva anche un carattere ribelle e apertamente trasgrediva alle leggi ingiuste della Regina. Nel suo laboratorio, ad esempio, le tende erano sempre spalancate, seppure per lui non facesse una grande differenza, ma era sottostare all'imposizione a risultargli intollerabile.
 Così s'era convinto a dover essere lui a rimettere a posto le cose per tutti.

- Possono pure condannarmi ai lavori forzati nelle cave della  montagna, vorrà dire che avrò materiale di prima mano per le mie opere, ma questa storia deve finire, che quello di godere della luce è un diritto sacrosanto e nessuno può impedirlo. Nemmeno una Regina -

E con spirito battagliero s'incamminò a viso scoperto e supportato dal suo bastone bianco, alla volta del Castello, ben determinato a ristabilire la giustizia.

LO SCONTRO CON LA REGINA

Il giovane scultore cieco s'avventurò quindi alla volta del Palazzo Reale, incespicando lungo la strada, che quello era un percorso a lui sconosciuto e non aveva avuto il tempo di memorizzarne il tracciato, affidandosi all'istinto e alla sua buona stella, sperando di giungere incolume per chiedere udienza alla Regina, quando ad un bivio venne travolto da qualcuno che sopraggiungeva di corsa dalla parte opposta. Nello scontro, entrambi ruzzolarono a terra.
Il giovane, rialzatosi per primo, si preoccupò di  prestar soccorso al suo investitore, che però in malo modo lo respinse, facendolo di nuovo cadere a terra.

- Certo le buone maniere vi sono sconosciute -
Ironizzò lo scultore

- Non osare toccarmi! -
Intimò una voce aggressiva di donna

- Una donna: avevo ben captato la fragranza di un profumo -
Ribadì lo Scultore con un sorriso galante

- Togliti quel sorriso imbecille dalla faccia e preparati a passare il resto dei tuoi giorni in galera! -
Sibilò, quella, stizzita.

- Perché? Cadere non è reato e, se lo fosse, sareste voi, cara signora, a dover scontare la pena, dal momento che mi siete arrivata addosso come una valanga facendomi perdere l'equilibrio -
Per niente intimorito, lo Scultore, sorrise di quella rabbia senza senso.

- A nessuno è permesso farsi beffe della Regina e tu hai passato ogni limite col tuo atteggiamento irrispettoso, e per di più impunemente trasgredendo alla regola che impone, nelle uscite pubbliche, l'obbligo del mantello e degli occhiali neri -

Nel frattempo lei si era rimessa in piedi sovrastandolo in tutta la sua regale altezza (in realtà la sua era una statura media, seppure con la corona e le scarpe coi tacchi sembrasse più alta, ma non quel giorno che, uscendo a fare jogging, indossava scarpe da corsa e un cappellino con la visiera)

- Gli occhiali da sole ad un cieco non servono, e in quanto al mantello fa troppo caldo per indossarlo. E comunque è proprio al Castello che ero diretto per discutere con voi di questa legge assurda che vieta  specchi e suppellettili in cui ci possa riflettere, solo perché madre natura non è stata generosa e vi ha fatto brutta, o almeno così si vocifera. E se girano queste voci, signora, la colpa è solo vostra che pure le alimentate promulgando questi bizzarri editti -
Lo Scultore, che non aveva peli sulla lingua, colse al volo quella magnifica opportunità per dire alla Regina come stavano le cose e quello che di lei si mormorava

- La gente pensa che non solo dovete essere brutta ma anche matta. Brutta, però, non lo siete affatto, ed io posso testimoniarlo -

- La testimonianza di un cieco! E poi la matta sarei io?-
Lo irrise beffarda

- Statura media, capelli mossi, scuri (se fossero stati biondi avreste avuto un carattere più dolce, rossi, invece, sareste stata un po' più equilibrata) carnagione chiarissima, lentiggini e qualche neo, possibilità di ustioni solari (il mantello serve a proteggervi), occhi grandi, di colore violetto o azzurro o verde (non posso essere più preciso, la visiera del vostro cappellino me lo impedisce). Soffrite d'insonnia e di notte leggete romanzi d'amore su cui versate molte lacrime: l'ho percepito dalle palpebre pesanti e dalle ciglia umide. Le mani non sono troppo curate, odorano di terra e di erba, perché fate giardinaggio, è profumo di fiori quello che che ho sentito quando mi siete ruzzolata addosso. Siete una sportiva perché non vi siete lamentata della caduta né di esservi fatta male. Non siete arrabbiata con me per il capitombolo ma per le mie giuste accuse -

LA REAZIONE DELLA REGINA

La Regina era rimasta senza parole. Per la prima volta in vita sua non trovava di che ribattere. Avrebbe potuto, in virtù del suo potere, con un'accusa qualsiasi mettere in prigione quello sfrontato, ma la meraviglia di quella sua descrizione così perfetta, l'aveva destabilizzata. Che lo Scultore fosse davvero cieco non aveva dubbi, non solo per via del bastone bianco ma perché le pupille erano opache,velate da una patina, si muovevano in maniera involontaria.

- Vi state chiedendo come posso io, un cieco, aver fatto di voi un ritratto così preciso, dal momento che a nessuno mai è stato concesso il privilegio di guardarvi in viso. Non è poi così difficile, oltre la vista abbiamo altri quattro sensi che suppliscono al mancante. Essere nati ciechi è tremendo, ma  ancor più tremendo, però, è rendere cieco il proprio popolo solo per una vanità personale. L'essere belli o brutti dipende da tanti fattori, come il nascere con il dono della vista o meno, ma in nessun caso si può costringere gli altri a vivere il nostro stesso destino. Io vedo, nonostante la cecità, il sole e le nubi, la luna e le stelle, le rondini e le formiche, il volto di mia madre e quello dei miei amici, e li traduco in sculture. Voi, invece, vi negate questa gioia negandola a tutti gli altri. Mi verrebbe da dire che siete malvagia, che è peggio di esser brutta, ma di notte leggete romanzi d'amore e piangete: quello che a voi manca non è la bellezza ma un sogno in cui credere -

A queste parole lacrime sgorgarono dagli occhi della Regina, e pure lo Scultore se ne avvide e con la punta delle dita ne asciugò una, sfiorandole la guancia con una carezza.

