Dedico questo blog a mia madre, meravigliosa farfalla dalle ali scure e dal cuore buio, totalmente priva del senso del volo e dell'orientamento e, per questo, paurosa del cielo aperto. Nevrotica. Elusiva. Inafferrabile.

mercoledì 27 dicembre 2017

Maria Verena Valduga. La storia. La leggenda (cap 5)


SILENZIOSE TESTIMONIANZE
Sul balcone della casa dei Valduga fiorivano il geranio e il basilico, mentre la gabbietta vuota con la porticina spalancata, reiterava agli invisibili viandanti dell'aria la sua ospitale offerta.
Questo era ciò che alzando lo sguardo si vedeva. Niente trapelava, invece, dall'interno buio della casa. Mentre era facile, però, di mattina presto, vedere Maria Verena, o chiunque altra fosse, al balconcino, intenta a spazzolarsi i capelli.

«E' una donna in carne e ossa.» 
«Se ha messo in fuga il prete con tutte le sue protezioni altolocate, non può essere che un fantasma.»
«Di quali protezioni parli? quelle di Dio o del prefetto?»
«Orso dice che la figlia dei Valduga è morta partigiana.»
«Quello sarebbe disposto ad inventare qualunque storia in cambio di una bevuta.»
«Per come la vedo io racconta più verità lui da ubriaco che il prete da sobrio.»
«Ma pure se lei fosse un fantasma  non mi suscita lo stesso terrore che m'incute mia moglie.»
E quest'affermazione scatena l'ilarità generale.
«Eppure un modo ci sarebbe per accertarsi della verità, una verifica sul posto quando lei non c'è.»

ALLA RICERCA DELLA VERITA'
Questa proposta, bocciata dalla maggioranza come atto lesivo della proprietà privata, era stata invece accolta con entusiasmo dalle solite teste calde, più per il gusto dell'avventura che per una ricerca della verità
...e già s'era delineato un piano molto semplice e all'apparenza privo di rischi, che per scassinare il portoncino d'entrata, corroso dal tempo e dalla ruggine, sarebbe stata sufficiente una piccola leva, e per tutto il resto, invece, buona vista e agilità di gambe se la situazione fosse precipitata.

Qualcuno dei presenti aveva tentato di dissuaderli da quell'impresa, ma a dir la verità con argomenti blandi e senza troppo fervore, subissati dagli incitamenti di quelli che invece li spronavano all'impresa, cosicché il gruppetto si sentì autorizzato a procedere nel suo piano.  

...così quando la donna era uscita col suo cane, il manipolo s'era subito messo all'opera per forzare il portoncino d'ingresso, che pure facilmente s'era aperto su un interno completamente buio, e dopo aver imprecato sulla dimenticanza di una torcia elettrica che avrebbe illuminato la scala sconnessa che recava alle stanze del primo piano, s'erano accinti a salire. Procedevano con cautela, celiando per farsi coraggio ma con i sensi tesi, pronti ad indietreggiare alla prima avvisaglia di pericolo quando, con scenografico tempismo, un rosso raggio di luce, filtrato da una crepa, si era posato sulla sagoma penzolante dal soffitto.
Il corpo di una donna, come testimoniava la lunga veste che dall'alto pendeva.

Ed eccoli gridare, a quello che faceva da palo, di chiamare soccorsi, che lì c'era il cadavere di un'impiccata.
...e già un ragazzetto correva a perdifiato lungo la strada del commissariato, e un drappello di volontari s'era posto sulle tracce di Maria Verena, mentre il dottore, che pure era nei paraggi, prese il controllo dell'operazione, impedendo l'accesso ai curiosi per non inquinare la scena del delitto.

Ma non è una donna, è don Rigamonti, l'impiccato.
Aveva tratto in inganno la  tonaca, nel buio scambiata per un abito da donna.

«Ecco dunque che fine ha fatto il prete!»
«Mai partito, è sempre stato qui.»
«Lo ha ucciso lei!»
«Ma con l'aiuto di un complice, che quello era un omone e da una donna avrebbe ben saputo difendersi.» 
«Gli avrà teso un tranello. Certe ne sanno una più del diavolo.»
«Ha fatto perdere le tracce. Volatilizzata. Aveva tutto programmato.»
«Eh si, non si sparisce così da un momento all'altro, qui c'è un piano ed un complice.»
«Ma il movente di questo delitto?»
«Una storia vecchia, di convento e di partigiani. Una vendetta.»

«O magari una giustizia.» Interloquisce Orso
«Tu ne sai qualcosa? Magari c'è anche il tuo zampino!»
«A  questo zampino ti riferisci?» E, con una risata roca, mostra il moncherino. «Sono un invalido ed un ubriacone, non riesco nemmeno ad allacciarmi le scarpe... figurati uccidere un uomo.»
«Ma tu la conosci quella donna.»
«Quella che conoscevo è morta, sepolta in montagna con tutti gli altri partigiani.»
«E allora basta scavare dov'è sepolta per confermare la tua verità.»
«Ho la memoria labile, conseguenza delle sbronze, perfino quando sono sobrio vedo insetti sulle pareti. Non saprei dove condurvi.»

  «Io invece scommetto che lo sai. Certe cose non si dimenticano. Lo hai detto tu.» La voce del dottore sovrasta le altre.
«Ah, dottore, giungi sempre alle spalle!» E di nuovo quella risata cupa, senza allegria
«La verità, Orso, porterebbe giustizia anche nei confronti di quella donna, se un torto ha subito.»
«La verità non ha mai portato giustizia, dottore, almeno per quello che mi riguarda e per quello che ho visto. Limitati a curare i corpi, che è il tuo mestiere, perché a curare le anime ci pensano i preti.» Conclude, scolando il bicchiere.

lunedì 18 dicembre 2017

Maria Verena Valduga. La storia. La leggenda (cap 4)


VERITA' E REALTA' NON SEMPRE SONO PRESENTI ALLO STESSO MOMENTO
Ma non è detto quello che a noi pare reale sia poi vero, perché non sempre realtà e verità sono presenti allo stesso momento.

La donna al balcone aveva una frezza bianca sul lato destro della fronte: un particolare che tutti avevano notato, ma quanto bastante a confermare la sua identità?
...perché nessuno l'aveva mai vista a viso scoperto, ma sempre schermata da una veletta.

Quell'apparizione un fatto, però, l'aveva prodotto: la fuga del prete.
Cosa l'aveva fatto scappare: il ritorno di un fantasma o un ritrovato senso di colpa?

Di certo questi interrogativi eccitavano la curiosità popolare verso una storia che, all'epoca dei fatti, non ne avevano scatenata alcuna.
Una vicenda circoscritta in un ambito famigliare davvero impenetrabile, che i Valduga, arroccati in quel loro palazzo, con le loro pretese di nobiltà, mai avevano tentato un'integrazione nel tessuto sociale, neppure di facciata.

Ma pure in quel palazzo così appartato s'erano tessute trame, e stretto relazioni, che avrebbero poi influito, allo scoppio della guerra, sul destino di molti
...allo stesso modo che la morte prematura del giovane principe Giovanni Cuza Sigmaringen, era andata tragicamente ad impattare quello di Maria Verena

LA VERSIONE DI ORSO
«Maria Verena Valduga, "la monaca" è morta sulle montagne dove s'era unita al nostro gruppo di partigiani.?
«E allora chi è la donna che abita il palazzo padronale?»
«Cosa volete ne sappia? forse il suo fantasma.» Risponde Orso, beffardo.

«Ne hai di fantasia, Orso.» Gli fa eco una voce alle sue spalle
«Si chiama memoria, dottore, e se mi paghi da bere, ti racconto come sono andati i fatti, ma versa tu, per favore, che la mia mano trema così forte che pare abbia il parkinson.»

«Eravamo in perlustrazione all'alba, io e Lupo, quando ci siamo imbattuti in due fuggiaschi, un uomo e una donna, lei zoppicava e lui la sosteneva, erano esausti e infreddoliti, non avevano cognizione del luogo e ancor meno della situazione in cui s'erano venuti a trovare, con me e Lupo che li fronteggiavamo armati. Li abbiamo portati al campo, non c'è stato neppure bisogno di legarli, erano talmente stremati che ci hanno seguito quasi con riconoscenza. Lei, la ragazza, è stata subito identificata, per via  di quella ciocca bianca, essere la figlia dei Valduga. Lui, invece, uno degli zingari sinti che s'erano accampati con le loro giostre all'entrata del paese. Non era una fuga d'amore, quella loro, ma più semplicemente lei non voleva entrare in convento e lui non voleva finire in un campo di concentramento. Avevano così concertato, per sfuggire ai rispettivi destini, di unirsi a noi partigiani. All'inizio non volevamo saperne di una donna nelle nostre fila, soprattutto di una come lei abituata agli agi e di famiglia fascista, ma poi si è rivelata essere all'altezza, così tanto che alla fine è stata arruolata nel gruppo di azione, avendo dimostrato di possedere un carattere determinato ed una mira infallibile. Doti che però non le hanno impedito di essere ironicamente ribattezzata con il nome di battaglia "la monaca", per via di quella balla, messa in giro dalla sua famiglia, di essere entrata in convento. In realtà era Django ad entrare tutte le notti nella sua tenda. Se quei due se la intendessero anche prima non saprei dirtelo, per noi non ha mai avuto importanza. Il loro stare in coppia  ha evitato che la presenza di Maria Verena creasse scompiglio nel nostro gruppo di soli maschi. Django era un carattere solitario, un tipo irrequieto, portato all'azione, sempre in prima linea, di coraggio ne aveva da vendere, non ha parlato sotto tortura, e con lui si sono divertiti, non gli hanno risparmiato nulla, mai visto così tanto accanimento contro un essere umano.»
Orso interrompe il suo racconto per attingere una lunga sorsata dal suo bicchiere e porgerlo poi, con un gesto significativo, all'altro perché lo riempia di nuovo: «Versa ancora, dottore, che tutto questo parlare mi ha asciugato la gola.»
Solo dopo che la richiesta è esaudita, riprende la sua narrazione: «Maria Verena è morta sul campo in un tranello. E' stato un massacro. Un tradimento da confessionale. Chiedetelo al prete quando torna...se torna.» Dice guardando il dottore con un sorriso enigmatico, e dopo un breve silenzio aggiunge: « Morire non è stata la cosa peggiore, perché la sorte più atroce è toccata a chi, come Django, è stato catturato. Da quella retata siamo scampati solo io e Lupo, in missione di approvvigionamento. Abbiamo seppellito i morti e poi le nostre strade si sono divise.»

«Questa è la tua versione, ma non c'è nessun altro, oltre te, a confermarla.» Il dottore ribadisce perplesso.
 «Ed io sono un alcolizzato: dilla tutta dottore.» Orso lo guarda e scoppia in una risata: «Mi hanno mutilato di una mano ma non della memoria.» Obietta sarcastico, mostrandogli il moncherino: «La mano me l'hanno strappata via un pezzo per volta... una cosa difficile da dimenticare.»
«Se Maria Verena è morta, allora chi è la donna che abita il palazzo dei Valduga?»
« A me non importa sapere chi sia. La mia storia te l'ho raccontata, ora versa da bere!»

mercoledì 13 dicembre 2017

Maria Verena Valduga. La storia. La leggenda (cap 3)


AMNESIE. E MANIPOLAZIONI.
Dunque, Maria Verena era tornata e il prete, invece, se ne era partito, adducendo la motivazione puerile di un grave problema di famiglia, come asseriva il foglio sul tavolo della canonica.
Ovviamente la sua partenza frettolosa aveva suscitato un vespaio d'illazioni, perché era evidente che la motivazione di quella sua fuga era da collegarsi con la scena avvenuta la domenica in chiesa.
...e così gli occhi dei passanti andavano al balconcino, a quella presenza misteriosa che pure vi si affacciava a rendersi visibile, a sollecitare quegli sguardi e quei pensieri che da basso salivano fino a lei, che intenzionalmente si concedeva alla loro curiosità seppur attraverso una distanza siderale, un confine che nessuno avrebbe varcato per paura dell'ignoto.

