Dedico questo blog a mia madre, meravigliosa farfalla dalle ali scure e dal cuore buio, totalmente priva del senso del volo e dell'orientamento e, per questo, paurosa del cielo aperto. Nevrotica. Elusiva. Inafferrabile.

sabato 24 maggio 2014

Racconta la mia storia


Rendimi protagonista di una storia che valga la pena di tutti i suoi probabili patimenti.

UN ATTO D'AMORE COMPENSATIVO

Racconta la mia storia, m'ha sussurrato Rebecca, infilandosi nel letto accanto a me.
Mi ha abbracciato, la sua guancia contro la mia, tremava, nonostante la nottata fosse tiepida.
Per la prima volta l'ho percepita davvero giovane ed indifesa: un'adolescente in lotta contro un mondo adulto, truffaldino ed ingiusto.
L'ho stretta forte tra le mie braccia, con gratitudine per quel suo spontaneo ritorno.
Siamo rimaste così, in silenzio per un pò, respirando all'unisono nel buio, condividendo la gioia di quel nostro ritrovarci, nonostante i dubbi e i fallimenti, la mia esasperante lentezza nell'istruirla alla consapevolezza e la sua smania adolescenziale di esser da subito entità completa e definita.
La mia paura, innazitutto, di vederla crescere troppo in fretta, con quelle sue ossa che entusiasticamente si vanno allungando e i seni arrotondando: una donna in miniatura.
La mia piccola regina rossa, in armi contro un mondo maschile e diseguale, scesa in campo a vendicar giustizia, scombinar le carte e ribaltare i giochi.
Ma io, madre tremebonda, ho dapprima agognato per lei avventure da filibustiere, e poi, pentita, l'ho esiliata in una casa di bambole.
Per proteggerla l'ho nascosta al mondo.
Ma lei, spirito indomito, non ha voluto sentir ragioni e, dopo aver atteso invano che io
volontariamente spalancassi la porta di quella, seppur confortevole prigione, nottetempo ha scavalcato la finestra del dodicesimo piano e, con coraggio da funambola, appesa ad un lazo da rodeo, s'é calata nel vuoto, inseguendo quel suo destino, preordinato o casuale, che giustificasse la sua venuta al mondo, e lo sfarzo entusiasta di aggettivi, verbi ed avverbi, di cui io ho abbondamente, per diciannove capitoli, fatto uso, per risarcirla dell'affanno della sua nascita e controbilanciare l'indifferenza con cui questa venne, dal suo entourage famigliare, accolta.
 Racconta la mia storia, sussurra Rebecca, la sua mano nella mia mano, ancora fiduciosa in me nonostante la mia deplorevole incoerenza, ma contando sulla mia ritrovata consapevolezza a non procrastinare ulteriormente gli eventi e completare questa sua biografia, a cui ho dato un inizio ma non una fine.
Terminare questo racconto è un atto d'amore compensativo nei suoi confronti.


RACCONTA LA MIA STORIA

Rebecca era nata in un mondo limitato, vuoto e silenzioso che lei, al momento della sua nascita, aveva provveduto a colmare con abbondanza di capelli e vigorosi vagiti.Era fuoriuscita dalla vagina esausta della madre, avvolta nel bozzolo rosso della sua chioma contestando, a pieni polmoni, la sorpresa per quella inaspettata, quanto fraudolenta, estirpazione uterina.
La levatrice, con fatica, aveva convinto la madre ad attaccarsela al seno per metter fine a quel trambusto neonatale, poiche la puerpera, dopo i patimenti del parto era preda della tentazione del ripudio, consapevole che anche quest'ultima figlia  avrebbe subito, al pari delle altre quattro che l'avevano preceduta, la fredda accoglienza paterna...

martedì 20 maggio 2014

Ritratto in nero

Insomma, ultimamente ho ritirato fuori tutte le mie cianfrusaglie antidepressive.
I miei feticci.
Per combattere le mie segrete distimie.
Il mio pallore anemico e le nere palandrane.
I funerei crespi del mio malessere.
La frangia e gli occhiali scuri, perennemente incollati sugli occhi.
Le labbra rosse, sono l'unica nota di colore.
Che risultano così nitide, eccessive, nel biancore della mia immagine.
Mi aggiro come un fantasma teatrale, annunciata dal tintinnio dei miei monili.
E dal profumo amaro del mio malessere.
Una presenza discreta. Incolore.
Sono le mie mani, callose e sciupate, a ricordarmi che appartengo ancora a questa vita.
Sono le mani di una donna terrena queste che distendono le pieghe del vestito.
Spazzolano i capelli.
Pennellano di rosso le labbra.
Queste mani che dovrei rivestire di una pelle nuova.
E di nuovi desideri.
Ma ho smesso di desiderare da tanto tempo.
E di sognare.
Così anche le mie ali si stanno incancrenendo, private dello slancio del volo, sono sempre più strettamente pressate sulle mie spalle, come some che curvano la schiena.
Ali appiccicose. Pesanti.
Zavorra. Sotto la quale rischio, continuamente, di rimanere schiacciata.
Se non fosse per queste mie mani, callose e sciupate, con le quali mi sfioro e sfioro il mondo, cercando di afferrare la vita, potrei ben convincermi di non essere davvero io la donna terrena, vestita di nero e con le labbra di fiamma, che scrive le pagine di questo diario, ma la protagonista di una storia raccontata per immagini su una pagina di romanzo.

