Dedico questo blog a mia madre, meravigliosa farfalla dalle ali scure e dal cuore buio, totalmente priva del senso del volo e dell'orientamento e, per questo, paurosa del cielo aperto. Nevrotica. Elusiva. Inafferrabile.

giovedì 25 settembre 2014

Nanà

Il nome del suo primo amore, Nanà, se lo è tatuato sul polso.
Quando la storia è finita lui se ne è andato ma il nome è rimasto lì, come un bracciale indelebile, a testimoniare che le passioni svaniscono, ma non un buon tatuaggio.
E Nanà, dopo essersi consumata gli occhi nel pianto, alla fine ha deciso che quel nome lo avrebbe mostrato con l'orgoglio di una ferita di guerra e non come il marchio di un fallimento.
Quanti nomi si possono scrivere sul corpo di una donna?
Quello sarebbe stato solo il primo di una lunga lista.
E lei sarebbe diventata leggenda.

sabato 20 settembre 2014

Una storia d'amore


Mariù e Menico procedevano affiancati nella controra, lui col suo passo lungo cavallerescamente misurato su quello di lei, per non distanziarla di troppo.
Menico (Domenico) e Mariù (Mariuccia) Iodice, i coniugi della masseria da basso, quelli che avevano i soldi ma non i figli, e questo per colpa di lei, insinuavano le malelingue, così minima e provvisoria, visibile solo per l'abbondanza della chioma, fitta e chiarissima, colore della stoppa, ma i fianchi stretti e la passerina chissà quanto minuta, da far tribolare un uomo ad entrarci ed un neonato ad uscirci.
Tanta ricchezza e neppure un erede, che Menico, già figlio unico, faticava da solo a portare il peso di quel cognome che constava di migliaia di ettari di terreno agricolo ed un allevamento bovino, assai ben avviato.
Tant'è che è risaputo, come spesso capita, che chi ha il pane non ha denti, e senza nessuna ragione spiegabile alla logica, Menico s'era intestardito a voler in moglie questa maestrina dall'aspetto provvisorio, incolore ed inodore, mettendosi contro la famiglia intera che per lui, bello e ricco, avrebbe preteso una sposa diversa, se non più bella, o benestante, almeno con le qualità di una fattrice.
E si che di pretendenti ce n'erano a voler ricoprire quel ruolo, fornite oltre che di maggiore bellezza anche di cospicua dote.
Ma lui s'era intestardito al punto che con nessun ragionamento fu possibile smuoverlo dal suo proposito.
«O sposo Mariù, col vostro consenso, o me la sposo comunque, senza la vostra approvazione, e ce ne andiamo a vivere in una città estera». Aveva detto, opponendosi deciso, al volere del padre.
E quest'ultima minaccia era stata, alla fine, risolutiva.
Quella che aveva determinato il consenso alle nozze.

Mariù, di professione maestra, più volte aveva provato lei stessa a convincere Menico di non mettersi contro la famiglia, di cui capiva benissimo le motivazioni e, seppur le facevano male, intuiva che non originassero da una repulsa preconcetta nei suoi confronti ma, piuttosto, dall'ostinazione protettiva, seppur prevaricante, della preoccupazione della tutela del nome e dell'accrescimento dei beni, che la ricchezza esige che s'accompagni ad altra ricchezza, mentre lei, oltre al suo stipendio di statale, non possedeva null'altro.
Naturale che la famiglia di lui aspirasse ad una sposa con un curriculum più sostanzioso.
Ma a questi ragionamenti, Menico, appassionatamente s'opponeva, e ribadiva quella sua libertà di scelta che teneva conto del cuore e di niente altro.
Anzi, quando lei con tono misurato e dolce, si predisponeva a tali discorsi, lui le chiudeva la bocca con un bacio e le sussurrava tra i folti capelli albini, te o nessun'altra.
E questo impediva il prosieguo del discorso, perché Mariù, commossa ed innamorata, sentiva venir meno la determinazione a dissuaderlo dall'ostinazione per quel loro amore.
Il suo sentimento sincero soffriva dell'umiliazione dell'ingiustizia preordinata dal ceto e dal conto in banca, ma nonostante questo pur si prodigava per evitare quella rottura minacciata di Menico con la famiglia, sebbene lei stessa non avrebbe saputo immaginare la vita senza di lui.

