Dedico questo blog a mia madre, meravigliosa farfalla dalle ali scure e dal cuore buio, totalmente priva del senso del volo e dell'orientamento e, per questo, paurosa del cielo aperto. Nevrotica. Elusiva. Inafferrabile.

domenica 30 marzo 2014

Realtà apparente

Se vuoi vivere in una realtà parallela non puoi circoscriverti al semplice ruolo di spettatore.
Per poter trasformare la mera illusione in una realtà apparente devi riuscire a tramutarti in qualcuno che, in quella dimensione, occupa un posto di diritto.
Devi accettare la voce fuori sincrono.
Ed il ventriloquo che te la presta.
Devi credere alla menzogna dei soli raggianti e delle lune fredde che, scorrendo su un fondale dipinto, si alternano in un tempo squilibrato. Programmato sulla dentellatura di una rotella d'orologio. All'interno del meccanismo primitivo di un giocattolo antico.



sabato 29 marzo 2014

Eloisa e Baltimora



Mi racconterai una storia?
Ti racconterò tutte le storie del mondo, quelle già scritte e quelle ancora da scrivere
                                                                                                                                     A Claudia

PREMESSA
La vita, infondo, è un racconto e la sua interpretazione.

BALTIMORA
Mi chiamo Baltimora e sono capitata per caso in questa storia ancora da scrivere e, dal momento che l'autrice non riesce a  trovare un  soggetto che la soddisfi, mi offro come spunto.
La stragrande maggioranza dei lettori ingenuamente coltiva la romantica convinzione che le storie nascano direttamente dalla testa dello scrittore, allo stesso modo di come Zeus partorì Athena, ma non c'è nulla di più falso perchè la letteratura, così come la storia, la filosofia e tutte le altre materie umanistiche, molto spesso trova l'estro nella rivisitazione, in chiave personale, di ciò che altri hanno prima di lui scritto.
E sono i soggetti, cioè  i protagonisti delle storie, a presentarsi agli scrittori, esattamente come ho fatto io.
Ma quasi sempre accade che gli autori, con grande faccia tosta, e senza mostrare alcuna gratitudine, spaccino il soggetto come farina del proprio sacco: l'illuminazione, il colpo di genio, l'idea originale.
Una vecchia storia che si ripete fin dai tempi in cui l'uomo incideva graffiti sulla roccia.
Mi chiamo Baltimora, ed è bastato questo perchè l'autrice, priva d'ispirazione, e alla disperata ricerca di un'idea, immediatamente balzasse come un pupazzo a molla dalla sedia sulla quale giaceva inerte.

ELOISA E BALTIMORA
Mi chiamo Baltimora, perchè così ha voluto mia mamma che mi ha partorita in diretta sul palcoscenico di un piccolo teatro d'essai nella città di Baltimora.
Ovviamente quel parto non rientrava nella sceneggiatura se non fosse che il destino aveva deciso d' anticipare di un paio di mesi, ed in maniera così  plateale, il mio debutto sulla scena  della vita.
Grazie a questa mia precoce performance, la compagnia aveva goduto per la prima, ed unica volta, dell'ebbrezza della notorietà, e così furono tutti d'accordo che mi venisse da subito assegnata una parte.
Perchè io ed Eloisa saremmo state, da subito, inseparabili.
Eloisa e Baltimora.
Eloisa è stata prima di tutto mia madre e solo in seconda istanza la prima donna della compagnia.
E dal momento che era lei, straordinariamente bella e straordinariamente persuasiva, a procacciare gli ingaggi, nessuno della compagnia cercò  mai di sovvertire quest'ordine.

IL DIVINO RUDY
Mio padre non l'ho mai conosciuto ma neppure ne ho sentito troppo acutamente la mancanza
Una volta chiesi a mia madre di rivelarmi almeno il nome e lei rispose, Rodolfo Valentino, ma non chiedermi altro, aggiunse, che non saprei cosa dirti dal momento che tutto si è concluso nell'arco di una notte. Tu non gli somigli affatto, Baltimora, ma nessuno credo possa davvero somigliargli. E questo non è un male perchè i paragoni, il più delle volte, sono impietosi oltrechè ingiustamente crudeli. Accanto a lui avresti brillato di luce riflessa e continuamente ti saresti chiesta se ciò che andavi conquistando era davvero frutto del tuo talento o solo merito del suo cognome, probabilmente avresti trascorso metà della tua vita ad interrogarti e l'altra metà a cercare d'eguagliarlo.
Baltimora, tu sei unica come il tuo nome.