- Non piangete, non è mai troppo tardi per credere a un sogno o un inventarsene uno. I sogni originano con la luce della luna e vivificano in quella del sole: restituite la luce al vostro popolo, e con quella la possibilità di sognare, e troverete anche voi, ne sono certo, il vostro sogno. -

Piangeva la Regina senza più vergogna di mostrare le proprie lacrime, poi prese la mano del giovane guidando le sue dite sulle piccole cicatrici rugose che le frastagliavano metà del viso
 - Questo particolare deve esserti sfuggito -
Aveva detto in tono amaro, scostandosi bruscamente da lui
- Non mi è sfuggito, ma non è la cosa che maggiormente mi ha colpito di voi. E il rilevarlo vi avrebbe fatto male, per questo l'ho taciuto. Siete bella, Maestà, solo che voi non lo vedete. Date la possibilità a tutti di amarvi come io già vi amo e spariranno anche quelle cicatrici, non le vedranno gli altri e nemmeno più voi -
A dimostrare la sincerità delle sue parole, baciò quelle sue cicatrici, una ad una, con infinita dolcezza.

CITY OF LIGHT

Specchi di tutte le dimensioni e forme, e in gran profusione, arredano ora le case di questo Regno a cui io, giunta all'ultimo capitolo, non ho ancora dato un nome, ma che ora ho l'obbligo di farlo affinché Wikipedia e Google Maps possano posizionarlo sulle loro mappe, caso mai qualcuno volesse farci una capatina e sincerarsi della veridicità del mio racconto, e così ho pensato a "City of Light", che forse non è il nome più originale del mondo ma di sicuro il più appropriato. Avrei potuto chiamarla anche "City of Love" perché la gente che qui vive è incredibilmente felice; oppure "City of Mirrors" che questa è diventata l'attività principale del regno; oppure "City of the Queen", in onore della donna che con saggezza governa e che il suo popolo appassionatamente ama, anche se nessuno potrà mai eguagliare l'amore del RE, che non ha mai voluto, però, indossare la corona, trovandola antiquata e non in linea coi tempi, soprattutto, non in linea col suo pensiero. E chissà che la forza del suo amore, e le sue indubbie capacità di convincimento, non inducano la Regina a promulgare un referendum per far decidere al suo popolo se tramutare la Monarchia in Repubblica.
Una magia non troppo difficile da realizzare per il giovane artista che ha saputo regalare un sogno ad una Regina
...perché quel Re senza corona è proprio lui, lo Scultore cieco.

giovedì 25 gennaio 2018

C'è sempre un punto in cui realtà e fantasia convergono.

E' sempre banale quel risveglio quando la mia parte filmica continua ancora a dormire, perché senza quello spezzone di pellicola, sviluppata nelle stanze notturne della mente, tutto mi appare sbiadito e finto: ne ho quindi bisogno per elaborare la realtà.
Non è una finzione scenica quella in cui poi agisco, ma una realtà parallela che si contrappone a quella evidente, ma abiurata già al primo sguardo.
Traumatici, quei miei risvegli, quando la protagonista della mia vita interiore non vuole proprio saperne di destarsi e stizzita si calca la mascherina nera sugli occhi, rinnegandomi.

- Flaubert, il mio caffè per favore .-
(perché ho chiamato Flaubert questo mio maggiordomo immaginario? non saprei dirlo, ma è questo il nome che mi è affiorato alle labbra)
 Flaubert fa il suo impeccabile ingresso nella mia stanza da letto e poi, con un piccolo inchino, depone un micro vassoio sul mio comodino.
E' un vassoio da casa di bambole, con sopra un piattino e una tazzina in miniatura decorati di rosa.
- Cagliostro ha già fatto colazione? - Domando, stiracchiandomi
- Si, Madame, il Conte ha fatto colazione. Ripulito il piatto, se mi è concesso dire. -
Sorrido a questa sua educata ed ironica precisazione
- Dunque i nuovi bocconcini sono di suo gradimento. - Convengo soddisfatta
- Senza ombra di dubbio. - Conferma lui, compunto
- Grazie, Flaubert. Non ho bisogno di altro. -
Lo congedo con un gesto grazioso della mano mentre sorseggio dalla minuscola tazzina un caffè invisibile, ma ottimo.

Indugio ancora un po' tra le coltri, lasciandomi avvolgere dal profumo intenso di lavanda che da queste emana, e nel frattempo, svogliando pigramente il carnet degli appuntamenti:
ore 10,00 - selezioni per assunzione nuovo chauffeur
contattare la tata di Cagliostro per la serata
ore 14.00 - pranzo con Joseline e Greta  all'Epicure
ore 17,30 - appuntamento "Salone di Bellezza di Franck Provost"
ore 19,00 - Frenchie e Frenchie Bar, per Aperitivo con Marianne
Atelieur Givenchy per prova sartoriale del nuovo abito da sera
ore 22,00 -  Cena spagnola al Fagon con Jean Luc. Dopo cena al Grand Hotel du Palais Royal.

Una giornata indubbiamente piena, e così devo pur risolvermi ad uscire dal letto
- Flaubert. -
- Madame. -
- Flaubert, contatti Emanuelle, la tata di Cagliostro, le dica che stasera avrò bisogno di lei. Le confermi l'orario solito. -
- Sarà fatto, Madame. -
- E avverta lo chauffeur di preparare la Porsche, che avrò bisogno di lui per tutta la giornata. -

E così mentre Madame esplora la lussuosa cabina armadio alla ricerca dell'abito giusto alle esigenze della giornata, e non trovando nulla di congeniale esclama: non ho niente da mettermi! pure io, frugando nel mio più striminzito armadio, mi ritrovo nello stesso momento a ripetere l'identica battuta: non ho niente da mettermi!
...perché, alla fine, c'è sempre un punto in cui realtà e fantasia convergono.

mercoledì 24 gennaio 2018

La regola di Anna


Si può essere innamorati di diverse persone per volta, e di tutte con lo stesso dolore, senza tradirne nessuna, il cuore ha più stanze di un bordello.
(Gabriel Garcia Marquez)

TU NON FARMI DOMANDE ED IO NON TI RACCONTERO' BUGIE
Tu non farmi domande ed io non racconterò bugie: è questa la regola di Anna che Giuliano accetta per amore, perché averla anche solo per brevi momenti è meglio che non averla affatto.
La storia dell'amore univoco di Giuliano, verrebbe da pensare, ma no, non necessariamente, che Anna non è obbligata a stare con lui, ad amarlo o fingere di amarlo, come può accadere in un matrimonio o in una relazione di altro tipo, in cui per svariati motivi si è costretti, a volte, a rimanere insieme.
Anna lo ama, ma c'è un altro uomo, e ama anche quello.
Eh già vedo molte facce perplesse: se davvero fosse stata innamorata dell'uno o dell'altro, avrebbe fatto una scelta.