La si vedeva incamminarsi su sentieri secondari, con lo splendido alano al guinzaglio e il viso schermato da una veletta. E sempre sola.
...anche se il circondario del suo palazzo era diventato luogo di pellegrinaggio, inesauribile fonte di curiosità e fantasiose ipotesi, come ad esempio quella gabbietta esposta al balcone, vuota ma fornita di cibo, che nell'immaginario popolare era stato stabilito fosse un approdo per le anime dannate.
...e quel geranio, coi petali color di fiamma, che in così poco tempo s'era sviluppato come un'edera, tendendo verso il basso come la corda di un fuggitivo; e il basilico, un cespuglio che pervadeva l'aria col suo profumo stordente, per ingarbugliare sensi e pensieri.

Nessuno ricordava più quella storia, che in quel tempo di guerra gli uomini adulti erano soldati al fronte o partigiani sulle montagne, e le donne intente alla propria sopravvivenza e a quella dei figli, avevano altro a cui pensare che non all'improvvisa scomparsa di Maria Verena, la cui vicenda non venne vissuta con l'attenzione morbosa che sempre caratterizza fatti del genere.
...e così la famiglia ebbe gioco facile per accreditare nell'opinione pubblica la sua entrata in convento, supportata dalla complicità dei notabili, in primis da don Rigamonti, che inscenò una messa, in pompa magna, in onore di Maria Verena sposa di Dio.
E a render tutto più vero la famiglia, per solennizzare l'evento, fece dono alla comunità di pacchi di pasta, conserve e coperte.
Ad archiviare definitivamente il tutto ci aveva pensato il capo della polizia con una retata avente la duplice funzione di ottemperare agli ordini del nuovo codice fascista sulle leggi razziali, che ascriveva tra gli impuri anche gli zingari, e cancellare in questo modo ogni possibile testimonianza riguardo la fuga di Maria Verena e Django. E soffocare lo scandalo.

ORSO
Ma pure ancora c'è qualcuno che ricorda, e ride dello scompiglio che la comparsa della donna ha generato nella fantasia dei paesani
... che neppure la cruda lezione della guerra è valsa a portare un barlume di ragionevolezza nel buio superstizioso delle loro menti, riflette Orso l'anarchico, il partigiano, il sopravvissuto. L'alcolizzato. Ingollando sorsate dalla fiasca che sorregge con la mano sinistra, che della destra è mutilato.

domenica 10 dicembre 2017

Maria Verena Valduga. La storia. La leggenda (cap 2)


LA SFIDA
A quel balconcino dove s'era mostrata Maria Verena Valduga (che i più s'erano ormai convinti che fosse lei, rediviva) ora vi facevano bella mostra un vaso di gerani e uno di basilico, e una gabbietta per uccelli, vuota e con la porticina spalancata.
Elementi questi sufficienti a convalidare la tesi del ritorno della fuggitiva alla casa paterna.
...che di altro oramai non si parlava in paese, se non di questo straordinario evento.
 La domenica s'era poi mostrata alla funzione della messa, con un'entrata scenografica scioccante: il volto coperto da un velo di pizzo nero, una mano vestita da un guanto, e al guinzaglio un superbo alano bianco.
Nel silenzio più grande aveva percorso il tragitto fino all'altare maggiore, col cane che da lei non si discostava di un passo. Poi s'era sfilata quell'unico guanto e lo aveva gettato, con disprezzo, in faccia al prete.
Senza una parola s'era avviata verso l'uscita, e quando uno dei fedeli s'era interposto a sbarrarle la strada, il ringhio minaccioso del grosso cane lo aveva convinto a farsi da parte

«Sarà un fantasma.»
«Forse lei...ma il cane no di certo.» Aveva obiettato, con un qualche nervosismo, il coraggioso che aveva tentato di sbarrarle il passo.
«Allora è davvero tornata!»
«Tornata, e da dove?»
«Dovremmo chiederlo al prete: i preti sanno sempre tutto.»
«Oh si, loro sanno sempre tutto, ma raccontano solo quello che gli pare.»
« E quel guanto in faccia...una sfida o un avvertimento?»
«Un gesto così sprezzante può essere solo di sfida.»
«Eh già, uno schiaffo pubblico a cui don Rigamonti non ha reagito.»
«Reagire...reagire...si fa presto a dire, lo ha colto di sorpresa, cosa avrebbe dovuto fare?»

Queste, ed altre, le congetture che andavano maturando sul sagrato della chiesa alla fine della funzione terminata con anticipo, che l'officiante aveva saltato l'omelia domenicale e congedandosi con evidente premura, ad evitare qualsiasi spiegazione, s'era eclissato da una porta secondaria.


UN RACCONTO DESTINATO ALL'OBLIO
Spiegazioni che neppure gli anziani avrebbero saputo dare, perché della sorte di Maria Verena sapevano solo ciò che alla famiglia era convenuto dire, senza altri riscontri se non le testimonianze mercenarie dei notabili dell'epoca, tra cui lo stesso prete.
Non c'era poi molto da ricordare se non che la famiglia poco dopo s'era trasferita in un imprecisato nord, e di loro non s'era saputo più nulla.
Una storia senza un vero inizio e una vera fine, e neppure una vera trama, che se la verità ufficiale era quella dell'entrata in convento di Maria Verena, altre verità ufficiose, relegate nell'ambito del sospetto, parevano essere più plausibili di quell'unica conclamata.
...e mentre i Valduga emigravano verso i loro possedimenti al nord, la polizia irrompeva tra le tende degli zingari giostrai per caricarli su camionette, anche queste dirette a nord, ma verso i campi di concentramento.
Neppure di loro si seppe più nulla.

Un racconto senza interpreti e né testimonianze è destinato all'oblio
...e ancora più facilmente se nessuno, per le verifiche postume, si è assunto l'onere degli appunti: nomi, date, orari e luoghi.
Ci sarebbero allora state, all'occorrenza, conferme e non supposizioni, anziché il silenzio dei vuoti di memoria, reali oppure omertosi, che a piacimento si possono gestire in mancanza di riscontri.

venerdì 8 dicembre 2017

Maria Verena Valduga. La storia. La leggenda (cap 1)


IN UN GIORNO MENZIONATO SU NESSUN CALENDARIO
A quel balcone da cui nessuno s'era più affacciato, essendo l'antico palazzo padronale ormai disabitato e mezzo caduto in rovina, era d'improvviso apparsa, in un giorno menzionato su nessun calendario, una donna intenta a spazzolarsi i capelli.
Capelli neri con una frezza bianca che originava nitida sul lato destro della fronte, come la traccia di una cometa in un cielo notturno.
La donna al balcone l'avevano vista i pescatori al rientro dalla loro battuta di pesca notturna, e quelli che s'apprestavano a quella diurna; i contadini che s'avviavano ai campi; il dottore e il prete che insieme tornavano dopo aver trascorso parte della notte al capezzale di un moribondo.
L'avevano vista a quell'affaccio, che credevano disabitato, spazzolarsi i capelli, che nella luce ancora incerta dell'alba altri particolari non erano riusciti ad intravedere.
Vestita di scuro, qualcuno asseriva.
Vestita di rosso, qualcun altro ribatteva.
Chi poteva essere quella donna al balcone di una dimora disabitata se non un fantasma inquieto, insofferente alle pene del limbo?
 ...così, più d'uno s'era fatto il segno della croce, e affrettato il passo.

In quel giorno menzionato su nessun calendario, Maria Verena Valduga, aveva fatto la sua comparsa (apparizione, qualcuno avrebbe detto), a quel balconcino dismesso, scatenando da subito la fantasia dormiente degli abitanti, che di novità non ne capitava quasi nessuna in quel borgo profondamente incassato tra le montagne e il mare, difficilmente intercettabile dagli sguardi umani e da quelli divini, da poterlo considerare un piccolo pianeta all'interno di un pianeta più grande.
...eppure quella comparsa inaspettata aveva sortito la capacità di mettere in moto meccanismi caduti in disuso come, ad esempio, quello della memoria, esercizio che i vecchi avevano da lungo tempo dimenticato e i giovani assolutamente non conoscevano, essendo abituati da sempre a vivere in un'immobilità temporale dettata dai ritmi delle stagioni e scandita dalle regole comunitarie.
Nascevano e morivano così come fanno le piante e gli animali, senz'altro scopo che quello di trascorrere in un qualche modo gli anni intermedi tra i due eventi.

NEI MEANDRI DELLA MEMORIA
Ambiziosa, quanto sfortunata, la famiglia dei Valduga, nobili senza blasone, a cui invano avevano da sempre aspirato, una contea o una baronia, più facili d'acquisire con l'arte dell'ossequio e dell'adulazione, che al principato, invece, solo con un matrimonio si sarebbe potuto accedere.
...seppure a quello c'erano andati davvero vicino, con la nascita di Maria Verena, promessa sposa al principe Giovanni Cuza Sigmaringen, il cui destino, però, fu quello di non arrivare all'età dell'adolescenza, prematuramente ucciso da una malattia di languore.
Dopo di che nessun'altra richiesta di matrimonio, di così alto lignaggio, era pervenuta a Maria Verena, che superati i vent'anni, ancora nubile, vedeva profilarsi l'ombra sinistra del convento, da preferirsi a quella di un apparentamento di basso profilo.
Meglio badessa che zitella.
Questo il sunto di un destino segnato, deciso dalla famiglia, che lei, dopo esser stata quasi principessa, non avrebbe potuto accontentarsi di qualcosa di meno.
Eh si che bella lo era.
Particolare, di certo, con quella ciocca bianca che ancora giovinetta le conferiva una parvenza già adulta, e forse, a vent'anni, già di donna matura.
Era anche per questo, nel suo destino, la sorte del convento.
Così cercavano di convincerla i famigliari, che per vincere il suo disappunto adducevano ragionamenti assurdi, tentando di persuaderla che quella ciocca bianca, nel folto velo corvino dei capelli, rappresentasse il soggolo con cui Dio la designava sua sposa.
...e la morte prematura del giovane principe Giovanni Cuza Sigmaringen, ne era la conferma.