Il giorno delle nozze Mariù somigliava più ad una comunicanda che ad una sposa, che nell'abito bianco sembrava sperdersi, e pure del velo avrebbe potuto farne a meno, con quei capelli chiarissimi sparsi sulle spalle, a farle da manto.
In virtù della legge dei contrasti, invece, Menico, alto il doppio e bruno come un arabo, sembrava ancor più imponente e scuro.
Matrimonio benedetto dall'amore, ma senza figli.
E si che all'inizio, Mariù, non riusciva a rassegnarsi, tanto forte era il desiderio di dargliene uno, ma non per quelle cose misere, quali il nome e la discendenza, ma perchè sarebbe stato il suo dono più grande, il risultato di quelle loro notti appassionate dove lei gli si concedeva come in una festa, nella glorificazione dei sensi e del sentimento. Notti di sesso e di confidenze.
Come quando dopo aver fatto l'amore, Menico, con la testa poggiata sul seno di lei, spesso le chiedeva un racconto, una storia vera o di fantasia, per continuare a vibrare, prima del sonno, ancora di piacere sessuale nel sottofondo di quella voce morbida, che esplorava per lui il buio con la lanternina magica della fantasia.
E neppure una volta lei lo deluse.
«Raccontami una storia, Mariù».
Mariù si fermava brevemente a frugare nel baule inesauribile della sua fantasia e tornava con la trama di una novella inedita, o i versi di una poesia, che anche poteva essere traccia per una canzone o per una ninna nanna.
Più spesso recava il dono prezioso di una storia d'amore, che era poi la loro stessa.

«Cosa ci trovi in quella femmina che le altre non hanno?» Gli aveva chiesto un giorno, esasperato, suo padre
«Mi piace lei, la sua voce, e come sa raccontar le storie. In particolare una: la nostra». Aveva risposto, senza tentennamenti, Menico.

lunedì 15 settembre 2014

Sull'amore. Sulla diversità. Sull'accettazione


Un poeta s'innamorò perdutamente di una eterea damina dallo sguardo malinconico.
Alla quale dedicava poesie.
Ardenti ed esistenziali.
In cui decantava il suo amore, immenso ed appassionato. Per lei, splendida creatura.
La più bella fra le donne. Unica. Incomparabile.
Le scriveva lunghe lettere in cui lei era angelo, sirena e dea. Incantatrice.
- Ma quello che davvero trovo sublime è il vostro sguardo. Rivolto verso l'interno. Che fa di voi una creatura irraggiungibile. Enigmatica. -
Questo scriveva il poeta alla eterea damina dallo sguardo incorruttibile.
Ed il suo amore cresceva a dismisura, quanto più lei sembrava inaccessibile.
Tenace. Irruento. Ardimentoso.
Che non lasciò insensibile la giovane signora.
E così le missive divennero lunghe conversazioni. Nel salottino di lei.
Dove nessun argomento veniva trascurato.
Ed il poeta piacevolmente potè constatare che, oltre alla bellezza, la damina possedeva anche l'acume dell'intelligenza. E della profondità.
In tutta questa armonia di affinità persisteva, come unica nota stonata, la malinconia perenne dello sguardo di lei.
- Che mi esclude. E mi prospetta un mondo misterioso. Di cui io non ne faccio parte alla stessa stregua di coloro che non hanno il privilegio di condividere alcunchè con voi -
Con toccante mestizia, lamentava il poeta.
- Qual è la ragione della vostra malinconia? Ditemelo affinchè io possa, con la forza del mio amore, diradare la tristezza che offusca lo splendore dei vostri occhi. -
La damina rimase in silenzio.
Un lungo, infinito silenzio.
Poi tirò su la veste e là, dove avrebbero dovuto esserci le gambe, spuntarono due irreali, grottesche code di pesce.
Il poeta ammutolì.
Ritraendosi d'istinto. Inorridito.
- Ditemi, quale miracolo può fare il vostro amore per modificare questo scherzo della natura? -
Chiese la damina in tono pacato. Riassestandosi dignitosamente la veste.
- Quella che ci fa credere che voi non abbiate gambe, ma code di pesce, è solo una stregoneria. Un'allucinazione.Voi siete perfetta. Alzatevi vi prego. Un passo verso di me. Se vacillate io vi sosterrò. Un solo passo, in nome dell'amore. Non abbiate paura. Non deludetemi -
E la damina coraggiosamente, per non amareggiare quell'amore così esaltato e fervente che ostinatamente negava la realtà di una deformità grottesca, ed affatto illusoria, provò a cimentarsi in qualcosa che mai prima aveva sperimentato: la posizione eretta.
Per un attimo fu in tutta la sua altezza.
Instabile.Vacillando. Annaspando.
Marionetta scoordinata. Disarmonica.
Terrorizzata.
Mentre rovinosamente cadeva in terra, fracassandosi il capo.