LA DONNA VELATA DI NERO
Ad ogni buon conto, all'epoca in cui si svolse questo dialogo, il divino Rudy era già morto da un po di anni ma non la sua leggenda che continuava  a vivere e ad espandersi.
Mi riusciva difficile pensarlo come mio padre, per lui provavo solo una distaccata curiosità scevra dal rancore ma lontana dall'affetto: un immagine dinamica su un telo cinematografico.
A mia madre, invece, fui sempre grata di non avermi imposto nessun'altro surrogato.

Fu poco dopo la sua morte che ricevetti la visita di una giovane italiana, Irene Negri, che mi mostrò una lettera, una scrittura privata dove, al primo sguardo, e senza ombra di dubbio, riconobbi la grafia ordinata e la firma svolazzante di mia madre che s'impegnava a versare, alla signora Camille Negri, una certa somma di denaro come compenso all'impegno di depositare sulla tomba di Rodolfo Valentino, ogni 23 di Agosto, in  ricorrenza dell'anniversario della sua morte, un sontuoso bouquet di 75 rose di colore rosso vivo, in una tonalità compatta e priva di sfumature.
Camille Negri, mi spiegò la giovane donna, era sua mamma, che non avendo quell'anno ricevuto il consueto, puntualissimo mandato per la commissione, aveva comunque provveduto di sua iniziativa ad ottemperare all'incarico, immaginando che questa defezione non fosse causata una semplice dimenticanza ma, più verosimilmente, da una sopravvenuta impossibilità della signora Eloisa.
Irene precisò che non era lì per esiger denaro ma, piuttosto, per rassicurarla che anche quel 23 di Agosto tutto era stato puntualmente eseguito  nelle modalità stabilite.
Quali erano queste modalità?
Ad ogni anniversario della morte di Rodolfo Valentino, Camille, velata di nero doveva recarsi a depositare un sontuoso fascio di rose rosse sulla sua tomba.
Era Camille Negri, dunque, la misteriosa donna velata di cui si era tentato invano di svelare l'identità.
E quella leggenda era nata da una notte d'amore.
Ora che mia madre era morta spettava a me continuare a perpetrala.
Ogni 23 di Agosto, sempre, ci sarebbe stata una donna velata di nero a deporre sulla tomba di mio padre, Rodolfo Valentino, un fastoso bouquet di rose di colore rosso vivo, in una tonalità compatta e priva di sfumature.

martedì 25 marzo 2014

BOOMSTICK AWARD


 Ma grazie per questo premio, Giò, una sorpresa inaspettata, che mi son ritrovata, lussuosmente impacchettato davanti l'uscio di casa, perchè io, al momento della consegna, ahimè non c'ero.
A saperlo avrei di certo affrettato il ritorno, che è un premio è segno di stima e d'amicizia: una cosa bella,  e vera, tra le tante, brutte e false.

Immensamente mi piace il fatto che il "BOOMSTICK AWARD" non si distribuisce per merito ma, piuttosto, per pretesto: è meraviglioso.
Un pretesto può dar l'avvio ad infinite possibilità che, senza, non si sarebbero mai concepite: ipotesi, storie, cronache e leggende.
Il pretesto è il combustile che alimenta il detonatore dell'entusiasmo: stifnato di piombo e fulminato di mercurio. Da manegggiare, quindi, con assoluta cautela, che lo stifnato e il fulminato, caratteri impetuosi, già al primo timido applauso sono pronti ad esplodere in follie pirtotecniche. Manifestazioni di gioia incontenibile, l'esaltazione di venire premiati unicamente in quanto noi stessi.
Senz'altro motivo.
Senz'altro scopo.

Grazie, Giò :)))

La bellezza ha bisogno delle imperfezioni per esaltarsi: mai chiudere la tenda su un brutto paesaggio.