ANNA
Non ho potuto scegliere perché li amo entrambi. Il mio amore per Giuliano non diminuisce quello per mio marito. E qui non sono in ballo le troppo abusate, in letteratura come in psicoanalisi, complementarità, l'uno non possiede le doti di cui l'altro difetta, e non ho mai messo in atto il tentativo di creare, attraverso un loro assemblaggio, l'uomo perfetto. Semplicemente mi sono innamorata di Giuliano così come ho continuato ad esserlo di mio marito, per questo non ho mai vissuto questa mia relazione con le stigmate del tradimento, ma non potevo certo pretendere che Giuliano capisse fino in fondo questo mio sentire, che il mio cuore non sarebbe risultato diviso fra loro due, ma unico per entrambi. Avrebbe sofferto di questa situazione, magari rinfacciandomela e, alla fine, esigendo una mia scelta. Non sono una donna egoista, non così sfacciatamente come può sembrare, io Giuliano l'ho amato e continuo ad amarlo, ma pure comprendo quel suo sentirsi tradito e quella sua reazione ultima di disprezzo e di rabbia. Ma se anche gli avessi raccontato la verità credo che l'epilogo ultimo sarebbe stato sempre questo, solo avremmo vissuto giorni tormentati di domande e di rinfacci, a scapito di quelli meravigliosi che pure sono stati. Non pretendo che il mio punto di vista sia condiviso, mi rendo conto di essere io l'anomalia, l'unica onda in quel mare piatto dove i sentimenti, troppo spesso, affondano sotto il pelo dell'acqua, invisibili e repressi, stupidi sacrifici all'amore, che pure, per sua natura, non ne esige di mortali
...allora questa mia regola non ci sarebbe stata

DALLA PARTE DI ANNA
Ora io conosco personalmente Anna, sto dalla sua parte, seppur con qualche riserva, che nonostante tutto il mio voler essere controcorrente i condizionamenti societari sono davvero difficili da smantellare in toto e in un colpo solo, figuriamoci quelli sentimentali, che pure mi viene da empatizzare con Giuliano, col suo dolore e la sua delusione, seppure qualche sospetto sulla  limpidezza del suo amore, io lo nutro, che accettando da subito quella regola imposta da Anna, qualche dubbio pure deve averlo avuto. E allora perché accettare? I motivi possono essere tanti, e fra i tanti non do per scontata la preponderanza dell'amore. Se non ci fosse stato quell'incontro casuale in cui ha toccato con mano una possibile realtà che pure, fino a quel momento aveva potuto (voluto) facilmente ignorare, avrebbe continuato la sua relazione con Anna? Lui stesso s'è trovato ad ammettere che averla anche solo per brevi momenti era meglio che non averla affatto, fin quando la realtà s'è palesata in quell'angolo di strada, e così non ha potuto più ignorarla: scendere a patti con se stesso non gli è stato più possibile
...come quella sua sola, ultima domanda, di cui non ambisce neppure la risposta, è un modo ingiusto di chiudere la storia, addebitando unicamente ad Anna tutte quelle colpe di cui anche lui, in maniera supina, s'è reso complice.

martedì 23 gennaio 2018

Tu non farmi domande ed io non ti racconterò bugie


Giuliano s'era rassegnato a non farle più domande, come Anna gli aveva chiesto, in quel suo modo dolce ma deciso col quale piegava al suo volere il mondo intero.

Tu non farmi domande ed io non ti racconterò bugie.
Così, lui, non gliene aveva più fatte, perché pure aveva intravisto in quella sua dolcezza il tono di una minaccia.
Non avrebbe sopportato una rottura, il mondo non sarebbe stato più lo stesso senza di lei, e quindi s'era rassegnato al ruolo di amante muto.

Nessuna domanda, così non avrebbe avuto nessuna bugia in risposta.
Ma tu mi ami?
Questo glielo poteva chiedere, era tra le domande fattibili, quelle che non includevano la possibilità di una bugia.

...o forse anche questa?
Ma no, certo che no, Anna non era obbligata a stare con lui, ad amarlo o fingere di amarlo, come può accadere in un matrimonio o in una relazione di altro tipo, perché loro si erano scelti.
Le bugie, che avrebbe dovuto raccontare, erano intenzionalmente riferite alla sua vita reale, non ai sentimenti.
Quella vita che poteva benissimo contemplare un marito, forse dei figli, una famiglia a cui lei non voleva pensare quando stavano insieme per non alimentare sensi di colpa.
Ma si può davvero, anche solo per un momento, dimenticarsi di loro?
S'interrogava Giuliano, che di legami stabili, prima di Anna, non aveva mai voluto sentir parlare, ed ora, invece, si sarebbe volentieri, e fino in fondo impegnato con lei.
...ma forse era già la moglie di un altro dal quale tornava dopo aver lasciato lui, e chissà se anche a quello aveva imposto la regola di non fare domande, di non chiedere giustificazione alle sue assenze, di accettare in silenzio le sue piccole fughe.

- Contatto un investigatore e così facilmente saprò tutto di te, donna misteriosa. -
Le aveva detto una volta in tono scherzoso
- Se ci tieni alla nostra storia non farlo. -
Aveva risposto Anna senza sorridere.

...e lui, ubbidiente, non lo aveva fatto.
Averla anche solo per brevi momenti era meglio che non averla affatto

Anna mi è entrata dentro e mi ha fuso il cervello.
Irrideva se stesso e la sua incapacità di far prevalere le sue ragioni, legittime, nonostante lei non gli avesse mai fatto promesse o creato aspettative.
O preteso qualcosa.