sabato 17 maggio 2014

Lastra radiologica

Niente è più esaustivo di una lastra radiologica.
Qui viene rivelato l'inganno delle ossa e le bizzarre astruserie delle articolazioni.
Gli snodi esasperati delle giunture e l'inasprimento incoerente delle curvature della colonna.
Delle vertebre che, arroganti, gravano su un tronco sbilenco.
La possente schiena di Atlante si piega, infine, sotto il peso eccessivo del mondo.
E, per non rimanerne schiacciato, il poderoso Titano partorisce una gibbosità dorsale.
Una cifosi acuta. Per gestire la forza gravitazionale. E mantenere l'equilibrio.
Una gobba leopardiana.
Poetica. Esistenzialista.
L'ermeneutica del corpo interno.
Tradotta in lastra radiologica.
Per sondare gli enigmi della cervicale.
Scandagliare l'amnesia perniciosa delle ossa.
Esplorare l'afasia squilibrata delle articolazioni.

La lastra radiologica delle mie mani.
Entrambi i mignoli (quello destro in modo più evidente), all'altezza della terza falange, sono incurvati da un principio di artrite deformante.
Imperfezione appena visibile, ma che pur c'è.
Sono le dita di una Morgana amnesica che ha perso il dono della preveggenza.
E della memoria mitologica.
E di quella progressiva.
Costretta a vagare cerebralmente cieca nei meandri del suo io scheletrico.
Alla ricerca d'improbabili polle divinatorie.
Guidata solo dai random nodosi di quelle sue dita artritiche.

giovedì 8 maggio 2014

Un finale meraviglioso

Inscenava per lui, lo scrittore, piccole provocazioni.
Da principio strategie apparentemente  innocenti, poi, man mano che s'imponeva alla sua attenzione, sempre più teatrali.

Passeggiava, durante le ore della siesta, sotto il suo balcone, vestita di rosso (era il colore che lui preferiva) e con la pesante treccia dei capelli tracimante, dall'argine delle forcine, come un burrascoso fiume ramato: rosso su rosso.
Femmina sfrontata, la cui presenza suscitava la curiosità gelosa delle donne e quella golosa degli uomini.
Passava e ripassava sotto quel suo balcone, sostandoci, perfino strimpellando una chitarrina a mo di serenata.
Questo corteggiamento strampalato aveva reso lo scrittore celebre in tutta la contrada, e poi in tutta la regione e ancora oltre i confini.
Lui, però, per non cedere a quelle lusinghe da sirena, nemmeno s'avvicinava ai vetri e neppure spiava dalla serranda socchiusa, che gli bastava chiudere gli occhi per vederla: un petalo rosso nella calura ardente del pomeriggio.
Così la immaginava.
Così lei era.

Pure capitava che lo svegliasse nel cuore della notte, lanciando sassolini alle imposte chiuse del balcone, mormorando il suo nome: un richiamo che nessun'altro sentiva ma che a lui giungeva nitido, inequivocabile nel suo significato.
Nella strada buia gli si offriva sollevando la veste scarlatta.
Sarebbe bastato aprire il portone e scendere i tre gradini. O lei salirli.

Travolgente.
 Lui l'immaginava travolgente.
Un vento rosso.
Una fiammella.
Qualcosa che non si può fermare, ma solo per un breve attimo trattenere.
Per questo rimandava il momento della sua resa.
Conscio che una volta avuta l'avrebbe poi persa.

Così, pur ritraendosi, gioiva di tanta perseveranza.
Esaltato da quella sua innocente impudicizia.
Lui la vedeva innocente.
E bella.
La donna più bella del mondo.
Ma anche la più folle.
Ostinata, sotto quel suo balcone, sia che ci fosse il sole o la luna.
Anche nei giorni di pioggia.
Incurante, a dar spettacolo d'amore all'intera contrada, con quelle sue serenate.
E i richiami notturni dei sassolini.