L'aria ancora fredda del mattino penetra nella stanza e vivifica il risveglio. Non concede attese il freddo, solo reazioni immediate, e così mi butto fuori dal letto per chiudere quella finestra spalancata sul gelo del mattino, efficace terapia d'urto a contrastare l'ottundimento, morbido e tiepido, delle coltri.
La casa è sempre silenziosa a quest'ora.
E' il momento più bello, più intimo ed esaltante, quel momento sospeso, quando ancora tutto deve cominciare: l'ultima stella tardiva si va spegnendo e il primo pigro raggio di sole è ancora lontano a venire.
Si alza il sipario e va in scena il mondo.

Mi siedo davanti la finestra, spettatrice attenta e benevola, che l'esperienza m'ha insegnato che nella solennità dell'allestimento in corso ci sarà di certo una qualche stonatura che, in un dato momento della giornata, si paleserà.
La bellezza ha bisogno delle imperfezioni per esaltarsi.
E' da quel confronto che lei esce vincente.
Sbavature, nei, incongruenze e visibili posticci, strategicamente collocati nelle immediate adiacenze, sono accessori atti a far risaltare le sue lisce patinature, la luce pulita e le ombre morbide, e quella serenità calma che ne scaturisce.
Perché la bellezza ci quieta, ci riempie, ci evolve.
Inchiodandoci alle nostre evidenti imperfezioni, si mostra come alternativa, obiettivo da raggiungere, primato da eguagliare.
La bellezza ci pacifica quanto la bruttezza ci rende combattivi.
Il bello afferma se stesso senza mai troppo sforzo, il brutto, invece, deve imporsi.
E' questa la sua vitale energia.
La bruttezza s'avvale, per emergere, di una volontà potente, nervi scattanti, sensi allertati e mente lucida.

 Mai chiudere le tende su un brutto paesaggio.
Un brutto paesaggio non attira i turisti ma piuttosto i poeti.
I poeti sanno penetrare l'essenza delle cose anche laddove c'è disarmonia e cattivo odore, e apparentemente niente invoglia alla contemplazione.
Il poeta affronta le ragioni della disarmonia, non le evita, come chiunque altro farebbe, con un moto frettoloso di fastidio, quel tirare, appunto, le tende a voler preventivamente ignorare, disconoscere, prender le distanze, su qualcosa che si palesa alieno o in contrasto con i canoni prestabiliti, ma cerca, invece, di comprenderle quelle storture, con benevolenza ed una punta d'ironia.
E alla fine se ne innamora.
E ce ne fa innamorare.

 Un brutto paesaggio non attira i turisti, ma piuttosto i poeti, i fuggitivi e i randagi, gli anacoreti e gli eretici, i disperati e gli appassionati. E gli anarchici.
Facile imbattersi, in questi luoghi così superficialmente disdegnati, in Edgar Allan Poe o Dante Alighieri, e la più ardente, tra le donne: Giovanna D'Arco.

domenica 16 marzo 2014

La Dea



  Ti Amo.
Con questa frase iniziano e terminano tutte le mie lettere.
Nel mezzo la descrizione minuziosa della febbrile esaltazione dei miei sensi e della mia mente, un racconto sboccato e folle, e niente affatto romantico, dell'interpretazione di questo rapporto.
Il  "Ti Amo", iniziale e conclusivo, è l'unico romanticismo che concedo alle mie missive.
Un bilanciamento strategico per render più reale, ed eccitante, il gioco.
 
"Perchè hai tardato a scrivere? Ho atteso la tua lettera come un condannato attende un verdetto di grazia che pur si augura non giunga mai, consapevole che per respirare ho bisogno del nodo scorsoio del tuo cappio"
Eternamente tuo

Lo immagino, stracciare la busta, cavarne il sottile foglio di carta velina ricoperto dai caratteri minuti della mia grafia, intriso dell'odore d'acquamarina del mio pube.
Lo annusa mentre lo stringe tra le mani, caldo e palpitante, piccolo animale lussurioso dal cuore clitorideo.
 