Fu così che quando in paese arrivarono gli zingari giostrai lei scappò con uno di loro.
Di lui si conosceva solo il nome, Django, e l'ombra buia nei suoi occhi.
Di lei non si seppe più nulla.
Di lei non si volle sapere più nulla.
Nessuna ricerca venne messa in atto, e per soffocare lo scandalo si accreditò la notizia della sua entrata in convento.

lunedì 4 dicembre 2017

Regina delle nevi



E' dal risveglio che galleggio sospesa in una bolla di sapone: i sensi ottusi e gli occhi che non riescono a mettere a fuoco i contorni delle cose, cosicché appare tutto sfumato come in una foto ingiallita dal tempo.
Ma sono ben consapevole della realtà oggettiva di questo nuovo giorno, e del mio mandato di sopravvivenza a cui non posso sottrarmi, e forse neppure lo vorrei.
Abnegazione e dovere sono un tutt'uno per quelli come me che sempre troppo poco hanno amato se stessi, e ancora, nonostante le esperienze trascorse, trovano difficile ed estraneo questo esercizio.
Se non ti ami tu per prima neppure gli altri ti ameranno, seppur sono convinta che benissimo potrebbe valere l'inverso, se qualcuno ti ama ti rimane più facile il volerti bene.
Ma in definitiva cosa dovrebbero amare di me gli altri?
Cosa dovrei amare io di me stessa?
Le quattro parole che riesco qui a scrivere per colmare il vuoto dilagante che mi circonda, e che forse per incapacità congenita, invano mi sono spesa a colmare?
Oggi, nel presente, mi riesce difficile anche scrivere per via del continuo stato di precarietà emotiva con cui ho convissuto lunga parte della mia vita, e che alla fine mi ha consumata.
Scrivo per rassegnazione, per smaltire il carico delle troppe cose che ho dentro e che la scrittura rende più lieve, un sollievo seppur solo momentaneo, ma bastante a ridarmi fiato.
 E poi tutto quel freddo interno che mi gela l'anima ed enormemente acuisce la  distanza tra me e il mondo. Distanza che io sono così brava a mascherare, cosicché nessuno è mai stato nel mio deserto di neve, soprattutto perché le poche volte che ho voluto mostrarlo a chi pensavo di potermi fidare non è mai risultata essere una buona idea, che la reazione scontata è sempre stata quella di attribuire il tutto ad una mia eccessiva esagerazione.

Regina delle nevi, cosa ti manca per essere felice?
Hai un lavoro (piccolo piccolo, ma comunque con uno stipendio, che di questi tempi lamentarsene è follia ed egoismo)
Hai una casa.
Hai una famiglia.
Hai un figlio.
Hai un gatto.

...se per questo ho anche un armadio e una dispensa, un certo numero di scarpe e un paio di ombrelli.

E' che la gente è propensa a vedere quello che hai, o quello che mostri di avere, ma è totalmente cieca su quello che realmente ti manca, e così anche quando tu gliene parli, quelli continuano a non vedere, neppure per cattiveria o menefreghismo, ma per difesa personale, per paura di essere fagocitati loro stessi da tutto quel tuo freddo e finire sepolti nel deserto di neve.

Ho un computer, e scrivo.
Potrei mostrare questo, ma non lo mostro.
D'altronde la mia è una produzione letteraria senza capo né coda.
Alla rinfusa.
Caotica, come sono io dentro.
Non ci si capisce gran che, seppure tutto appare ben disposto e in ordine.
Ogni scritto perfettamente incasellato sotto la propria etichetta.
Però se apri quei file ti può piovere addosso di tutto: contraddizioni, nevrosi, paure, e paranoie.
...ma anche tutto, tutto quell'eccesso di amore irrisolto.
Marilena

sabato 2 dicembre 2017

Nei meandri della memoria


"Amanda e Jeremy" un racconto scritto nel 2008, ma di cui non ero mai stata del tutto soddisfatta, e così da sempre l'ho considerato un racconto minore, una prova di scrittura, un confronto tra il mio stile di ieri e quello di oggi, una sorta di cartina di tornasole, destino riservato, soprattutto ai miei primi scritti su questo blog.
...ma a differenza di un paio che sono finiti in bozze, questo l'ho cancellato, e dimenticato perfino di averlo fatto.
Non bisognerebbe cancellare mai nulla, che dagli scampoli degli scritti ripudiati, si può sempre ricavare materiale per altre nuovi, oppure lasciarsi la possibilità di una rielaborazione futura.
Conservo traccia di una precedente esistenza di Amanda e Jeremy, in questo vecchio "Block Notes" del 2008, dove è titolato "Amanda & Jeremy" i due nomi uniti da una & commerciale.
La storia, così come l'avevo confezionata, non mi convinceva, ma la trama, però, quella non l'ho mai dimenticata, come per tanti altri scritti ignominiosamente da me abiurati, e che talvolta mi tornano alla mente facendomi dolere anche un po' il cuore.
La trama la ricordavo a grandi linee, ma non il finale (confesso che della maggior parte dei miei racconti non lo ricordo, e non che ne abbia scritti un numero infinito, anzi, la mia è una produzione  davvero scarna, e non riesco a spiegarmi la causa di queste amnesie)  rammentando benissimo, invece, l'incipit, dal quale sono partita per questa nuova stesura cercando, per non snaturarne il senso,  di mantenermi, per quanto possibile, fedele a quegli scarni dettagli che ancora ricordavo, pr confezionarne uno nuovo di zecca, e con un lieto fine: un piccolo regalo per me stessa, sempre in carenza di ottimismo.

In realtà non sono soddisfatta neppure di questa nuova versione, troppo sdolcinata nella seconda parte, ma che pur avevo fretta di riportare alla vita Amanda e Jeremy, dopo che in quel mio vecchio block notes ho ritrovato le loro tracce, quando non esistevano già più nella realtà del mio blog.
...ad ogni modo il lieto fine se lo sono meritato, dopo essere rimasti a vagare, così a lungo incorporei, nei meandri della mia memoria.

venerdì 1 dicembre 2017

Sentinella

Affacciata alla finestra in attesa che faccia giorno, ma fuori è buio e la strada deserta: son da sola a vegliare sui destini del mondo.



mercoledì 29 novembre 2017

Amanda e Jeremy



(Pubblicato nell'antologia "Il tango di Cloe" da "Writer Monkey" Maggio 2018)


 Amanda e Jeremy s'erano incontrati, una mattina di primavera, in una remota  periferia romana dove lui s'era perso e lei gli aveva indicato la strada per tornare indietro. Ma lui indietro, però, non c'era tornato, preda dell'incantesimo istantaneo di quegli occhi da strega: e d'allora non s'erano più lasciati.
Amanda e Jeremy, così indivisibili che i loro nomi, perfino, venivano pronunciati come fossero uno solo, AmandaeJeremy, senza quel piccolo spazio che ne sanciva una loro simbolica individualità.
Lei minuta, occhi grandi nel piccolo viso triangolare, e atteggiamenti da bad girl, ma solo all'apparenza, che dal suo Jeremy, talvolta, ce le buscava, e senza sconti.
Jeremy, fisico da giocatore di rugby e spettacolari capelli rossi, che in virtù di quel colpo di fulmine aveva ripudiato la sua verde Irlanda a favore di quella periferia romana inglobata nel cemento, laddove Amanda gli aveva rubato il cuore.
Un amore burrascoso, quello loro, ma che nessuno dei due aveva mai messo in discussione, anzi, se qualcuno obiettava dubbi sulla liceità dei comportamenti del suo Jeremy, Amanda scattava su come una serpe, gli occhi furiosi nel piccolo viso triangolare, pronta a difendere il suo uomo, e il suo amore, dai paladini del politically correct, perché solo a lei sarebbe aspettato, in ogni caso, il diritto di dolersene.
Ad ogni modo nessuno s'era mai pronunciato, a tal riguardo, con accuse dirette verso Jeremy, che pure piaceva ai condomini, così educato, gentile, sempre pronto ad aiutare.
Un gigante buono, tranne quelle volte che, complice un bicchiere di troppo, si lasciava sopraffare da quella sua bieca emotività.
«E' che lei mi fa proprio incazzare.» Si discolpava, indicando Amanda, senza infingimenti, con aria innocente e con tutti gli accenti sbagliati, che della lingua italiana aveva imparato a pronunciare, in maniera corretta, solo le parolacce.
Che Amanda e Jeremy si amassero, però, era fuori discussione, come attestavano, con un sorriso ironico e colmo di sottintesi, i vicini, testimoni delle esplosioni di rabbia quanto di quelle d'amore.
Che quelli si erano proprio fuochi d'artificio, che un po' di discrezione non sarebbe guastata,
 almeno nel rispetto per chi quelle cose le aveva dimenticate o non gli riusciva più di tentava di farle, e per i bambini, anime senza peccato, che le pareti sono sottili come carta velina, e se si sentono i sospiri figuriamoci gli orgasmi, anche se però è bello sapere che qualcuno ancora pratica l'antica arte dell'amore.
Questo aveva detto, con un sorriso malizioso, l'inquilina ultra ottantenne del piano di sotto, anche lei testimone indiretta, ma attenta, di quelle loro intemperanze amorose: «Di che vi lamentate, bacucchi che non siete altro? Non siete stati giovani anche voi? Memoria corta, a quanto pare. E sono altre le cose di cui lamentarsi, quelle sporche davvero. Lamentatevi di quelle!»
E aveva ragione!
Sono altre le cose sporche di cui recriminare, basta affacciarsi alla finestra e respirare lo smog che annerisce perfino i raggi del sole, soffermare lo sguardo sui palazzoni incolori e il paesaggio di cemento che li circonda, o sull'erba del cortile, stentata e gialla, che mai diventerà verde. Mai germoglierà un fiore.

Amanda porta in giro il suo pancione da par sua, pantaloni a vita bassa e ombelico in evidenza, la gravidanza le ha arrotondato i contorni del viso e addolcito perfino il suo slang romanesco, ma non ha però smesso l'aria da guerriera, quella è nel suo dna, perché non è un atteggiamento ma il suo modo di essere.
Tra un po' nascerà il bambino, e per lui ha già deciso il nome, Patrick, come il nonno di Jeremy e il santo patrono d'Irlanda, dove tra qualche mese si trasferiranno per via del miraggio di un lavoro stabile.
Jeremy, dal giorno che il test della gravidanza è risultato positivo, non ha più toccato un bicchiere di alcunché, e tenuto le mani a posto. D'altro canto Amanda ha imparato a tenere a freno la lingua e, paradossalmente, il non aver sempre l'ultima parola le è valso il diritto di replica che saggiamente esercita, senza troppo strafare, cosciente che quell'equilibrio conquistato va stabilmente mantenuto e consolidato, soprattutto ora che le loro vite stanno davvero cambiando, con quella nascita e quella partenza.
E' bello vederli insieme, lui così alto che un po' deve ingobbirsi per camminare abbracciato a lei, ma è una di quelle cose che più gli piace di loro due, perfino del sesso, perché non c'è niente di più bello che poter aspirare il profumo dei capelli della sua donna e saggiare la fragilità di quel corpo minuto, ma pure così solido, da contenere un bambino, che lui immagina raggomitolato come un gattino all'interno di una cesta.
E questa immagine lo fa sorridere, e allora pure Amanda sorride, senza un vero motivo, per complicità e amore, e gratitudine per tutta quella bellezza che lei non saprebbe raccontare ma che pure sente circondarla. Per quel qualcosa nell'aria che colora d'arcobaleno lo squallore di quello spicchio di mondo lasciato colpevolmente incolto, con una sensazione magnifica come uno stato di grazia, quel suo  pezzetto di casa, e di patria, che porterà con sé in Irlanda, e da cui, ne è sicura, germoglieranno miriadi di fiori.

domenica 26 novembre 2017

martedì 21 novembre 2017

Isabel, scrittrice per amore (cap 2)


 (Pubblicato nell'antologia "Il tango di Cloe" da "Writer Monkey" Maggio 2018)



LUI

Dopo qualche settimana mi giunse uno spettacolare bouquet di rose screziate, accompagnate da un bigliettino: Grazie, Isabel  per aver quel giorno scongiurato la terza guerra mondiale.
Rose screziate, le mie preferite: un semplice caso, oppure, molto più probabilmente, s'era informato sui miei gusti floreali?
Mi era già accaduto altre volte di ricevere ringraziamenti postumi per il mio lavoro, per cui questo rientrava nella norma, così come che i clienti soddisfatti consigliassero la mia agenzia a parenti ed amici in procinto di sposarsi, così quando lui mi contattò per prendere appuntamento per un suo amico intenzionato al grande passo, io non ci trovai nulla di strano.
Ma trovai strano che ad accompagnare il suo amico, invece della futura sposa, fosse lui.
Ad ogni modo, io e il  mio nuovo cliente, facilmente ci accordammo sulle linee guida della cerimonia, fissando un secondo appuntamento per definire i dettagli, questa volta insieme alla sposa.