Si dava a lui con passione, si lasciava andare, pienamente godeva di quei loro incontri, seppure anche mai le era sembrata troppo triste al momento del commiato.
Si staccava leggera da lui, si rivestiva e poi allo specchio ricomponeva i capelli. Espletava questi suoi riti con naturalezza, senza la fretta di chi è condizionato dal tempo e dalle formalità.
O dalle priorità.
Quasi lei non ne avesse, e liberamente potesse disporre delle ore e delle situazioni.

Tu non farmi domande ed io non ti racconterò bugie.
...poi, una mattina, casualmente l'aveva vista uscire da un negozio con le mani ingombre di sacchetti, e sorridendo felice per quell'incontro inaspettato già si predisponeva ad attraversare la strada per andarle incontro, quando una macchina s'era fermata a pochi passi da lei, un uomo ne era sceso e premurosamente s'era fatto carico del peso delle buste. Dopo averle sistemate nel portabagagli l'aveva aiutata ad accomodarsi in auto tenendole lo sportello aperto.
Anna gli sorrideva grata nello stesso modo in cui sorrideva a lui, quando facevano l'amore o era felice. Prima di salire gli aveva accarezzato una mano.
Un gesto inedito per Giuliano.
Un gesto complice, che con lui non aveva mai avuto.

Tu non farmi domande ed io non ti racconterò bugie.
Ora questo non aveva più senso.
Eccolo finalmente davanti a quella verità a cui lei non aveva voluto contrapporre nessuna bugia
Ma quale verità?
Chi era quell'uomo?
Un marito?
Un amante?

Un altro me.
Sentiva forte il bisogno di farsi male, umiliarsi, declassarsi allo stadio infimo di animale da letto, usato e all'occorrenza sostituito.

Un altro me.
Questo pensiero s'era inchiodato nella sua mente e non riusciva a distaccarsene.
E quanti altri me sono nella tua vita, Anna?
Ecco una domanda che esigeva una risposta schietta.
Vedeva se stesso, in quell'ipotetico interrogatorio che andava in scena nella sua mente, strattonare Anna, scuoterla, farla piangere. solo per la necessità di potersi vendicare del dolore provocato da quella sua carezza sulla mano di un altro.

La macchina era ripartita mentre lui era rimasto fermo, come paralizzato, in quell'angolo di strada, incapace di mettere a fuoco i pensieri se non quell'unico di vendicarsi di tutto quel dolore che gli era piombato addosso.
Puerilmente fissava la porta del negozio da cui lei era uscita, un banale negozio di scarpe in cui si era risolto ad entrare spinto dal bisogno di verificare se quella che aveva visto era proprio lei o solo una che le somigliava.
Aveva chiesto alla commessa se una signora, con le caratteristiche fisiche di Anna, fosse stata lì per l'acquisto di un paio di scarpe, e quella aveva confermato che effettivamente una giovane donna, corrispondente a quella sua  descrizione, aveva comprato dei sandali da sera color argento, un modello esclusivo per un'occasione straordinaria
...di cui lui mai avrebbe saputo nulla se non ci fosse stato quell'incontro casuale.


Tu non farmi domande ed io non ti racconterò bugie.
Questo ora non sarebbe stato più possibile, ben lo sapeva Giuliano che davanti alla realtà non avrebbe potuto adottare più nessuno stratagemma per ingannare se stesso
...anche se per un momento, pur di negarsi a quella realtà, aveva voluto credere che quella non fosse Anna ma solo una che le somigliava.

E cosa cambiava, in definitiva, se davvero era lei o un'altra?
Lo shock, e il dolore, avevano evidenziato il suo stato di subordine all'interno di quel rapporto dove l'unica cosa vera era il suo amore incondizionato che lo aveva indotto ad accettare quella regola assurda: tu non farmi domande ed io non ti racconterò bugie.

Ti ho visto per caso ed eri in compagnia di un uomo. Chi era?
Era questa la sola domanda che le avrebbe fatto, senza attendere però la risposta
...che qualunque fosse stata sarebbe per lui equivalsa ad una bugia.

sabato 20 gennaio 2018

Alter Ego

E così, in virtù del mio carattere, ho da subito messo in chiaro le cose: sono la tua alter ego, quindi non sono te.  Ho una vita che prescinde la tua e nella quale non gradisco intromissioni. Sei tu ad aver bisogno di me e non viceversa.
Questo a sfatare la leggenda che noi, alter ego, siamo blocco unico con l'altro.




giovedì 18 gennaio 2018

Vuoto a perdere



Il male pende all'interno della mia testa, una gelida stalattite puntata verso il cuore.
 Per impedirne il distacco, che mi causerebbe morte, devo fare in modo che nessuna fonte di calore mi penetri.
Dopo aver respinto la tentazione del tepore delle coperte, giaccio rannicchiata in un angolo del letto, tremando di freddo e della paura che lo stato emotivo, in cui ora mi dibatto, possa alterare le mie percezioni.
Mi muovo con la sicurezza di una cieca in questa casa oscurata al sole, dove nulla di vivo può soggiornarvi troppo a lungo, senza luce né calore, così ho rinunciato anche alla mia dolcissima gatta, l'ultimo affetto
L'ultimo regalo di mio marito.
Ex marito.
Ex gatta.
Ex, come tutte le persone e le cose che ho amato prima che la stalattite s'insediasse nella mia testa.

Appesa all'interno del mio cranio e puntata verso il cuore, c'è una lama pronta a darmi la morte, così come è stato per mia madre, che io pure li avevo avvertiti del caldo eccessivo della stanza, delle troppe presenze che l'affollavano a rubarle l'aria e il respiro.
Via.Via. Andatevene. Tutto questo caldo la sta uccidendo.
E come una furia m'avventavo addosso ad ognuno, per farle guadagnare centimetri d'aria e attimi di vita.
Nessuno ha voluto credermi.
L'avrei salvata, a dispetto di quelli che dicevano di amarla.
Non mi hanno creduto neppure quando la stalattite s'è staccata spaccandole il cuore.
Un sussulto, ha inarcato la schiena e sbarrato gli occhi e un filo di bava lungo il mento.

Così ho capito che per salvare me stessa da quello stesso male, avrei dovuto combattere da sola.
Li ho allontanati tutti, per non essere contaminata.

