Dedico questo blog a mia madre, meravigliosa farfalla dalle ali scure e dal cuore buio, totalmente priva del senso del volo e dell'orientamento e, per questo, paurosa del cielo aperto. Nevrotica. Elusiva. Inafferrabile.

lunedì 24 aprile 2017

Le ombre più buie sono visibili nel riflesso degli specchi.

Per riprendere il filo di un racconto, senza fare troppa retro storia, bisogna ritornare ad un punto d'avvio, una virgola all'interno di una frase situata all'interno di un paragrafo situato all'interno di un capitolo.
Un intrigo di fili da dipanare da cui scegliere il capo buono per ricompattare la matassa senza doverla, però, ricomporre tutta di nuovo.
...un'idea di matassa, perché quasi sempre il racconto vero si svolge dentro di noi, quando sentimenti,  dialoghi ed azioni, contrastano con ciò che al momento stiamo mettendo in scena.

Il racconto/romanzo, materialmente scritto, ci fornisce, invece, la possibilità del completo disvelamento del nostro io, potendo imputare, quando la situazione lo esige, alla fantasia gli eccessi della trama, dove crudamente ci riveliamo.
Perché anche il racconto più inverosimile, il più fantastico, reca le inconfondibili tracce del nostro dna: le stimmate dello scrittore.
Ecco quindi perché la scrittura è liberatoria e trova un suo postivo riscontro anche come strumento terapeutico.
...e di questo, personalmente, ne posso dare testimonianza.

Scrivere. Scrivere. Scrivere.
Per me è stato uscire dalla mia zona d'ombra più buia e poter vomitare il mio malessere esistenziale davanti agli occhi del mondo.

"Non sono io che vomito, è la protagonista del mio racconto."
Mi premuravo di rassicurare chi mi conosceva per prevenire il solito mantra del "ti stai mostrando troppo" con la variante del "chi legge chissà cosa penserà di te", alimentando in me altri sensi di colpa e vanificando, spesso, la terapia.

Le ombre più buie sono visibili nel riflesso degli specchi.
... non esiste buio se davvero si vuol vedere.
...perché in quel "ti stai mostrando troppo", io ci ho letto la determinazione di non volermi vedere nel momento in cui non mi svelavo solo agli occhi del mondo, ma ai loro stessi.

...o nella migliore delle ipotesi  questo mio disvelamento è stato letto come un egocentrismo estremo, atto più a danneggiarmi che a rivalutarmi.
...perché ci soffermiamo più sulle persone marginali alla nostra vita, incuriositi, stuzzicati, affascinati, attratti, oppure respinti, e non guardiamo con la stessa attenzione chi, invece, ci sta da sempre vicino.
Ma forse è proprio questo l'inganno: la famigliarità.

 E' frettolosa, distratta e svogliata la famigliarità, per questo ci rende alla fine supponenti ed estranei gli uni agli altri.
Impazienti di prendere le distanze
Resettando perfino i ricordi, se fanno troppo male.

Anch'io, un tempo non troppo remoto, ho messo distanze e rimosso ricordi, anche se non è servito a placare il dolore, ma a quel tempo non avevo coscienza dell'inutilità e crudeltà delle mie scelte.
Nessuna consapevolezza.
E non lo affermo, con forza, solo per discolparmi.
...così ho vissuto relazioni all'interno della mia famiglia come un fardello opprimente e doloroso, da cui dovevo sottrarmi per avere una possibilità di salvezza, o così mi pareva, e non ho avuto la pazienza, e la determinazione, di riflettere e capire che in quel fardello c'era una richiesta di aiuto, o di perdono, mal posta perché espressa con la paura di un rifiuto, che l'orgoglio, quando esiste da entrambe le parti, è un sentimento deleterio e vanificante, atto a rendere irrisolvibili  incomprensioni che forse, con una maggiore empatia, non si sarebbero rivelate tali.

Ora è fin troppo facile dire che se mi fosse data una seconda possibilità colmerei quelle distanze, quei silenzi e quei vuoti, e saprei come farlo, che la vita mi ha insegnato la strada e la pratica.
Ora che non ho più paura di guardare il buio, riflesso dagli specchi.
...oggi, che è più tardi di ieri.
Marilena

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