«Le andrebbe un caffè, Isabel?»
Eravamo rimasti soli, che l'amico, dovendo prendere un aereo, s'era già congedato.

«Come sta la sposina? E la gravidanza, procede bene?»
«A meraviglia, se non fosse per la sciagura di dover prender chili e della necessità conseguente di ritornare al peso forma, dell'allattamento che rovina il seno e delle odiose smagliature che deturpano la pelle, per cui, allo scopo, sono già stati assunti una nutrizionista, un personal trainer e una baby sitter.» Aveva fatto l'elenco delle impellenti necessità della giovane moglie in tono divertito, ma avevo rilevato nella voce una nota d'insofferenza.
«E' ancora così giovane, le dia tempo.» M'ero sentita in dovere di prenderne le difese in nome di una solidarietà femminile che in realtà, verso di lei, non sentivo.
«E' semplicemente molto viziata e molto infantile. Non crescerà mai.» Aveva ribadito sconfortato.
«Non è una buona previsione questa sua. L'aiuti lei a maturare.»
«E' sempre così ottimista, Isabel?» Mi aveva sorriso senza allegria
«Ma allora perché l'ha sposata?»
«Non ho avuto alternativa.» 
«C'è sempre un'alternativa.» 
«Visto che avevo ragione? Lei è un'ottimista e della specie peggiore: quella degli inguaribili.»
...e su questa sua constatazione scoppiamo a ridere.

Iniziò così uno scambio serale di messaggi, piccoli incisi sull'andamento della giornata correlati da brevi riflessioni personali. Niente di intimo, ma quello scambio di pensieri era diventato un piacevole appuntamento, così quando per un paio di sere consecutive non avvenne, constatai, con una qualche
inquietudine, quanto per me fossero diventati, invece, indispensabili, e così quando la sera sul mio cellulare si materializzò il suo messaggio" Isabelmi sono innamorato di te," risposi, "anch'io".

NOI
E fu amore, passionale, travolgente, esclusivo.
Ogni momento libero era finalizzato allo stare insieme, e per questo iniziammo ad inventare pretesti e bugie e alibi, e a costruire una sorta di vita, segreta e parallela, a quella pubblica.
Avevamo affittato una piccola casa in riva a un lago, in un posto sperduto per evitare incontri inopportuni, dove trascorrevamo le giornate senza neppure mai uscire, appagati solo di poter stare insieme, gelosi di quella nostra meravigliosa solitudine, e del racconto intimo che da essa scaturiva.
Ma per essere felice dovevo costringermi ad ignorare la montagna di bugie su cui poggiava la nostra relazione, quel costante dover vivere nell'ombra per poter essere vicini al sole, in quella concertata finzione esistenziale dove pure, in caso di necessità, era contemplata l'abiura.
Niente a che vedere con il limpido, onesto, vittorioso amore dei miei genitori, felicemente esplicitato alla luce del sole ad onta di ogni meschinità intellettuale e societaria.
Loro non avevano mai avuto bisogno di ritrovarsi per ricostruirsi in una vita parallela, perché mai si erano persi né allontanati da quella reale, che di certo non contemplava, neppure in caso estremo, il ripudio.

Eppure le poche, isolate persone, con le quali ci capitò di rapportarci nel nostro status di coppia clandestina, ci percepivano perfetti e indivisibili, e la nostra somiglianza fisica contribuiva a supportare l'idea di una più intima somiglianza spirituale.
E lo era, oh si, lo era, senza ombra di dubbio, all'inizio così è stato, così profondamente compenetrati che niente di mio era ignoto a lui, e viceversa.
Presagivo la sua chiamata l'attimo precedente lo squillo del telefono, anticipavo la disdetta di un nostro appuntamento ancor prima che me lo comunicasse, così come preconizzavo la gioia di un suo arrivo non annunciato.

Ero talmente piena della certezza di quell'amore che non ho mai provato gelosia nei confronti di sua moglie, e mai a tal riguardo gli ho fatto una scenata, né tenuto il broncio, seppur come talvolta capitava accadesse di non poterci vedere per un motivo a lei contingente.
Lei, era la sua vita di facciata.
Io, quella vera.
Per cui, su quella sua vita di facciata, non facevo domande né pressioni: mi bastava averlo nel modo in cui lo avevo. Nel modo appassionato in cui mi desiderava. E la certezza che solo con me così  potesse essere.

Follemente innamorata, respingevo la tentazione delle lacrime e quella dei rimproveri, che pure m'assalivano nei momenti di solitudine, immaginando che per lui, sposato e presto padre, fosse molto più difficile che per me gestire quella nostra storia clandestina, e ancor di più lo sarebbe stato se l'avessi condita con i miei rimbrotti.
In realtà avevo paura di perderlo, ed era questa la ragione dei miei "non ti preoccupare" e "non importa": gli anestetici per le sue ansie, ma non per le mie.

VERSO L'AUTODISTRUZIONE
«Un uomo che ti costringe a vivere nell'ombra non è davvero innamorato, almeno non così tanto da desiderare di riscattare, per te, il sole.»
Mi diceva mio padre, carezzandomi i capelli e asciugandomi con la mano quelle mie lacrime che non sgorgavano, ma che lui vedeva.

Pragmatico, invece, l'avvertimento di mia madre: «non si va lontani, Isabel, se le ruote non convergono nella stessa direzione, prima o poi sarai costretta ad una sosta forzata e consapevolmente dovrai decidere se equilibrare i pneumatici e proseguire il viaggio, oppure considerare la piazzola d'emergenza, dove ti sei fermata, come il tuo approdo finale.»

Più si avvicinava il tempo del parto più diradavano i nostri incontri: inevitabile che così fosse, e il fitto scambio di messaggi serali non colmava il vuoto fisico e il senso di distanza.
Quel vuoto dove io sempre più rimpicciolivo e ingigantiva, solida e consistente, quella che fino ad allora avevo considerato la sua vita di facciata.
Così, per la prima volta dall'inizio della nostra relazione, presi ad immaginare, animandoli, quegli intimi scenari di vita famigliare che fino a quel momento m'ero costretta ad ignorare.
Fu per me devastante.
Iniziai, allora, un silenzioso pedinamento, di cui profondamente mi vergognavo come di un gesto meschino, che insozzava me prima ancora che lui.
Mi ero convinta di dovermi sporcare fin dentro l'anima se volevo uscirne purificata, attraverso l'acquisizione della realtà, da cui avrei tratto le motivazioni e la forza indispensabili per accettare la sua altra vita.
Un tentativo, questo mio, per arginare quel rancore che, nelle sue sempre più frequenti defezioni, sentivo montarmi dentro come un fiume in piena che mi avrebbe travolto.
Ci avrebbe travolti.

Ma non ci riuscii, e mi lasciai sopraffare dall'emotività.
Presi a rinfacciargli, con voce stridula e meschine insinuazioni, la sua risposta tardiva a un mio messaggio o a una mia telefonata; un suo "Isabel, non mi è davvero possibile oggi, raggiungerti" innescava, da parte mia, estenuanti interrogatori a cui all'inizio con pazienza cercava di controbattere ma che poi, raggiunto l'estremo grado di sopportazione, si limitava a chiudere la comunicazione.
I miei approcci divennero allora minacciosi, feroci, ingiuriosi.
Così non rispondeva più alle mie chiamate al cellulare né al fisso, e allora ripresi più intensamente i miei pedinamenti.
Durante uno di questi mi vide e capì ciò che stavo facendo: mai dimenticherò lo stupore, e poi il disprezzo, nel suo sguardo.
Mi vidi con i suoi occhi, sciatta e disperata, appiattita contro il riparo di un muro, mentre avida lo spiavo per alimentare il mio bisogno quotidiano di rancore: un pane che non sazia ma affama.

Fino a quel momento non m'era importato più nulla, né di me stessa, ridotta ormai ad un'ombra ostile, né del mio lavoro, di cui avevo decretato il fallimento, né dei miei genitori, che inutilmente avevano tentato di arginare, con la ragionevolezza, questa mia follia autodistruttiva.
Fino a quel momento non m'era importato più di niente e di nessuno,  prima di quel suo sguardo, stupito e sprezzante, che aveva misurato, per me, la profondità dell'abisso in cui ero precipitata.

VERSO LA GUARIGIONE
Con le ultime forze residue raccolsi ciò che rimaneva di me, accingendomi ad intraprendere un percorso di guarigione tramite la psichiatrica, che mi ha incentivata, attraverso la scrittura terapeutica, a recuperare il senso di me stessa riconvertendo in parole le mie emozioni, per non farmi inghiottire dal loro peso, e ritrovare, tramite il pensiero scritto, quella chiarezza che avevo smarrito.
Aprii un blog che titolai "Isabel, scrittrice per amore": un diario on line in cui avrei raccontato l'amore in tutte le sue sfumature, come quelle luminose della storia d'amore dei miei genitori, a quelle in penombra, come invece era stata la mia. 
Pensieri che hanno trovato eco in tanti altri cuori e rispecchiato altre storie come la mia, che ciò che a noi pare esclusivo si rivela, poi, esperienza comune.
Chi ha vissuto un'intensa storia d'amore non vuole davvero cancellarla, non del tutto almeno.
Si è indotti, quasi sempre su sollecitazioni esterne, a credere di voler dimenticare, ma questo solo per proteggersi dal giudizio del mondo che facilmente rigetta le motivazioni, base e sostanza, delle storie d'amore sbagliate.
Ma esistono amori sbagliati?
No, non esistono. Era questo che mi avevano svelato i racconti nelle mail che ricevevo in grande numero, tante storie diverse ma il cui soggetto era sempre, ed esclusivamente, l'amore. Così, col consenso dei latori delle mail,  ho iniziato a raccontarle per loro.
E poi questa piccola, variegata raccolta, ha destato l'interesse di un editore, trasformandole in un libro di grande successo, un vademecum, una carta planetaria dell'amore, costellata di punti di partenze e nessun punto d'arrivo.

ISABEL, SCRITTRICE PER AMORE
Se nella mia altra vita, con la mia professione di wedding planner, ho contribuito a materializzare il coronamento di tanti sogni d'amore, ora, in questa nuova, mi cimento con le morti e le rinascite, gli inferni e i paradisi, e gli inevitabili purgatori.
E tutto diventa racconto.
 Quel racconto salvifico che aiuta a far luce nel nostro buio interiore.