Nessun sentimento.
Nessuna emozione.
Nessuna empatia.
Niente. Niente. Niente.
Vuoto a perdere

Accuratamente evito ogni coinvolgimento che possa generare calore.
 Perfeziono tecniche.
Sperimento antidoti.
Perché ho capito che non basta liberarmi dalle emozioni ma piuttosto devo mantenere costante il grado di gelo che fa da collante alla stalattite, per impedirne il distacco.
Ma pure capita, talvolta, che il ricordo di una dolcezza insidi quella parte di memoria così pericolosamente a lei vicina, allora, al calar della notte, esco per procurarmi l'antidoto.
Non sono più così maldestra ad usare il coltello, col tempo ho affinato la mia tecnica, un lavoro pulito, che non è il sangue che mi raggela, ma quegli occhi sbarrati sull'ultimo istante di vita.
Gli stessi di mia madre.
Nessuna morbosità.
Nessuna eccitazione.
Solo il salvifico gelo.

domenica 14 gennaio 2018

Sophisticated Lovers

Immaginazione e dita sensibili: null'altro necessità agli amanti più sofisticati.



Non esiste il delitto perfetto

- C'è una vistosa falla nell'impianto della storia di Maria Verena Valduga , testimonianza che non esiste il delitto perfetto -
Esordisce sardonico il commissario al mio ingresso nel suo ufficio, dove sono stata, con una certa urgenza, convocata
- Si, ha ragione, me ne sono resa conto anch'io, ma avevo fretta di chiudere la storia, sperando che nessuno quella falla la vedesse -
Rispondo arrossendo
- Impossibile, signora, dal momento che è grande quanto un cratere -
Non mi sfugge il tono canzonatorio della sua voce
- Sa benissimo che non può certo cavarsela così, come se nulla fosse, dopo aver messo in subbuglio un intero paese, resuscitando i morti e sconvolgendo i vivi, ma, soprattutto, creando alibi per gli assassini, di cui lei è una complice -
Mi punta l'indice contro, fissandomi severo
- Io mi sono solo limitata a raccontare i fatti. Non sono un giudice né un detective, sono una scrittrice, e per di più autodidatta (questo lo aggiungo come attenuante per quella mia madornale incongruenza) Non ho messo in atto nessuna strategia di depistaggio, nessuno strabiliante colpo di scena: non mi si può accusare di mistificazione o favoreggiamento -
Rispondo piccata
- Non la sto accusando di aver sviato le indagini, su questo è stata molto accorta, perfino noiosa -
Mi porge una sigaretta che sdegnosamente rifiuto
- C'è il divieto di fumo o sbaglio? -
Entrambi i nostri sguardi vanno al cartello "Vietato Fumare", scritto a lettere cubitali
- Se le da fastidio non l'accendo -
Fa il gesto di riporre la sigaretta nel pacchetto
- Nessun fastidio. Fumavo anch'io un tempo -
Benignamente gli accordo il permesso
Mi guarda con simpatia, mentre l'accende 
- Allora di cosa mi si accusa? -
Domando seccata
- Complicità -
La sua risposta coincisa
- Complice di chi? -
Chiedo esterrefatta
- Di Maria Verena, di Orso e del vecchio Valduga -
Elenca, il commissario
- Ma si rende conto dell'assurdità di quest'accusa? Io sono la scrittrice, l'unico reato che mi si può addebitare è quello di un difetto nella trama, di una falla nell'impianto strutturale dell'ultimo capitolo, e di cui me ne sono avveduta, purtroppo, con ritardo -
Sospiro avvilita
- Però, commissario, sono pronta a confessare qualunque colpa pur di non riscrivere tutto -
Sorrido, tentando di sedurlo con l'ironia
- In prigione ci si annoia, tutto quel tempo libero e nulla da fare. Alienante. Ma se adotterà una buona condotta, carta e penna, forse, dico forse, gliela concederanno. Il computer, però, se lo scordi -
Questa volta è lui a sorridermi seducente
- Mi elenchi i miei diritti e i capi d'imputazione e finiamola con questa farsa -
Apertamente lo fronteggio
- Si procuri un buon avvocato che l'accusa mossa nei suoi confronti è di concorso nell'assassinio di padre Giuseppe Rigamonti, in complicità con Maria Verena Valduga, Dante Cipriani detto Orso, e Bartolomeo Valduga. Veniamo alle dinamiche che hanno portato alla sua incriminazione: il vecchio, inabile alla guida per via di un serio problema all'anca, ha chiesto a lei, che fin dall'inizio ha sfacciatamente parteggiato per la nipote, di accompagnarlo in macchina dove poi questa si sarebbe sostituita a lei, nel ruolo dello chauffeur. Cosi mentre tutti noi cercavamo l'assassina, immaginandola già lontana, lei era qui, sotto il nostro naso, nell'auto parcheggiata nel cortile del commissariato, in attesa dello zio che stava deponendo in questo stesso ufficio, Poi, indisturbati, sono insieme ripartiti: il vecchio, alla volta di casa, la nipote, invece, fuggita chissà dove. Ovviamente, alla luce di queste congetture, avremmo riconvocato nuovamente il Valduga, e anche lo chauffeur, per un riscontro testimoniale in ambiti separati. Lo chauffeur, o meglio, la chauffeur, cioè lei, pronta a giurare di essere sempre stata alla guida dell'auto, e di averlo personalmente accompagnato in tutti gli spostamenti, fornendogli così un alibi inoppugnabile. -
Accende un'altra sigaretta gettandomi uno sguardo di sfida, che io non so interpretare se per la trasgressione al divieto di fumo o per l'inattaccabilità della sua arringa
- Ma io non so guidare, non ho neppure la patente -
Replico stremata, sull'orlo di una crisi di pianto
- Non sarà certo per aver guidato senza patente che si farà un bel po di anni di galera -
Conclude, sornione, inchiodandomi a quelle che ritiene siano le mie responsabilità indiscutibili.



domenica 7 gennaio 2018

Uno sguardo spalancato sul nulla



Io non voglio tutto, solo alcuni confort e un piccolo amore
(Charles Bukowshi)

Fuori è ancora buio e freddo, piacevole, al risveglio, il tepore delle luci accese e del riscaldamento, e delle fusa di Cagliostro, che reduce dal pattugliamento notturno, anche lui grandemente apprezza questi piccoli confort.
Adempiendo al collaudato rito del mattino, ci dirigiamo in cucina, lui alle sue ciotole ed io alla mia moka, ma la cosa di cui più sento il bisogno in questo momento, è una sigaretta, seppur ormai ho smesso di fumare da un discreto numero di anni, ma l'esigenza, quella, non la smetti mai.