Lei lo aveva reso leggenda.
Gli uomini lo invidiavano.
Le donne lo sublimavano.
 Tutti, però, aspettavano che qualcosa tra loro accadesse.
Un inizio o una fine, a motivar tanta tenacia, da una parte a provocare e dall'altra a resistere.

E in attesa della capitolazione di uno dei due, s'erano intanto aperte le scommesse.
 Un portento quella rossa, che pur avrebbe meritato un tipo più virile del timido scrittore.
Una donna magnifica, per gli uomini.
Una sgualdrina, per le donne.
Bravo lui, a non darle speranza.

L'epilogo avvenne in una notte caldissima e senza luna.
Lo scrittore, contravvenendo alla regola, non s'era quella volta barricato perché stentava, in quell'aria immota, anche a respirare.
Finestre spalancate sulla strada buia e sull'ombra porpora che la pattugliava, mormorando incessante le sillabe del suo nome.
Una nenia ipnotica, un incantesimo a cui lui, finalmente, quella notte s'arrese.
Tre scalini a scendere.
Tre scalini a salire.
E già lei gli si offriva.
Sfrontata.
E bellissima.

Trascorsero la notte in un amplesso senza fine.

L'alba, foriera di pioggia, portò ristoro all'arsura meteorologica e a quella dei sensi.
Lei, finalmente acquietata, come Ofelia s'era addormentata nel fiume rosso dei suoi capelli, mentre lui giaceva insonne, preda del presentimento dell'abbandono imminente.
Una donna così non la trattieni.
Non è appannaggio di un solo uomo.
Né di un solo amore.
Queste le previsioni pessimistiche dello scrittore.

L'idea di trattenerla prigioniera del suo amore, all'interno di una camera blindata, con la certezza che lei lo avrebbe poi odiato, lo ripugnava
Ma altrettanto insopportabile sarebbe stato il dolore di vederla andar via.
Valutò, allora, l'ipotesi di morire assieme.
La lama affondata nei loro cuori sarebbe stata la freccia di Cupido che li avrebbe uniti per l'eternità.
Una morte romantica, con le finestre spalancate sull'irrompere della bufera d'acqua che li avrebbe, in ultimo, trascinati via, avvolti nello stesso lenzuolo.
Un epilogo meraviglioso a consolidare quella loro leggenda, sui quali anche i critici, da sempre severi coi suoi finali che a loro parere ammazzavano la storia, avrebbero finalmente concordato.

giovedì 1 maggio 2014

Un gioco nuovo


- Sei così giovane - Mi ripeteva carezzandomi con le dita ombrate di colore.
Mi piacevano quelle sue dita, lunghe e nervose, sfumate di azzurro, di porpora e di grigio.
Dita di apostolo in un uomo così carnale.
- Ma anche così vecchia. Una sacerdotessa di Avalon. Erano le sacerdotesse a scegliere gli uomini, sai? Mi avresti scelto? Nella folla prostrata ai tuoi piedi, mi avresti indicato? Avremmo fatto l'amore nei boschi, sotto la luna piena, consci degli occhi spalancati a spiarci nel buio. Occhi come luci ad illuminare un immenso palcoscenico per la mia bellissima strega. Non ci sarebbe stata profanazione, perché saresti stata tu a scegliere me -
E le sue dita percorrevano immaginari sentieri di bosco, danzando nell'aria come farfalle nude, pronte a farsi divorare dalla bocca ingannatrice di un fiore carnivoro.
Dita da ipnotizzatore.
Mi ritrovavo nuda fra quelle sue dita, con la sorpresa di un calore nuovo e sconosciuto nel ventre. E mi rotolavo cercando sollievo a quel piccolo fuoco che lui alimentava con la sapienza delle sue mani. Si eccitava della mia eccitazione, ma sfidava se stesso a non cedere alla tentazione.
- Non ancora. Non così presto. Non oggi - Ripetevano le sue labbra aride.
I capelli spioventi sugli occhi bendati e quelle sue dita che brancolavano cieche su di me, nella stanza scura.
- Voglio impararti a memoria e, per fare questo, occorre il buio completo. Voglio avere le capacità di un cieco per possederti completamente -
Ma io avevo imposto la penombra perché ho paura del buio assoluto.
- Odio il buio, l'odore della mia paura ti renderebbe tutto estremamente facile ed il tuo gioco non avrebbe più senso -
Trovando valida questa mia considerazione aveva ceduto di buon grado all'infiltrazione di un po di luce. Avevo capito che quello era per lui un gioco nuovo e che le regole le andava, di volta in volta, stabilendo.
Ma quello che mai avrebbe immaginato era che io quel gioco lo conoscevo fin dall'infanzia: vivere nel silenzio e nell'oscurità interiore per riuscire a captare l'esterno attraverso l'esasperazione estrema dei sensi.
Se avessi voluto avrei potuto facilmente violarlo.