Ho iniziato a raccontarmi in una lucida autobiografia, correlata ad ogni capitolo da una poesia.
Poesie dedicate a lui, perché non sono ancora guarita da quell'amore, e forse non lo sarò mai del tutto, ma sono però riuscita ad epurarlo dai veleni del rancore e da quelli dell'ossessione, riconducendolo sul piano dell'accettazione, per merito della fredda, salvifica analisi, a cui io, lo confesso, all'inizio del mio percorso ho opposto strenua resistenza, come chi malato da lungo tempo teme la guarigione perché ormai avvezzo a vivere in simbiosi coi sintomi della malattia da cui ha scaturito una sorta di sicurezza, di prevedibilità. Una routine senza la quale si sentirebbe perso.
Estirpando il male avrei anche estirpato la causa che lo aveva generato, ed era a questo che io mi opponevo. Tutta la mia disperazione, ma anche tutto il mio amore, sarebbero stati svuotati del loro solenne senso, ridimensionati nel loro valore, ridotti a semplice parentesi esistenziale: un'abiura.
Ma si può guarire senza doversi rinnegare, nella consapevolezza di se stessi, ritrovando nelle proprie certezze interiori, quell'orgoglio che ci rende liberi dal giudizio morale del mondo, sia esso di condanna o di assoluzione.
Perché la guarigione non è mai un miracolo, ma una conquista.

Ti amo, ma la cosa non ti riguarda.
Sarà questo il titolo della mia prossima raccolta di poesie, ovviamente dedicata a lui.
L'ultima.
...forse.

venerdì 17 novembre 2017

Isabel, scrittrice per amore (cap 1)


(Pubblicato nell'antologia "Il tango di Cloe" da "Writer Monkey" Maggio 2018)


 
Capita che l'amore faccia male, ma senza quel dolore, per alcuni, la vita non ha senso.
...e per continuare a sentire quel dolore, senza cui non avrei potuto vivere, ho iniziato a scrivere.
(Isabel, scrittrice per amore)

LA PERFEZIONE DI UN'AMORE
Mio padre costruiva aquiloni, mia madre, invece, imbullonava auto, sono cresciuta, così, con la certezza che al mondo tutto fosse possibile per amore, rivoluzionare, modificare, reimpostare, visto che per i miei era stato possibile farlo attraverso questo stravolgimento dei ruoli, che lungi dall'esser metafora era vita reale.
Quando tornavo da scuola c'era mio padre intento ai fornelli a prepararmi il pranzo, che il suo lavoro di costruttore di aquiloni lo svolgeva nella mansarda di casa, per essere più vicino al vento, come amava puntualizzare.
Non saremmo di certo sopravvissuti con la sua effimera arte, a cui sopperiva, invece, mia madre, con il suo lauto stipendio di meccanico specializzato.
Questa situazione, ritenuta anomala perché antitetica agli standard societari, (mio padre faceva un non-lavoro e mia madre, invece, un mestiere da uomo) era stata lungamente osteggiata dalle reciproche famiglie, ma poi lei era rimasta incinta e sono nata io, evento che forse ha contribuito a ristabilire una seppur illusoria correttezza dei ruoli, anche se durata solo il breve periodo della gravidanza, perché  poco dopo il parto è tornata a lavorare, affidandomi, per la maggior parte del tempo, alle cure di mio padre che trascorreva ore a saggiare la velocità del vento per collaudare i suoi meravigliosi aquiloni, mentre lei, invece, passava le ore stesa sotto la pancia di un'auto per accertarsi della sua tenuta su strada.
Ad ognuno la propria realizzazione nella certezza della reciproca condivisione: è questo l'amore.

Mio padre e mia madre, così diversi e al primo sguardo incompatibili, insieme erano perfetti, ma non così io e lui, seppure addirittura ci somigliassimo perfino fisicamente, tanto da esser scambiati per parenti, fratelli o cugini, e dare l'idea di possedere non solo lo stesso dna ma anche lo stesso cuore.
E così è stato all'inizio della nostra storia.

Per esigenze di privacy continuerò a chiamarlo "lui" omettendo il suo nome, per rispetto e pudore di quel sentimento che ancora testardamente nutro, e scongiurare una sua, seppur remota identificazione, affinché nessuno possa fargli addebito della mia infelicità.
Sarà questo il mio ultimo atto d'amore.

UNA STORIA SBAGLIATA
Ho respirato amore fin dal primo giorno della mia vita, ed è stato quasi naturale, da adulta, che io diventassi una "wedding planner" pianificatrice di matrimoni, professione che paradossalmente  mi ha catapultata nel mondo del reale, strappandomi all'atmosfera idilliaca nella quale ero cresciuta maturando la distorta convinzione dell'infallibilità dell'amore, e consegnandomi ad una più equilibrata consapevolezza della sua, invece, fragilità, avvallata poi dall'esperienza professionale, che però non è servita a preservarmi dall'infelicità.
Personalmente credo che non sia il sacramento del matrimonio a sancire l'amore, io ho sempre pensato, per quel che mi riguarda, che pur incontrando l'uomo della mia vita non mi sarei mai sposata, o se l'avessi fatto avrei optato per una cerimonia scarna e molto intima, perché conosco troppo bene i retroscena e gli inganni di questa messa in scena per volerla adattare a me stessa, anche se questo non mi ha depotenziata nel mio entusiasmo professionale, che mi è valso notorietà e clientela.
In quest'ambito ho incontrato tante coppie e conosciuto le loro storie, di alcuni mi sono giunti anche i finali, e non tutti degni dei fasti dell'altare, perché l'amore per alcuni è finzione, per altri illusione e per molti un inganno.
Ed è sempre in quest'ambito, e in base a statistiche neppure troppo azzardate, che ho incontrato lui, proprio ad un matrimonio: il suo.
Una storia sbagliata, che mai sarebbe dovuta iniziare, ma quando ci si trova intimamente coinvolti non sempre si riesce lucidamente a riflettere, anche se Dio sa quanto ho tentato di farlo.
Matrimonio anticipato e di gran fretta, che la sposa, già al secondo mese di gravidanza, scalpitava, che se fosse aumentata anche di una sola taglia non avrebbe potuto indossare l'abito dei suoi sogni.
Una sposa molto giovane, molto bella, molto ricca, molto prepotente, di quelle abituate ad avere il mondo ai piedi, a non sentirsi mai dire no, ma alla fine destinate a non avere più alcun desiderio d'avverare, nessun progetto da realizzare. Nessun sogno su cui fantasticare.
Sembrerà strano, ma per lei, viziatissima ragazza, ho provato tenerezza e tristezza, l'ho vista come una reclusa a cui, però, venendo concesso tutto, la si priva della volontà di voler evadere.
Ed eccola, allora, futilmente dispiegare tutte le sue energie al solo fine di poter indossare un principesco abito bianco che non l'avrebbe resa di certo più bella, perché su di lei anche la più semplice delle sottovesti sarebbe stata incantevole.
Un abito che non avrebbe mai più indossato, dimenticato nel fondo di un armadio, sommerso da  una miriade di altri abiti principeschi.
Erano la sposa e la madre, una donna dallo sguardo mansueto sotto la fronte spianata dal lifting,  ad occuparsi, con me, dell'organizzazione della cerimonia e anche del viaggio di nozze, che tutto doveva essere pianificato nei minimi dettagli, così da scongiurare  imprevisti ed avventure, insomma quelle cose che, a parer mio, amplificate nella narrazione con effetti speciali, sarebbero state invece ricordate negli anni futuri con un sorriso, e avrebbero notevolmente arricchito di un'eredità aggiuntiva, figli e nipoti.
A saldare i conti, invece, erano incaricati il padre della sposa, un anziano uomo grintoso, e il futuro marito, un giovane dai modi cordiali: lui.

CONTATTI TELEFONICI

Isabel, non è che il suo albero genealogico vanta parenti texani?
Un'emoji dubbiosa a siglare il suo interrogativo.

Anche lui aveva rilevato la nostra somiglianza fisica: stessi occhi verdi dal taglio allungato, sopracciglia ben distanziate, fronte e zigomi alti, capelli bruni e ribelli, ad incorniciare il viso dai tratti regolari e dalla carnagione chiara.

Le mie origini sono inglesi, Londra, per la precisione. E i miei genitori sono gli unici immigrati della famiglia. Escludo qualsiasi parentela texana.
La mia risposta corredata da uno smile.

Ho un fratello maggiore, ma ho sempre desiderato una sorella. Posso adottarla come tale?
A seguire un piccolo cuore.

Ha la fortuna di avere un fratello, se lo tenga stretto, glielo suggerisce una figlia unica.
Faccina ironica, a chiudere la conversazione.
 

CONTATTI MECCANICI
E forse non ci sarebbe stato seguito se non che il giorno stesso delle nozze, l'auto nuziale, una "Limousine Extra Lusso President", non si riusciva a mettere in moto, e questo aveva scatenato l'isteria della sposa poiché il meccanico di famiglia risultava irraggiungibile al cellulare, e allora sono stata interpellata d'urgenza per trovare un rimedio.
La soluzione l'avevo pronta, in casa, e seppure con qualche fatica convinsi mia madre, ormai in pensione, ad accompagnarmi in veste di meccanico.
Ovviamente la sua apparizione, in tuta da lavoro e cassetta degli attrezzi, aveva destato scetticismo ed imbarazzo, che pur è vero che qualunque sia il secolo in corso riaffiorano sempre gli stessi pregiudizi, ma che lei, la mia incredibile madre, chinata sul motore come un chirurgo sul torace di un cardiopatico, concentrata ad auscultare battiti e vibrazioni per individuare il mancato contatto che generava l'aritmia, aveva spazzato via con un'alzata di sopracciglio, quando il motore, senza neppure un tentennamento, aveva ruggito tutta la sua potenza.
Alla fine, per lei, applausi e strette di mano, per quel duplice miracolo: la messa in moto dell'auto e aver disinnescato la collera della sposa.

martedì 14 novembre 2017

Isabel


Isabel che non dorme mai e passa le sue notti alla tastiera del computer, come fosse a comporre melodie a un pianoforte ma, in realtà, limitandosi a raccontare dei suoi incubi o di quei sogni magnifici, destinati a rimanere desideri.

Isabel, avrei voluto chiamarla in altro modo che già, nello scarno carniere dei miei racconti, una Isabella esiste, (la diabolica bambina protagonista nella storia "Latte")  ma lei fieramente si è opposta: il mio nome è questo e tale rimane! e a questo suo imperativo io non ho più addotto obiezioni, che lei, la Isabel in questione, ha subito fatto mostra di un carattere deciso in contrapposizione ad un aspetto minuto.

 Isabel, dunque, l'ho incontrata nello studio medico dove anch'io ero a far la fila per la prescrizione di un farmaco, possibilmente potente, che mi guarisse dal morbo dell'insonnia, sedute vicine è stato quasi naturale prender chiacchiera, che pure mi aveva colpito questa donna dall'età indefinibile, il cui fisico asciutto, e ben proporzionato, benissimo poteva essere quello di una ragazza, in contrasto con le mani ed il viso che, invece, rivelavano un qualche inganno.
...e gli occhi, di un verde ombroso, velati dalla patina dell'insonnia, che pure scrutavano intorno attenti e senza fretta, con la pazienza tipica di chi è abituato a confrontarsi con l'eternità e non calcola più il tempo sui normali parametri dei secondi, perché l'insonnia, alla fine, diventa stile di vita.

 Sono una scrittrice.
L'ha detto quando la conversazione stava languendo.

Anch'io!
Ho risposto con un sorriso largo e l'entusiasmo nella voce (in verità io non sono una scrittrice intesa nel senso classico del termine, io scrivo in un blog, ma sull'onda dell'eccitazione non ho saputo trattenermi).