Credo che quando andrò in pensione cambierò totalmente, ed irreversibilmente, i ritmi della mia vita, dormendo di giorno e vegliando di notte: una vita silenziosa, felpata e segreta.
...seppure di segreti io non ne abbia 
Ma non ha importanza, quello che davvero conta, è dare l'idea di averne, cosa che non mi rimane affatto difficile dal momento che pure ho saputo fingere una vita quando non ne ho avuta alcuna.
All'inizio era un mio bisogno questa finzione, un inganno innocente, in attesa che la mia esistenza vera si realizzasse
Poi è diventato abitudine.
Poi disperazione.
Poi rassegnazione.

L'esigenza di una vita, una necessità impossibile da dismettere, che si rinnova a tutti i risvegli, cosicché l'unico luogo dove potrei trovar rifugio è il sonno, se non ci fosse l'insonnia ad inchiodarmi le palpebre aperte. 
...un macabro scherzo questo mio sguardo eternamente spalancato sul nulla.
Un riposo negato.

 Io non voglio tutto, solo alcuni confort e un piccolo amore, recita Charles, mentre quello che avrei voluto io era una vita e non la sua finzione.

Marilena

venerdì 5 gennaio 2018

Maria Verena Valduga. La storia. La leggenda (cap 7)


UNO SQUARCIO SULLA VERITA'
Dall'accurata ispezione della casa non emerse nulla di rilevante: nessuna impronta, nessun indizio.

«Come se ogni cosa, là dentro non fosse stata neppure sfiorata. Un vero rompicapo.» Confida perplesso il commissario al dottore
«Non crederà anche lei alla storia del fantasma?» Domanda ironico il medico.
«Certo che no! ma chi ha orchestrato il tutto sapeva il fatto suo. Abbiamo minuziosamente ispezionato ogni angolo, ogni suppellettile all'interno e all'esterno alla casa. Perfino il vaso del geranio e quello del basilico, e la gabbia per uccelli: oggetti comuni che non celano alcun segreto.» Sospira il poliziotto, accendendosi una sigaretta.
«Nel linguaggio delle piante il geranio è la malinconia che aspira al conforto; il basilico, invece, tra le sue tante accezioni, ha anche quella del lutto. La gabbietta aperta, ovviamente, rappresenta la libertà. Ma, di quest'ultima, se vogliamo approfondirne la decodificazione, potemmo suppore che la porticina spalancata simbolizzi una partenza, o una fuga, e la presenza di cibo, invece, un ritorno. Elementi, quindi, non solo casuali, ma latori di un messaggio preciso: un chiaro avvertimento.» Spiega il dottore, e allo sguardo sorpreso dell'altro, replica schernendosi: «Ovviamente, le mie, sono solo supposizioni.»
«Un medico esperto del linguaggio dei fiori: sono colpito!» Esclama stupito il poliziotto.
«Mia madre era l'esperta, aveva un negozio di fiori e di ogni fiore ne conosceva i segreti.» Sorride il dottore al ricordo.
«Eppure un fondamento di verità nella vostra ipotesi potrebbe benissimo esserci. Maria Verena, o qualcuno per lei, è tornato dal lontano passato per vendicarsi o farsi giustizia, che il confine morale tra le due finalità è spesso nebbioso.» Riflette, assentendo, il commissario.
«Eppoi... in chiesa...quel magistrale coup de theatre, con il guanto gettato in faccia al prete.» Completa, il quadro d'insieme, il dottore.
«Una morte annunciata, quella di don Rigamonti, en plein aire e al mondo intero. Una questione di giustizia, quindi, e non di vendetta, perché se la prima la si reclama alla luce del sole, la seconda, invece, la si consuma nel buio.»
«E niente, in questa faccenda, è stato lasciato al caso.» Commenta il medico in tono ammirato.

« Ho l'impressione che,  nonostante la deduzione della verità,  non caveremo un ragno dal buco, perché tra amnesie e reticenze, nessuno pare voglia davvero collaborare, come se la verità non interessasse più. Neppure al vecchio Valduga, che di certo sa molto di più di quello che ha detto...e in definitiva non ha aggiunto nulla di nuovo a ciò che già si conosceva, tranne il particolare inedito che il principe Sigmaringen, rimasto vedovo, avrebbe sposato lui stesso Maria Verena, e questo ha scatenato la ribellione della ragazza fino a spingerla nel campo degli zingari giostrai e intraprendere la relazione con Django, in modo da far desistere il principe. E questa parte di storia perfettamente si collega con quella raccontata da Orso. Don Rigamonti, a suo tempo, ha ricoperto un ruolo primario in tutto questo, oltre le sue stesse funzioni, se è vero che la ragazza lo aveva accusato di un tentativo di stupro. Ed è ancora lui è il regista della messinscena della messa solenne celebrata per l'entrata in convento di Maria Verena, quando lei, invece, era già aggregata con i partigiani.» Fa il punto, il commissario, accendendosi l'ennesima sigaretta.
«E magari è anche il responsabile dell'agguato in cui sono morti tutti i componenti la brigata partigiana.» 
«Non tutti.» Rettifica il commissario: «Orso e Lupo sono scampati, e forse la stessa  Maria Verena, della cui morte non abbiamo alcuna prova se non le dichiarazioni di Orso, che rimangono inattendibili senza un reale riscontro. Ricapitolando: senza prove siamo al punto di partenza.»
Il dottore amaramente assente: «Eppure la storia è delle più semplici, direi perfino priva di mistero, perché vittima, colpevoli e motivazioni sono sotto i nostri occhi.»
«Visibili ma impalpabili: l'opera di un fantasma.» Sorride il poliziotto mentre cerca di afferrare con le dita la nebbia del fumo della sua sigaretta, e mostrare poi, al medico, la mano vuota.
Ma l'altro scuote la testa, amichevolmente schernendolo: «Andiamo commissario, non vorrete mica darla vinta ad un fantasma? Un fantasma che se ne va a spasso con un cane, lo trovo davvero bizzarro, anche perché il cane in questione era ben vivo e pronto ad azzannare chiunque le si avvicinasse. Maria Verena, che non è affatto morta come sostiene Orso, suo complice in questa storia. Il prete lo hanno ucciso insieme, da sola lei non ce l'avrebbe mai fatta, quello era un omone, e mettergli un cappio al collo, issarlo e poi impiccarlo, soprattutto se privo di sensi...da sola non ce l'avrebbe mai fatta. Quei due gli hanno teso un tranello, e poi costretto a scrivere il messaggio ritrovato in canonica, avendo tutto il tempo così di agire indisturbati.  Ed è stato sempre Orso ad avvertirla dell'irruzione, così lei ha avuto tutto il tempo per eclissarsi, magari a bordo di una macchina...» Si ferma, il dottore, nel suo ragionamento, che la logica dei fatti si svela d'improvviso ad entrambi.
«Lo chauffeur!» Esclamano all'unisono.