"Quell'animale femmina che nidifica nel tuo monte di venere e dalle cui labbra segrete mi giunge, ossessivo, il suo mistico richiamo. E il suo voluttuoso odore di caverna, inconfondibile ai miei sensi, di cui ho pregno il sesso, le dita e la bocca. E la mente. Così mi concedo alla tua fantasia. Coscientemente mi lascio sodomizzare da quella tua penna descrittiva, che divinamente usi come un pene di femmina a penetrare i miei lombi, già umidi alle tue dita, aperti ed eccitati, pronti a soddisfare i tuoi clandestini desideri.
Eternamente tuo

"Ti Amo".
Con questa frase iniziano e terminano tutte le mie lettere.
L'unico romanticismo che concedo alle mie missive.
Una strategia di gioco.
Al centro, parole nude e palpitanti.
Parole puttane.
Perché anche una dea ama il mascheramento e quanto questo è più lontano dalla sua natura più le procura piacere l'oscuro desiderio che la riplasma con un'essenza carnale e nel gioco sottomessa, quel tanto che basta perché la finzione risulti reale, affinché lei possa assaporare il divino in ciò che è solo umano.

venerdì 14 marzo 2014

L'inizio del viaggio

Viaggiatrice entusiasta, di viaggi però brevi e circoscritti, che il mio senso d'orientamento è inesistente, cosicché, pur avvalendomi dell'ausilio della bussola, facilmente confondo i punti cardinali, che nella mia fantasia il nord si configura ialino e boreale; il sud acceso da un immenso sole mandarancio; l'ovest, crepuscolare; l'est pervaso da bagliori dorati di minareto.
E se davvero così visivamente fosse, non avrei bisogno della mia bisaccia colma di sassolini fosforescenti coi quali tracciare la strada a ritroso.
Stratagemma collaudato con successo già dai tempi di Pollicino, cosicché affrancandomi dall'angosciante assillo mnemonico del percorso, mi concedo ardite esplorazioni su sentieri secondari e spericolate escursioni nelle retrovie più recondite, a privilegio dell'avventura, intesa come scoperta, entusiasmante e sorprendente, di luoghi e di genti.
Emancipata dalla mia dislessia verso le carte geografiche, pienamente godo dei paesaggi così come degli incontri con altri viaggiatori, quando talvolta accade, per empatia ed affinità, di proseguire insieme un tratto di strada.
Compagni occasionali con i quali è naturale dividere una sigaretta, un margarita o un bicchiere d'orzata, un ombrello sotto cui riparare da un temporale improvviso, la stessa coperta a mitigare il gelo della notte
Compagni di strada coi quali ci si racconta secondo l'estro e il bisogno, senza dover esibire alcuna credenziale.
Ci si accetta sulla fiducia, consapevoli che talvolta le biografie sono menzognere ma, alla summa dei fatti,  irrilevante, che altrimenti, se non c'è la predisposizione all'accettazione della storia dell'altro, la scelta più opportuna è il proseguir da soli.
Lungo la strada ci si racconta, volentieri si ride, spesso s'impreca, talvolta ci s'innamora.
Mai, però, si piange.
Le lacrime son faccende private.
E' la prima cosa che s'impara all'inizio del viaggio.
E alla fine si scopre essere un vantaggio, che è pur giusto che qualcosa rimanga di solo nostro, perché il dolore, quasi sempre, risulta essere la parte più intima e privata del luogo che abbiamo lasciato e a cui forse, un giorno, faremo ritorno.
Perché le lacrime sono paragrafi di storie più articolate che non è possibile riassumere in poche parole, rischiando, con gli accenti dell'amarezza, di trasformare la complessità della storia in un racconto triste.
Meglio, quindi, saltare il capitolo e condividere con l'occasionale compagno di viaggio l'umido del cielo, il conforto del  bivacco improvvisato, la tazza di caffè che sa di orzo, e quell'unica notte d'amore, perché allo spuntar del sole, al primo bivio, le strade si divideranno e ancora da soli si proseguirà il cammino.

sabato 1 marzo 2014

Non è un addio

Non è un addio, sono certa che presto ritornerò: devo terminare la storia di Rebecca e scrivere tutte le altre che, da qualche parte nella mia testa, forse sono in germoglio.
O così mi piace credere.
Ma nel presente sono in confusione totale.
Provo rabbia per questo mio stato, soprattutto perchè odio lasciare le cose in sospeso, seppur la mia vita è fatta di cose incompiute o malamente rabberciate.
E' un periodo davvero buio.
Un saluto a tutti
A presto
Marilena