Lo so.
Ribatte con un sorriso Isabel.

Lo sai?
Esclamo meravigliata
Come fai a saperlo? Non sono mica famosa, e non ho mai neppure pubblicato nessun libro.
Aggiungo, incredula

Isabel -  Al pari di te, l'unica motivazione per cui scrivo è quella di alleggerire l'anima, e per questo non occorre un editore, poi qualcuno si è interessato ai miei scritti e si è proposto di espanderli, tutto qui il segreto del mio successo, che personalmente non mi sarei mai dannata per la notorietà. A dirla tutta pensavo che nessuno leggesse le mie cose, e che pure ci fosse stato, per me sarebbe stato secondario, che ho sempre scritto per una persona sola, un uomo, che probabilmente non avrà mai letto un mio rigo. Scrittrice per amore, era questa la sola motivazione del mio scrivere, per tentare di penetrare l'indifferenza del suo cuore con la magnificenza della poesia, ma ho fallito nonostante mi sia, invece, giunta la fama, che se ti dico chi sono, il mio nome d'arte, tu davvero stupiresti, ma non te lo dirò, perché in questa mia storia che andrò a raccontarti io voglio essere solo Isabel, e solo come tale raccontata, e solo come tale giudicata.
Io - Perché hai scelto proprio me che non avendo pubblico sarà ancora più difficile che a lui giunga il tuo messaggio?
Isabel - Perché questo racconto sarà solo per me...e forse anche per te, che molto di più, oltre l'insonnia, abbiamo in comune
Io -  Hai già un titolo per questa tua storia?
Isabel - Isabel, scrittrice per amore.

Questa la storia del nostro incontro, mentre quella di "Isabel, scrittrice per amore"...date il tempo a lei di raccontare e a me di scrivere.

domenica 12 novembre 2017

L'amore. L'amore. L'amore.



Cosa stiamo festeggiando?
Chiedo stupita ad Amaranta, dopo aver accolto la sua richiesta perentoria di scendere nell'antro e partecipare anch'io alla festa.

Niente che riguardi singolarmente qualcuno di noi, ma qualcosa che ci riguarda tutti: l'amore.
E la sua voce diventa morbida, così come morbide sono le sue labbra che mi sfiorano la bocca.

L'amore. L'amore. L'amore.
Continua a ripetere ridendo, mentre piroetta con un Iggy stralunato ma felice, inconsapevole della parola amore ma al settimo cielo di essere lui il prescelto per quella giostra vorticosa.

Iggy emette brevi suoni appena percettibili e subito risucchiati all'interno, credo sia il suo modo di ridere o di manifestare entusiasmo, mentre vortica tra le braccia di Amaranta a cui innocentemente s'abbandona con lo sguardo perso dell'innamorato.
Il piccolo serial killer defraudato del suo destino, d'improvviso si ritrova catapultato nel girotondo delle possibilità infinitesimali, di cui tutto ignora e a cui, però, istintivamente ancora il suo primitivo desiderio d'amore.
...amore, anche se solo per un momento corrisposto.

L'amore. L'amore. L'amore.
 Non è la magia a cui tutti aspiriamo? Quel miracolo moltiplicato per l'eternità?
...a quel miracolo a cui un tempo anch'io ho anelato, e in alcuni momenti ho creduto realizzato, ma i cui fallimenti, invece, sono stati i fattori determinanti alle mie complicazioni esistenziali, che se oggi, nell'età matura, ho scoperto benissimo poter sopravvivere senza, decisamente che questa constatazione, solo recentemente acquisita (che la mia ricerca, anzi la mia speranza, nel corso degli anni si è auto alimentata nonostante le mie negative previsioni) m'avrebbe, invece, enormemente giovato nel passato.

Ma queste congetture non cambiano di un'acca il mio presente, quindi tanto vale lasciarsi travolgere dall'entusiasmo del momento, che pure è bello partecipare a questa festa odierna, non programmata, e in onore di nessun'altro che noi stessi, una comunità di orfani rigenerata in virtù di quell'amore che pure un tempo ci è sfuggito, o non abbiamo saputo trattenere.

E tutti partecipiamo, a nostro modo, a questa festa meravigliosa: Lizard/Monnalisa, la lucertolina bionda, con movimenti aggraziati svirgola la sua codina, assecondando il ritmo della musica, mentre Robinson, il topolino naufrago, a pochi passi da lei, timidamente, e poi sempre più sicuro, si esibisce in un canone inverso. Mai stati così vicini, quei due, e così in sintonia, che quella loro è solo un'apparente discordanza armonica, quella stessa degli innamorati che fingono reciproca indifferenza ma che in realtà appassionatamente si desiderano.

L'amore. L'amore. L'amore.
E come evocato da una magia, o dal richiamo del mio cuore, Cagliostro, il mio gattone nero, si materializza sulla soglia, e mi guarda coi suoi occhioni tondi di bambino, incerto se varcare l'uscio o più prudentemente, vista la presenza di Iggy, rimanere sul limite e lasciarsi una via di fuga.
... un impasse che dura solo un breve attimo, perché lo prendo tra le braccia e insieme ci lanciamo nel vortice della festa.

mercoledì 8 novembre 2017

Uno strampalato Olimpo


Rileggendo i miei racconti più vecchi mi sono resa conto, con divertita sorpresa, della presenza costante, e con ruoli di un qualche rilievo, di pennuti di varie specie: un uccello delle tempeste e un gallo orbo ne "L'ISOLA",  un fagiano ammaestrato  ne "LA STORIA DI ANDRES RUBIO", una gallina nevrotica in "UNA STORIA ASSURDA", un'allodola sacra presente in ben due racconti, "ULTIONEM" e "L'UOMO DELLA PIOGGIA" , il superbo pavone di "HEUROPA", e l'ultimo arrivato, il pappagallo Van Gogh ne "IL FIORE DEL MIO GIARDINO"
...e mentre sto scrivendo quest'annotazione sento un pur sommesso frullio d'ali provenire dalle pagine più interne del mio blog, che in questa mattinata di diluvio universale costituiscono l'allegro controcanto al frustrante, monotono scrosciare della pioggia.

A questa piccola, pestifera accozzaglia di umili animali da cortile, (tra cui ascrivo anche il meraviglioso pavone di Heuropa che, nonostante l'aspetto esotico, appartiene alla stessa famiglia degli altri gallinacei) ho affidato ruoli di rilevanza, se non addirittura da protagonista, come è stato per la gallinaccia isterica  di"Una storia assurda", che rocambolescamente ha sfidato la più potente ed invincibile di tutte le creature: La Morte, adempiendo al suo compito, con valoroso eroismo.
...ma in quanto ad acrobatiche peripezie non è da meno l'enorme fagiano addestrato nell'arte del controcanto come in quella del borseggio, compagno di avventure di Andres Rubio, cerusico, sperimentatore ed ipnotista, e del suo compare, il nano Galeno, in una storia a minaccia inquisizione.
..nessuna minaccia, invece, per l'uccellino delle tempeste e il gallo orbo, il cui ruolo di sentinelle su "L'Isola", non comporta altro rischio se non quello del loro innamoramento per Kalifa.
...mentre solo, apparentemente, alcun rischio pare correre il meraviglioso pavone di "Heuropa", che fedele al suo stereotipo si limita a far meravigliosa mostra di sé all'interno di una voliera, seppur questa sua  presenza, anche solo passiva, influirà sul destino finale della protagonista.
...destino che, invece, l'allodola sacra a Santa Lucrina, in felice sinergia con Lucrina, la protagonista che porta lo stesso nome della santa, si realizzerà in maniera benigna, per ripristinare la giustizia a lei negata in "Ultionem". La stessa sacra allodola che, all'opposto, rifiuterà il miracolo della pioggia ai pavidi, opportunisti seguaci di Don Saverio, ne "L'uomo della pioggia", condannandoli, senza possibilità di riscatto, al loro irreversibile destino.
...destino a cui pare miracolosamente esser scampato l'ultimo arrivato, il pappagallo Van Gogh, reduce dalla sua disavventura in "Il fiore del mio giardino", amorevolmente curato da Veronica Sorrentino, che a far da coprotagonista in una storia dove ci s'infila il malanimo, qualche rischio sempre si corre.

...eppoi l'immagine della civetta che magnificamente correla questo mio post, ma di lei non troverete traccia in nessun mio racconto, (non ancora, almeno) che pure un animale così controverso, amato e odiato, malefico o benefico secondo l'ora in cui si mostra, simbolo di sapienza, perché sacro alla dea Atena, o anima nera di strega, è tutto e il contrario di tutto, affascinante metafora di tutte le nostre mai risolte, umane contraddizioni
 ...di certo anche lei meriterebbe un posto di riguardo in questo mio strampalato Olimpo.

domenica 5 novembre 2017

Ritorno al dark

...eppure le ore vuote bisogna riempirle, e qualunque cosa abbia un volume può fare al caso, anche il dolore. Soprattutto il dolore, fra tutti gli stati d'animo, è il più invasivo. L'opzione più facile ed immediata. Quella che subito dentro s'insedia non lasciando posto a null'altro che non alle sue stesse maligne ramificazioni.

Questo dolore indotto è il cilicio col quale espiamo la colpa di esser vivi e il desiderio di non esserlo, che non è un rigettare la vita in senso generale, ma solo la nostra nell'incapacità a poterla cambiare.
...ma togliersela, quella vita, per quanto pesante ed inutile, è davvero difficile, ci vuole il coraggio della disperazione ultima, quella serranda ermeticamente chiusa da cui non trapela più nessuno spiraglio di luce.
Buio assoluto. Sigillato. Insondabile.
Ed è in quel buio che si consuma, con la disperazione, la certezza di aver fallito la propria vita.
...quando non sortiscono più alcun effetto palliativo nemmeno gli inganni psicologici, quelle favole raccontate a noi stessi, nelle lunghe ore di solitudine a cui, nonostante l'enorme sforzo mentale profuso nella cura dei particolari e in quello delle sequenze logiche, non riusciamo più a credere.


Ritorno al dark, al buio della mia remota disperazione esistenziale, che un tempo ha trovato qui il conforto delle parole, ma che oggi, invece, tragicamente muta si rifugia nell'eremo inaccessibile della mia testa, rifiutando, annoiata, l'esternazione e il confronto, di questo inutile, sfinente, controinterrogatorio allo specchio.
Marilena

mercoledì 1 novembre 2017

Le ali di Icaro

Come Icaro progettiamo ali per scalare il cielo, e come lui precipitiamo, invece, negli abissi.



martedì 31 ottobre 2017

L'ultimo baluardo



Non riesco più a scrivere, confido ad Amaranta, mentre continuo a rimestare col cucchiaino nella tazzina di caffè.
Non riesco più a vivere, rettifico d'impulso.

Siamo sedute sui gradini esterni la porta dell'antro: lei a fumare un cigarillo, io a rimescolare all'infinito il mio caffè.

E sono tanto stanca, aggiungo con un sospiro.
Lei, allora, mi toglie la tazzina dalle mani e mi offre il suo cigarillo.

Fai un tiro, mi dice, dopo, vedrai, che starai meglio.
Aspiro avida aspettando il miracolo promesso di quel suo "dopo, vedrai, che starai meglio", ma quello che sento è solo un sapore acido, che mi disgusta.