«Anche lo zio è un complice! Questo spiega l'inserimento, nel suo racconto, di dettagli scabrosi come la proposta di matrimonio del principe Sigmaringen e del tentativo di stupro da parte del prete. Particolari da tener gelosamente nascosti per tutelare il buon nome dei Valduga, e la cui rivelazione spontanea getta una luce ancor più nefanda sulla famiglia e sul prete. Quelle indiscrezioni dovevano essere, nelle sue intenzioni, attenuanti per l'assassina. Maria Verena, dunque, un alleato in famiglia lo aveva.» E su questa considerazione il commissario batte un pugno sul tavolo.

Seguendo lo stesso ragionamento, il dottore, ispirato, completa la sequenza degli atti criminali: «La mattina in cui è stato rinvenuto il cadavere di don Rigamonti, la donna, allertata da Orso che, come tutti era a conoscenza della premeditata intrusione nel palazzo dei Valduga, si era già allontanata. Nascosta da qualche parte ha atteso che lo zio, convocato da prassi, ha preso il posto dello chauffeur. Nessuno ha fatto caso all'autista, neppure quando il vecchio è sceso allo spaccio, concentrando l'attenzione su di sé. Lei è sempre stata qui, sotto i nostri occhi, visibile ed invisibile, a suo piacimento, interprete di una trama molto ben congegnata. Nella casa, dove comunque è avvenuto il delitto, lei non vi ha mai davvero soggiornato, è stata solo un'ingannevole scenografia per distrarre con la storia del fantasma. Nascosta chissà dove, vi faceva ritorno prima dell'alba per mostrarsi al balconcino, poi usciva col cane su strade secondarie diretta in un qualche rifugio su quella montagna dove era stata partigiana, e di cui benissimo conosceva sentieri ed anfratti. E questo giustifica anche la mancanza di tracce abitative all'interno della casa.»

«Questo spiega tutto, direi.» Gli fa eco il commissario: «Non mi resta che convocare  di nuovo Bartolomeo Valduga per un altro interrogatorio dal quale non caverò nulla, e nel frattempo la nipote si sarà definitivamente eclissata, cosa in cui pare essere davvero molto esperta dal momento che per decenni è riuscita a rendersi invisibile. Interrogherò di nuovo Orso, che proseguirà nella sua magistrale interpretazione dell'alcolizzato amnesico, e ovviamente convocherò anche lo chaffeur, seppure immagino che testimonierà, per affetto o per una lauta mancia, di essere sempre stato lui alla guida della macchina. Un piano davvero ben architettato!» Esclama in tono ammirato. «Continuerò, però, a cercare indizi che possano inchiodare gli assassini alle loro responsabilità, perché questo è il mio compito, seppure mi viene da dire che don Rigamonti aveva sulla coscienza molti più peccati di quelli di chi lo ha ucciso.» Conclude amaro, su quest'ultima riflessione.

LA FINE DELLA GUERRA 
Nel frattempo, Orso, s'è già inerpicato verso l'anfratto, un buco sotterraneo invisibile da cielo e da terra, che era stato un tempo rifugio partigiano, e nel presente, base d'appoggio per Maria Verena, da dove ha portato a compimento la sua giustizia. Con cura, l'anarchico, cancella ogni traccia di quel soggiorno con un piccolo falò,  dove solo in ultimo, e con  molta riluttanza, si risolve a bruciarvi anche il suo guanto destro, gemello dello stesso con cui Maria Verena ha sfidato il prete.
Lo getta nel fuoco, esitando, che a stringerlo gli pare di sentire ancora il calore di quella sua mano mutilata
...e con quello, finalmente, brucia anche il suo passato di cui, in tutti quegli anni, è stato prigioniero.
Per lui, la guerra, finisce quel giorno.

mercoledì 3 gennaio 2018

Maria Verena Valduga. La storia. La leggenda (cap 6)


LE VERITA' SEPOLTE
Di  Maria Verena, o chiunque quella donna fosse, s'erano perse le tracce. La casa stessa sembrava essere sempre stata disabitata, con il mobilio coperto dai teli impolverati e le finestre sprangate.
...ma sul balconcino, però, erano rimasti a testimoniare della sua presenza i vasi del geranio e del basilico, e la gabbietta vuota.

«Non può essere andata poi così lontano a piedi.» 
«Di certo avrà avuto un complice.»
«Che tempismo però, fuggita il giorno stesso del ritrovamento del cadavere dl prete.»
«Dici che qualcuno l'ha avvertita?»
«Che altra spiegazione può esserci?»
«Già...e neppure troppo difficile sospettare chi.»
«Orso?»
«Sicuramente.»

Dopo un estenuante interrogatorio, l'ex partigiano, però, venne rilasciato, che nessun reato si poteva ascrivere a suo carico, seppure s'era maturata la convinzione che fosse lui quel potenziale complice, non lo si poteva accusare di nulla, neppure di non ricordare l'ubicazione della fossa comune dove aveva raccontato di aver sepolto, con l'ausilio di Lupo, Maria Verena e gli altri partigiani.
Lupo era morto ormai da anni, portandosi nella tomba le sue verità, e scavare l'intera montagna per dare conferma alla storia di Orso, era quanto meno impossibile.
...e quanto attendibili avrebbero potuto essere considerate le dichiarazioni di un testimone come lui, alcolista all'ultimo stadio che nel corso dell'interrogatorio era caduto più volte in contraddizione smentendo ciò che l'attimo prima aveva dichiarato?
Quanto intenzionalmente?
Incriminarlo per reticenza e depistaggio quando, invece, si puntava al favoreggiamento?
Ma era un osso duro, Orso, e il suo gioco aveva saputo condurlo
... e così, alla fine, era stato rilasciato.