sabato 13 settembre 2014

Ballo in maschera


......e non è di certo al mascheramento carnevalesco quello a cui, con questo post, faccio riferimento ma, piuttosto, ad una commedia degli equivoci, consapevolmente recitata su un copione accuratamente redatto, minuziosamente articolato, che assolutamente non consente riscritture.
Dilettantismo ed improvvisazione non sono, in questo contesto, da prendersi in considerazione.

Se dovessi proporvi una scenografia di sicuro opterei per quella raffinatissima del film di Kubrick " Eyes Wide Shut": abbondanza di specchi ed ambienti luminosi, perchè nessun particolare di questo straordinario, e privatissimo ballo in maschera, deve restare nell'ombra.

......motivo per cui, premetto da subito, una recita di tale spessore non è per tutte, neppure facendo leva su sensibilità e passione istrionesca, doti geneticamente insite nella stragrande maggioranza di noi donne quando, fin da bambine, mostriamo una propensione sfacciata, e squisitamente femminile, all'inganno seduttivo.
E, se gli strumenti materiali per questa piece non sono impossibili da reperire, l'impianto recitativo, concernente l'alta qualità interpretativa richiesta, non è altrettanto scontato: la predisposizione non basta
Quindi non accingetevi a questa reppresentazione se non siete più che sicure di voi stesse.


Questa scenografia impone magnificenza in ogni dettaglio: l'abito deve essere sontuoso e straordinariamente seducente; consiglio i capelli raccolti per dar maggior risalto ai gioielli, di cui dovrete risplendere per stimolare quei pensieri peccaminosi che sempre scaturiscono alla visione di un collo sottile, sfacciatamente esposto alle voglie proibite di un amante.
Il vostro  talento, mie care signore, è nel fargli credere che siano sue le mosse conseguenti quando, invece, la regia sarà unicamente vostra: a lui gli applausi, a voi la gloria. 

Profusione di candele, lampadari, gioielli, e specchi......tanti specchi, disseminati ovunque, per dilatare gli spazi e vivere la duplice fantasia di essere, nel contempo, spettatori ed interpreti di quelle disinibite fantasie di esibizionismo, e voyeurismo, che piacevolmente stuzzicano l'immaginario sessuale.
Siete voi l'esibizionista, la predatrice che esibisce, dall'apertura provvidenziale del suo mantello stellato, il nudo candore di un seno o quello, ancor più mozzafiato, del pube esibito nature, incastonato nella sottile cornice del reggicalze di pizzo e lustrini, come un gioiello  sorprendente e prezioso, profferto al suo sguardo.
Ricordate che voi siete l'abito e quello che l'abito contiene.
Siete la vulva e la perla.
Costruite il vostro racconto erotico sulla scia della fantasia dettata dai vostri desideri più segreti, quelli che ritenete incofessabili e sui quali, con dovizia di particolari, fantasticate nei momenti di autoerotismo.
L'eros femminile sa essere travolgente, e molto più disinibito di quel che si è soliti immaginare, e le visioni allo specchio ampliano le sensazioni, moltiplicano le emozioni, ed ispirano alla sperimentazione di performance più  che audaci.

Partiamo dall'assunto che, in qualche modo, esibizionisti e voyeur, consapevoli o meno, lo siamo tutti, non per amore della poesia ma per puro stimolo sessuale.
Guardare e mostrarsi: è questo che avviene nel sesso.
Ovviamente se lo spettacolo ci piace e se ne siamo coinvolti.
......e se la trama non è scontata. 


 
PROBABILI TRAME
Un ballo in maschera: un occasione che più di ogni altra si presta alla sperimentazione delle fantasie sessuali più disinibite.

L' Alter Ego
Una mise maschile comporta un travestimento forse più scontato ma, di sicuro più facile, per organizzare una cena intima in un bel ristorante. Sostenere la recita davanti ad un pubblico, sia pur inconsapevole, è davvero eccitante. Passato il primo momento di smarrimento del vostro compagno (ovviamente la sorpresa è il fattore principale), scoprirete le conturbanti delizie di questo gioco di ruolo. E, se temete che il vostro partner la prenda male......naaaaaaa, sarà suo malgrado irretito perchè l'ambiguità, nel gioco sessuale, è sempre un fattore altamente provocante e stimolante.