Come fai a fumare questa roba? fa schifo! esclamo, restituendoglielo nauseata.
Lei ride divertita, scuote la testa e dice, ricominciamo da capo, mentre tra le sue mani si è materializzata l'elegante scatola dei suoi Moods.

Quando ti predisponi a fumare un cigarillo, non devi aver fretta, perché è un piacere quello che andrai ad assaporare.
Mi spiega paziente.
Lo annusa e poi con un fiammifero lo accende tenendolo in mano, e solo quando la fiamma annerisce l'estremità, tira due brevi boccate per completarne l'accensione.
Tirate lente, delicate, opportunamente distanziate tra una pausa e l'altra.

...e senza fretta e senza nervosismo, per evitare il surriscaldamento del tabacco e ricavarne poi quel sapore acido, sgradevole, che ti ha così disgustata. E non scenerare, aspetta che la cenere cada da sola, perché è quella a far bruciare in modo ottimale il cigarillo.
Mi spiega porgendomi un nuovo sigaretto.

Diligentemente ripeto la sua mimica, ma il risultato non cambia: il sigaretto continua a non piacermi.
...ma non glielo dico perché non voglio deluderla.
E invece lei ha capito e me lo toglie dalle mani.

Smettila di cincischiare, Mari, se una cosa non piace, non piace, punto. Hai questa fottuta mania di non voler dispiacere che rasenta l'autolesionismo. Non riesci a scrivere, e allora prenditi un momento di pausa, senza doverla necessariamente quantificare in ore o giorni, e paradossalmente accrescere così la tua ansia. Scrivere è necessario. Vivere è necessario. Sinergie che si completano, meglio, completavano, che ormai siamo tutti sul punto di non ritorno, ma solo tu, Mari, non ne hai cognizione. Se solo smettessi di auscultare te stessa e guardarti intorno. Gettalo, quello sguardo sull'esterno, magari troverai gli stimoli necessari a tentare, per tutti noi, un salvataggio in extremis.

Ma il mio sguardo circolare non rileva nulla di strano o d'incoerente: il giardino fiammeggia nei colori autunnali dell'arancio, dell'oro e del bronzo, e l'esterno della casa ha l'aspetto ordinato di sempre. Splende perfino un tiepido sole ad irrorare di calore il sasso casalingo sopra cui è distesa cui Lizard/Monna Lisa, la lucertolina bionda, a pochi passi dal gradino su cui  noi siamo sedute.
Lizard, però, pare ipnotizzata, con gli occhi fissi su un punto indefinito al di là del cancello. Allora seguo la direzione del suo sguardo e così m'avvedo di un chiarore accecante che, dall'orizzonte remoto, lentamente avanza verso di noi, dissolvendo, lungo il suo tragitto, tutti gli elementi del paesaggio, quelli terrestri e quelli aerei.

Guarda!
Esclamo, sbigottita, ad Amaranta, puntando il dito verso quella che pare essere, in lento avanzamento, una nebbia corrosiva al cui contatto tutto si abrade, tutto si cancella.

Fiat lux!
Si limita a rispondermi sarcastica.

Cosa sta accadendo? Che fenomeno è mai quello che avanzando cancella l'orizzonte, e i prati e le nuvole e tutto ciò che gravita nella sua orbita?
Domando incredula.

E' il punto di non ritorno. Finalmente lo hai visto. Finalmente dovrai occuparti di qualcos'altro che non riguardi solo te stessa. Devi reagire, Mari, o tra breve non esisterà più niente di quello che faticosamente hai costruito: questo posto e la magnificenza del sogno che lo ha generato. Il tuo pessimismo lo sta distruggendo. Il tuo pessimismo è la nebbia corrosiva che lo sta cancellando. Ora che ne hai preso atto ha di molto rallentato il suo avanzare. Guarda!
Dice, indicandomi l'orizzonte

Torno a guardare per accertarmi dell'avvenuto rallentamento, e scoprire che è vero, il chiarore ha un po diminuito la sua intensità, è ancora molto vivido ma non più accecante, lascia spazi per intravedere i dettagli sullo sfondo, ciò che rimane di quell'incantevole paesaggio metafisico brutalmente mutilato.
...e sono io l'artefice di questa devastazione.

Prenditi quella pausa, Mari, ma poi torna qui da noi, non abbandonarci al buio destino dell'oblio, non cancellarci dalla tua memoria né da quella del mondo. Torna a raccontare di noi e di quella tua allucinazione benigna che, generandoci, ti ha salvato. La tua acquisita consapevolezza impedirà alla nebbia di avanzare ancora e di avvolgere, nelle sue spire di fumo, questo meraviglioso avamposto, l'ultimo baluardo prima del punto di non ritorno.

sabato 21 ottobre 2017

L'insonnia dei sobri

Questa notte l'ho passata nell'antro, sullo scomodo, vecchio divano, davanti la finestra, a scrutare quel cielo notturno, squilibrato da troppe stelle e solo da un esile accenno di luna: un cielo da presepe a sovrastare l'universo degli insonni.
 Notte in trasferta, fuori dalla mia casa, dove ho passato gli ultimi giorni ad invocare, perfino ad alta voce, il suo fantasma, per un chiarimento e per una compagnia, e per non soccombere alla triste esigenza di una sbornia solitaria.
...che solo di quello si ha talvolta bisogno, di alcool che vivifichi il sangue e annebbi la mente, così da creare i presupposti per la salvifica entratura nel limbo dei non vedenti, da cui ne sarei poi emersa con un intollerabile mal di testa e un'inconfessabile smania suicida.

Ma nulla di tutto questo è accaduto: sono rimasta sobria nonostante lui non sia venuto.
E' stata una veglia faticosa, quella di questa notte, più di tante altre, colma d'interrogativi e supposizioni e speranze.
...e di tutti quegli inganni, da me stessa perpetrati a scopo lenitivo, per la mia testa e per la mia anima.
Inganni che stavolta, però, non hanno funzionato, lasciandomi in balia dell'unica realtà del buio, nonostante lo sfolgorio beffardo delle stelle.

Non sono stata brava ad evocare il suo fantasma, o forse non sono fino in fondo sincera nel volere che questo confronto davvero avvenga, che lui si materializzi così come l'ho visto nel presente, che una forma di morte era già avvenuta tanti anni fa quando si chiuse la porta alle spalle, ed anche allora, come adesso, subii l'aggressione del silenzio e l'invasione del buio. Solo che a quel tempo, silenzio e buio, costituivano un unico, duro viluppo, compresso e strozzato nei miei recessi più profondi, impossibilitato a fuoriuscire ma pur costretto a trovare uno spazio di luce e uno scampolo d'aria, cosicché invisibile potesse, con un qualche agio, vigilare l'esterno attraverso la feritoia dei miei occhi, condannandomi così all'insonnia.
...l'insonnia dei sobri, delle menti analitiche, quelle che non conoscendo il riposo non conoscono neppure la stanchezza, e girano girano girano all'infinito su stesse, come le rotelline all'interno di un sofisticato, quanto inutile meccanismo, perfettamente predisposte a non fuoriuscire mai dal proprio circuito, per continuare ad incasellare un numero infinito di dati di cui nessuno chiederà mai conto, di cui a nessuno importa.
 E così come sempre, anche stanotte le rotelline hanno continuato, inesauribili, ad incasellare dati, intanto che schiariva e le stelle, ad una ad una, andavano spegnendosi.
Marilena

martedì 17 ottobre 2017

Quell'ultimo tentativo



Se non riesci a spargere lacrime, spargi inchiostro
(Amaranta)


Quante volte, in questi giorni, ho dovuto respingere la tentazione di scrivere i miei pensieri più bui, quello che davvero ho nel cuore, ma non l'ho fatto per pudore, per paura di ferire chi, come me coinvolto, avrebbe forse letto.
La verità è che non si può raccontare davvero tutto, se quello che ci matura dentro ha toni troppo cupi o troppo criptici, difficili da decifrare, e per chi scrive, terribilmente penosi, da spiegare.
...seppure, nella mia testa, quella lettura interiore scorre facile, che con i termini giusti, non troppo scremati, sarebbe un'agevole stesura, una pagina di diario fittamente scritta, con le parole che colano fluide come inchiostro, in soccorso di quell'angoscia che non riesce a tramutare in lacrime.
...perché io ho difficoltà a piangere, e questo è tremendo, perché quel grumo, di lacrime e disperazione, mi ostruisce la gola, mi toglie il respiro, mi soffoca...mi soffoca.
...e poi l'insonnia, di nuovo sopraggiunta prepotente, ad azzerare quel minuscolo, salvifico intervallo di amnesia notturna, dalla devastazione psicologica delle malinconie irreversibili, così come un'acrobata mi cimento su un filo teso, sul quale posso solo camminare, senza, però, la  possibilità di una sosta, quando, invece, dovrei trovare uno spiazzo tranquillo dove fermarmi, guardarmi intorno e riscoprirmi ancora parte della realtà esistente.

Questa sua morte improvvisa mi ha profondamente sconvolta, come nessun'altra: ho toccato con mano la crudele caducità a cui tutti siamo irreversibilmente soggetti, e saggiato tutta la nostra impotenza, quando si può solo guardare e piangere e maledire, e scrutare dentro l'oscuro baratro quando piuttosto se ne vorrebbe solo distogliere lo sguardo, e come bambini essere rassicurati che si è trattato di un brutto sogno dal quale ci risveglieremo e tutto sarà come prima, immutato nel bene e nel male, che anche le cose negative, in questo frangente, acquisirebbero un tono meno riprovevole, perché ancora si avrebbe la possibilità di una spiegazione, di un cambiamento, di un'assoluzione.
Di un ultimo tentativo.

Quell'ultimo tentativo che forse non avrebbe cambiato i destini, ma mi avrebbe dato, ora, la pace.
Marilena

giovedì 12 ottobre 2017

La dimensione del dolore

Ci sono dolori destinati ad espandersi a dismisura nei perimetri circoscritti dalla solitudine.






lunedì 9 ottobre 2017

Amo l'autunno

Amo l'autunno, con quei suoi solo apparentemente innocenti incendi, che dalla natura propagano ai sensi.
Stagione voluttuosa e sensibile.
Stagione femmina, nonostante il nome.

lunedì 2 ottobre 2017

Folie de femme

I tacchi donano all'altezza ciò che tolgono all'equilibrio.
Eppure, noi donne, siamo abbastanza folli d'accettare questo scambio.

(Amaranta - link fb)

domenica 1 ottobre 2017

Sul confine

Certi ricordi fanno male come ferite, mai rimarginate, che urlano nella nostra carne appena il sole s'adombra e cambia il tempo.
(Amaranta)

La morte ha di nuovo bussato alla mia porta e si è portata via un altro pezzo della mia vita. Un pezzo importante, anche se la nostra storia comune era finita ormai da circa 20 anni, non si era mai del tutto spezzata perché continuava ad unirci l'amore per nostro figlio.
Non sono stati quelli anni assolutamente facili quelli per me, quando il nostro matrimonio è finito ho esplorato tutta la vasta gamma della rabbia, del rancore, della disperazione e della solitudine, fino all'inferno della depressione.

...ed ora sto qui a rinvangare di nuovo fra quelle macerie, consapevole che non dovrei farlo, che pure avevo riportato in superficie qualcosa di bello e positivo, ed ora rischio di rovinare di nuovo tutto, di dover ricominciare a martoriarmi con la mia maledetta introspezione, o ricorrere allo psicologo, perché questa ridda confusa di sentimenti ed emozioni che sta sobbollendo dentro di me, e che minaccia di eruttare con la violenza esplosiva di un vulcano, non riesco a gestirla
...e un nuovo tipo di solitudine sta sopraffacendomi.