«E' un uomo intelligentissimo, commissario, quello sa come sono andate le cose, ma gioca la carta dell'ubriaco.» Aveva asserito con convinzione il dottore.
«Ne sono certo anch'io, ma non possiamo muovergli nessuna accusa, almeno per ora, in attesa dei riscontri con la testimonianza di Bartolomeo Valduga, zio paterno di Maria Verena e unico parente ancora in vita.»

DESTINI IN AGGUATO
Appena arrivato, e contro ogni aspettativa, Bartolomeo Valduga, s'è da subito concesso alla curiosità pubblica scendendo dalla lussuosa berlina con l'ausilio del bastone e dello chaffeur, per una sosta ristoratrice nella bettola di quel piccolo avamposto dove un tempo ci aveva vissuto da padrone e dove ora vi aveva fatto ritorno da forestiero.
Poi, è risalito in macchina diretto alla volta del commissariato.

Un uomo dall'ossatura fragile e dal cuore impenetrabile: questa l'impressione che ne ricava il commissario, già dal primo scambio di battute, nonostante Bartolomeo Valduga si fosse mostrato affabilmente collaborativo.

«C'era stato quel progetto di matrimonio tra Maria Verena e il principe Giovanni Cuza Sigmaringen. Matrimonio combinato tra le due famiglie e conveniente per entrambe, perché quell'unione avrebbe portato nuova ricchezza nelle casse esangui del casato principesco in cambio di quel tanto agognato titolo nobiliare, ambiziosamente perseguito da mio fratello. In prospettiva di quelle nozze s'erano strette relazioni d'affari e consolidate intese politiche, soprattutto in seno al nascente partito nazista tedesco di cui il casato Sigmaringen era fervido sostenitore. Poi, a ribaltare i destini, c'era stata la morte prematura del principe Giovanni, promesso sposo di Maria Verena, che aveva prodotto nefaste conseguenze all'interno della sua stessa  famiglia, col suicidio della principessa madre, e poi con la rottura dei rapporti coi parenti di lei, di tutt'altre vedute politiche. Ma l'intesa dei Sigmaringen con la famiglia Valduga continuava ad essere stabile, addirittura il principe s'era proposto, con trattative ufficiose, di sposare lui stesso, ormai vedovo, Maria Verena.»
 
Bartolomeo Valduga s'è interrotto, fissando con lo sguardo acquoso dei vecchi un punto remoto, circoscritto nella memoria. Poi come riemergendo da quel lontano passato, riprende il suo racconto: «In realtà quella mia nipote è sempre stata una testa calda, ostinata e irragionevole, come possono esserlo le cosi dette ragazze moderne, che invece ai miei tempi, commissario, quando ero giovane io, sottostavano senza discutere, alla volontà di Dio e a quella dei genitori. E proprio per far capire a Maria Verena questo principio che venne chiesto l'ausilio di padre Rigamonti che molto si prodigò per il bene di tutti noi, ricevendo in cambio, da mia nipote, solo dileggio e  accuse infamanti, tra i quali quella di un tentativo di violenza carnale. Come si poteva credere a lei che scappava di notte, nonostante i chiavistelli e i cani alle porte, per raggiungere il campo degli zingari e comportarsi come una donnaccia? Uno scandalo che a mala pena riuscimmo a contenere, seppur qualcosa alle orecchie del principe era pervenuto, e così di matrimonio non se ne parlò più, perché si sa che il dubbio scava fossati e distrugge reputazioni, e questo determinò una rottura fra le nostre famiglie, perché il principe era un fervente hitleriano e lei s'era contaminata con gli impuri. Un piano ben orchestrato, da quella scapestrata, per far sfumare il matrimonio. Lei fuggì con uno di loro, ma a casa non viveva già più, che mio fratello l'aveva cacciata via, e neppure ha voluto si cercasse. La storia di Maria Verena in convento è stata un'idea di padre Rigamonti per far zittire le malelingue. Di mia nipote non abbiamo voluto sapere più niente, e a maggior ragione, quindi, non saprei dirvi se la donna vista nel nostro antico palazzo sia davvero lei o un'impostora.» Guarda il commissario negli occhi, e in tono severo chiede: «Perché nessuno è andato a farle visita, almeno per sincerarsi che non fosse un'abusiva nella nostra dimora?» 

Il commissario assente, imbarazzato: «Si è dato per scontato che fosse lei... ma ha ragione, avremmo dovuto almeno verificare la sua identità dal momento che c'è qualcuno pronto a giurare che Maria Verena, che s'era fatta partigiana fu poi uccisa in un agguato e sepolta in montagna, in una fossa comune.» Spiega il commissario, offrendo al vecchio una delle sue sigarette, che lui cortesemente respinge: «Grazie, ma resto fedele alla presa di tabacco.» Dice, cavando di tasca un'elegante scatola d'argento, da cui pizzica una piccola presa da fiutare. Poi, in tono sottilmente caustico  suggerisce: «Per accertarsene basterà scavare nel luogo della sepoltura.»
«Sono passati tanti anni e il testimone non ricorda dove, e non è possibile sterrare un'intera montagna.»
«Per noi Maria Verena è morta da quando è fuggita con quello zingaro: una storia chiusa. Non l'abbiamo cercata allora, non intendiamo farlo adesso. Lei non fa più parte della nostra famiglia. Vi ho raccontato tutto, non c'è altro. Spero solo che troviate l'assassino di padre Rigamonti, un uomo di Dio che ha sempre perseguito il bene.»
E già gli porge la mano per accomiatarsi, quando il commissario lo ferma con un'ultima domanda: « Vi ricordate di Dante Cipriani, detto Orso?»
Bartolomeo Valduga scuote la testa in segno di diniego: «Non conosco nessuno con questo nome.»
«Non ricorda o non conosce?» Lo sollecita il commissario.
«Non conosco.» Risponde deciso il vecchio, stringendogli la mano prima di uscire.
Nel cortile la macchina lo attende col motore acceso.