L' Esibizionista
Un abito meraviglioso usato come l'impermeabile di un esibizionista, pretesto per esibire, e sorprendere, con metodi pirateschi, la vostra sessualità e stordire, con quest'audacia, il partner. Evitate di mettere in scena tale rappresentazione se lui è alla guida dell'auto o sta attraversando la strada.

La Voyeur
Ruolo insolito per una donna. Se lo sapete condurre, il gioco risulterà straordinariamente eccitante per entrambi. Luci soffuse, ma non troppo, perchè gli specchi devono adempiere alla loro funzione. Invogliate il vostro lui ad improvvisare uno spogliarello per voi, sedute in prima fila, con le gambe accavallate e...... niente mutandine: Sharon Stone docet.
Un gioco a due dove ci si eccita, eccitando.

La Mistress
Total nude, tacchi altissimi, una mascherina nera e frusta d'ordinanza.
Agli uomini piace molto più di quello che sono disposti ad ammettere.
Ma è una trama, questa, fin troppo banale!

lunedì 1 settembre 2014

Latte


La marchesa Dell'Isola del Gallo impiegò quarantotto ore di dolorosissimo travaglio per dare alla luce il suo secondogenito, un fantolino bianco e rugoso, dagli occhi color dell'acqua.
Due giorni d'indicibili sofferenze che l'estenuarono nel corpo e la prostrarono nello spirito, prima di riuscire ad espellere quell'esserino glabro, privo di colore e d' inclinazione alla vita, che emise solo un vagito, breve e secco, dopo che la levatrice riuscì ad estirparlo dall'utero al quale si era ferocemente abbarbicato come un erba di montagna che, se viene sradicata, trascina con sé anche il pietrisco nella cui fessura dimora.
La marchesa, che in quel lungo ed estenuante travaglio aveva rischiato di perdere la vita e la ragione, del suo erede maschio non volle più saperne.
Lo bandì inderogabilmente dalla sua camera.
E dalla sua memoria.
Invano il marchese cercò di farle accettare quell'esserino diafano e silenzioso, che mai piangeva e se ne stava rintanato nel suo angolo di culla, con gli occhi aperti e i pugni serrati.
Ogni volta che si arrischiava a sorpassare la soglia della sua camera con il neonato in braccio lei iniziava a blaterare frasi sconnesse e maledizioni, e lanciargli contro ogni sorta di oggetto.
Stessa sorte, poi, riservò a lui, vietandogli per il resto dei suoi giorni l'accesso al talamo nuziale, terrorizzata dalla eventualità di dover rivivere, con una nuova gravidanza, il martirio privato delle doglie.
Al neonato venne imposto il nome di Maurilio Cesare, marchesino Dell'Isola del Gallo.
Lo svezzamento si rivelò lungo e difficile perché il bambino, anche dopo l'avvenuta dentizione, si ostinava a nutrirsi solo ed esclusivamente del latte che succhiava, con instancabile voracità, dal seno della nutrice.
Alle sue esigenze alimentari provvedevano più balie, che si alternavano nell' allattamento.
Il piccolo si aggrappava alle mammelle e cominciava il suo famelico pasto silenzioso, che le sfiniva, prosciugandole.
E quando spuntarono i primi denti iniziò a mordere i capezzoli, succhiando con le vitamine del latte anche quelle del sangue.
Le mercenarie dell'allattamento malvolentieri si attaccavano al petto quella piccola sanguisuga, ma sopportavano in silenzio la sua bocca da squalo, facendo attenzione a non lamentarsene perché il marchese pagava bene.
Mai nessuna di loro, però, elargì all'infante il gesto spontaneo di una carezza.
In età scolastica, quando Maurilio Cesare venne affidato alle cure della governante che già accudiva la sorella primogenita, Isabella, era un bambino stentato e taciturno, con le stimmate future dell'emarginato.
Isabella, maggiore di quattro anni, aveva occhi e capelli color del miele, un firmamento di efelidi sparse su una carnagione d'albicocca, ossa larghe e solide, ed un promettente carattere da futura marchesa.
Maurilio Cesare conservava le sembianze immature di uno sparuto elfo albino, dalla pelle trasparente e le ossa minute, e quegli straordinari occhi del colore dell'acqua.