Di cosa gli faccio debito, stavolta?
Di essersene andato troppo presto, ancora troppo giovane? di non aver opposto una più strenua resistenza alla morte? di non aver mai chiarito abbastanza quello che tra noi era successo ? (ah, noi donne, abbiamo sempre bisogno di miliardi di parole per essere rassicurate o invelenite, e ancora cerchiamo di leggere tra le righe, nei silenzi, nei puntini sospensivi), di essere stato felice senza di me e di aver ricostruito laddove io, invece, ho miseramente fallito?

Chi ho commemorato in quella ventosa mattina di primo autunno mentre spargevamo le sue ceneri?
Il ragazzo che conoscevo, quello del mio passato, o l'uomo del presente, quello della cui vita quasi nulla sapevo e che d'improvviso, brutalmente, mi è stata svelata?

Sinceramente non avrei voluto sapere niente di questa sua vita, ma gli eventi, in qualche modo, mi hanno costretta, e così ho dovuto materialmente saggiare la grande distanza che c'era tra noi e che nessun miliardo di parole avrebbe mai potuto colmare.
Una vita a me estranea, fatta di volti e nomi e progetti che non mi riguardano, e di cui niente avrei voluto conoscere per preservarmi almeno un ricordo personale, solo mio, l'unico al quale credere, respingente di ogni altro confronto.
...consolatorio.

In quella fredda, piovigginosa giornata di Settembre, io stavo sul confine tra il presente e il passato, confusa e ancora una volta tradita, messa da parte, nonostante avessi creduto per un momento che la morte me lo avesse restituito.

Marilena

giovedì 28 settembre 2017

Il mestiere di vivere

La vita è una bellissima puttana che esercita fin troppo bene il suo mestiere, e dal cui letto mai vorremmo uscire.



martedì 26 settembre 2017

Il fiore del mio giardino (cap 4)


MAI DIRE MAI
Dopo aver messo alla porta un frastornato Garfield, Veronica s'era presentata al sexy shop e, senza troppi preamboli, aveva intimato a Perez: «Ed ora voglio la tua versione dei fatti!»
L'imperativo lo aveva colto di sorpresa mentre era piegato su un imballo e nel rialzarsi aveva battuto la testa contro la sporgenza di un ripiano, e così la risposta immediata era stata quella di un'intraducibile bestemmia che subito, però, alla vista di Veronica, con un sorriso da simpatica canaglia, aveva tramutato in scuse.

Veronica: «E' lampante che per l'odiosa messinscena che ogni giorni si replica in questo angolo di Browing Street, la regia è di Garfield ma il casting è tuo.»
Perez: « Davvero, Veronica, non so di cosa tu sia parlando, ma vedo con piacere che siamo passati a darci del tu.» Aveva risposto lui, con aria innocente.
Veronica: «Ti sto dando la possibilità di raccontare la tua versione della storia, che se il malanimo di Garfield nei miei confronti ha motivazioni concrete, anche se meschine, quelle tue, invece, proprio mi sfuggono. Non hai mai avuto mire di espansione né condotto guerre di religione, hai accettato perfino le incursioni di Van Gogh all'interno delle tue mura, e credo che della popolarità di cui ha goduto "Il fiore del mio giardino" te ne sia anche tu avvantaggiato. Chiudo e mi trasferisco a Napoli, nella città dove sono nata, voglio ricominciare da capo e dimenticare questa brutta storia, ma non me ne andrò a mani vuote, sono sicura che Garfield sborserà fino all'ultimo centesimo della somma che gli ho chiesto per avere il mio negozio.»
Perez: « Davvero hai intenzione di partire?» Le aveva chiesto serio, mentre continuava ad armeggiare con fili e lucchetti, intorno al grosso imballo.
Veronica: «Van Gogh ha bisogno di ritrovare la fiducia ed io l'ottimismo, e qui a New Eden non è più possibile, ma prima di andarmene vorrei conoscere le ragioni del tuo malanimo nei miei confronti. Quelle di Garfield le ho intuite, ma le tue...ecco, quelle mi sfuggono.» Era arrabbiata ma anche delusa.
Perez: «Non ho partecipato a questa ignobile messinscena, ma non l'ho neppure impedita. Non ho potuto far nulla, perché se avessi tentato una qualsiasi contro partita con l'aiuto di certe mie conoscenze sarebbe scoppiata una guerra tra bande che non avrebbe risolto il problema ma, piuttosto, si sarebbe scatenata  una sanguinosa guerriglia per il possesso di Browing Street. Garfield non sa neppure in che guaio si è cacciato nonostante, fin dal principio, ho cercato di dissuaderlo. Io...»
Veronica: «Tu...cosa? Cos'hai fatto di concreto per impedirgli questa follia? Sei rimasto a guardare, magari divertendoti pure. Sei esattamente come lui!» Nella sua voce, ora, la delusione aveva il sopravvento sulla rabbia.
Perez: «Esattamente come lui!» Perez esclamò infuriato. «Io sono forse peggiore ma non sono come lui. Non devi neppure pensarlo che io sia come lui. Sono colpevole, ai tuoi occhi, di non aver agito come ti saresti aspettata, di non essere corso in tuo soccorso.  Mi hai dato una chance ed io, invece, mi sono comportato esattamente da quel bastardo che tu immaginavi fossi. Ti ho deluso e mi dispiace, ma non avevo alternativa. Ho tentato di dissuadere Garfield provando inutilmente a farlo ragionare, a retrocedere da questa assurdità che purtroppo pagherà a caro prezzo perché il mafioso a cui si è rivolto non s'accontenterà degli spiccioli pattuiti per la messinscena, ma esigerà una compartecipazioni nella gestione dei negozi in attesa di espropriarli del tutto, dopo di che resterà solo il nome di Garfield sull'insegna. Un nome pulito, incensurato, una copertura per la gestione di attività illecite. Lo hanno in pugno, il coglione, con registrazioni ed altro. Dovrà sottostare al loro ricatto se non vuole finire ammazzato Non è gente che scherza, quella!» Disse battendo un pugno sul tavolo.
Veronica: « E tu, invece, non corri rischi? Te non ti toccheranno?»
Non erano sfuggiti a Perez il tono sarcastico della domanda e il sorriso ironico di lei.
Perez: «Non mi toccheranno perché sto tagliando la corda anch'io. E senza nemmeno un'assegno di buona uscita. Ci tengo a salvare pelle e tatuaggi. A proposito, hai già incassato quello di Garfield?»
Veronica: « Non ancora.»
Perez: «Temo che non potrai più averlo.» 
Veronica: «Perché? E cosa diavolo stai armeggiando?»
Perez: «Sto salvando la pelle a quel coglione di Garfield, e puoi scommetterci che non me ne sarà neppure grato. Fammi da palo, controlla che la strada sia deserta, devo trascinare questo scatolone all'angolo dei vostri negozi, e poi farlo esplodere.»
Veronica: «Sei completamente pazzo. Non puoi farlo, e io non sarò tua complice.»
Corse a sbarrargli l'uscita, ma Perez, con delicatezza, la spinse di lato e con un calcio spalancò la porta.
Perez: «Si che posso e lo farò, con o senza il tuo aiuto. Ma se collaborassi te ne sarei grato. Avanti, stiamo facendo un'opera buona, anche se Garfield non merita niente, ma sarà il Signore a giudicare. Ci credi in Dio? Io non ne sono certo, ma se mi chiedi del diavolo ti rispondo di si, soprattutto dopo averlo visto all'opera, e t'assicuro che Garfield sarà davvero fortunato a non passargli tra le mani. Si farà qualche anno di galera quando lo incolperanno di questo disastro, ma sarà comunque vivo. Col mio espediente  nessuno si farà troppo male. Tu comunque volevi andartene ed io pure. Sono costretto a filarmela subito perché sarò il primo ad essere sospettato. A te, invece, conviene rimanere, ci sarà l'Assicurazione a risarcirti, quello che non prendi da Garfield lo prenderai da loro, magari non la stessa fantastica cifra, ma pur sempre qualcosa di sostanzioso per ricominciare.»
Con molta cautela aveva sollevato lo scatolo che aveva poi accostato al muro de "Il fiore del mio giardino" avendo cura di posizionarlo sulla parete contigua al negozio di Garfield: l'esplosione avrebbe danneggiato anche quello, per dare l'idea dell'opera messa in atto da un principiante.»
Veronica: «Perché stai facendo tutto questo per Garfield? Cosa te ne viene in tasca?»
Perez: «E' inutile, non riesci proprio a vedermi come l'eroe buono! Mettiamola così, che senza un avversario non mi diverto e, seppur Garfield non è mai stato alla mia altezza, devo riconoscergli alcune non disprezzabili, perverse, intuizioni. E poi anche tu e Van Gogh siete in procinto di partire: senza la mia madonnina italiana vestita di nero, e il suo pappagallo che mi svolazza intorno, non ho ragioni per rimanere.»
Veronica: «Io?» Domandò sinceramente stupita Veronica.
William Perez confermò con un sorriso, guardandola con tenerezza. 
Perez: «Ti confesso che volevo andarmene già da un pezzo, la vita stanziale non fa per me, ma se non fosse accaduto tutto questo casino sarei rimasto almeno fino al giorno in cui tu avresti smesso il lutto per vederti indossare un altro colore. Credo di essere rimasto solo per questo. Una volta ho sognato che eri vestita di rosso. Il rosso è il mio colore preferito. Magari a te ne neppure piace. Ma nel mio sogno eri vestita di rosso, ed eri bellissima.»
Veronica: «Il rosso... sono anni che non lo indosso, non piaceva al mio defunto marito, lo considerava un colore profano.»
Perez scoppiò in una risata « Un colore profano? Davvero? E tu gli hai creduto?
Veronica: « No, ma gli ho dato retta.»
Perez: «Non sembri di quelle che danno facilmente retta. O eri troppo innamorata e così lo hai accontentato, o non lo eri affatto, una colpa che hai espiato con la rinuncia. Si, deve essere andata proprio così.»
Veronica: «Sei un tipo pieno di certezze.» 
Perez: « In alcuni campi ho acquisto una certa esperienza.» Confermò, col suo disarmante obliquo. «Dobbiamo separarci. Dovrai rimanere ancora un qualche tempo qui a New Eden per raccontare la tua versione dei fatti, che è poi la tua unica verità. Non ti accadrà nulla di male e non potrai essere accusata di niente: d'altronde eri tu il bersaglio. L'Assicurazione dovrà risarcirti, non so in che misura, ma qualcosa ti spetta, e magari sarà sufficiente per realizzare il tuo viaggio a Napoli.»
Veronica: «E tu cosa farai? Dove andrai?» 
Perez: «Taglio la corda prima di essere accusato di essermi rammollito. Ho anch'io una reputazione da difendere. Del negozio se ne occuperà il mio socio, ne farà quello che vuole perché quello che mi spetta l'ho già preso, il resto non mi riguarda. Dove vado è top secret.»
Veronica: « E' un addio, questo. Non ci rivedremo più?» Chiese triste Veronica.
Lui le sollevò il mento e la baciò a lungo, dolcemente. «Mai dire mai.» Le sussurrò all'orecchio prima di sparire nella notte che di li a poco si sarebbe colorata di rosso.