Arcangela, così si chiamava la governante, era un donnone emancipato, con le mani di falegname e l'anima di colomba.
Quando le venne affidata quella creatura trasparente e silenziosa, dallo sguardo ermetico, la sua intelligenza intuitiva penetrò in quella solitudine esistenziale predisponendola all'empatia, ben decisa ad ignorare l'aura scura che dalla nascita lo accompagnava, mentre il suo cuore sensibile si preparava a rimediare ad una mostruosa ingiustizia affettiva.
Riconobbe nello sguardo enigmatico di Maurilio Cesare i sintomi dell'anemia e della solitudine.
Il marchesino soffriva di carenza di proteine e di vitamine, dal momento che si nutriva esclusivamente di latte, rifiutando ogni altro alimento.
Ed era affetto da una cronica mancanza d'amore.
Nulla a cui non si potesse, seppur tardivamente, rimediare.
Partendo da questa certezza, Arcangela, cercò di spronare i due fratelli ad approfondire la loro reciprocità da cui, poi, sarebbe scaturito il naturale affetto dei consanguinei.
E lei, con convincimento, si calò nel ruolo di madre putativa, distribuendo equamente il suo amore tra i due bambini, ma riservandone il sopravanzo per Maurilio Cesare.
Con infaticabile dedizione si applicava alla sperimentazione alimentare per inventare, per lui, manicaretti al sapore di latte con celati all'interno estratti di carne e di verdure, atti a stimolare il suo sviluppo fisico, ristabilire un colorito epidermico più sano ed alimentare una sua più ottimistica predisposizione nei confronti del mondo.
Ma, da quando Maurilio Cesare aveva fatto il suo ingresso nella cucina di Arcangela, acquistando tempra e colore, Isabella aveva smarrito, invece, la sua indole indomita, il suo delizioso cipiglio di futura marchesa, mostrandosi languida e timorosa, perennemente attaccata alle gonne della governante, e sempre bisognosa della sua mano.
Questo comportamento anomalo non aveva troppo preoccupato Arcangela, imputandolo all'egoismo naturale insito nella bambina abituata da sempre ad avere tutto per sé.
Era sicura che quella sua improvvisa timidezza null'altro fosse che un espediente egocentrico per attirare la sua attenzione, riprendersi la scena e ritornare unica protagonista.
Era soddisfatta, invece, di quelle sue zuppe proteiche, al sapore di latte e di amore, che avevano colorito di tenue rosa l'incarnato del suo protetto, e reso più nitido il colore di fondale marino dei suoi occhi.
Di notte lo faceva dormire nel suo letto, avvolgendolo nel calore protettivo del suo grande corpo, per rimuovere il ricordo del freddo della nascita.
E del ripudio materno.
Non era riuscita però a scalfire la sua ostinazione al silenzio.
Ma a questo, Arcangela, era sicura di poter pervenire col tempo, con la pazienza e con l'amore.
Anche il marchese si era congratulato con lei per i sorprendenti risultati ottenuti.
Posso far di meglio, pensava Arcangela, concentrandosi sul miglioramento vitaminico delle sue zuppe al latte e mostrando, deliberatamente, di non avvedersi dei silenzi ostili d'Isabella.
Che non si attaccava più alle sue gonne, umiliata di sentirsi alla stessa stregua del pesante mazzo di chiavi che la governante portava appeso alla cintura, mentre di fretta, e di buon mattino, percorreva il mercato alla ricerca delle primizie con cui confezionare quei disgustosi intrugli al sapore di latte, e che per corroborare le teorie di Arcangela basate sull'empatia, era costretta a condividere con quel fratello che lei sentiva estraneo ed indecifrabile, e per il quale non riusciva a provare nessun affetto.
Da quando lui era arrivato tutto intorno a lei sapeva di latte.
L'odore sovrano di Maurilio Cesare aveva contaminato ogni cosa.
Non era ancora giorno quando Isabella, spettinata e a piedi nudi, entrò nella cucina silenziosa, frugò brevemente alla ricerca dell' affilato coltellino col quale Arcangela sbucciava le sue primizie e si acquattò, in attesa, nell'angolo più recondito, battendo i denti per il freddo ma ben decisa a porre termine a quella che le era sembrata, fin dall'inizio, una storia assurda.