Dedico questo blog a mia madre, meravigliosa farfalla dalle ali scure e dal cuore buio, totalmente priva del senso del volo e dell'orientamento e, per questo, paurosa del cielo aperto. Nevrotica. Elusiva. Inafferrabile.

domenica 19 ottobre 2014

...d'altronde, io stessa, quasi mai scrivo storie a lieto fine

Sono tornata al mio antro, dopo una lunga assenza da Blogosphere, spinta dalla nostalgia più che dalle esigenze della scrittura.
Non scrivo più da tanto tempo, anzi, a dire il vero, cerco perfino di non pensare alla scrittura, condizionata dallo squilibrio umorale, e dall'inquietudine esistenziale, ho trovato una sorta di rifugio nell'amnesia, un reset della mente e dell'anima, un'abiura a me stessa.

Sto lottando contro i miei demoni che ancora ostinati ritornano, ma oggi sono rassegnata alla loro presenza, totalmente disarmata, non impugno più la penna come una spada per ingaggiare duelli per la vittoria, piuttosto medito tregue ed accetto ultimatum.
Dalla mia stretta trincea vivo questa pace a termine con sentimenti contrastanti che forse, ecco, sarebbe meglio morire una sola, e definitiva volta, invece che subire continui, subdoli pestaggi, ed essere graziata in extremis dal nemico solo perché questi possa di nuovo, una volta che io abbia recuperate le forze, tornare a farsi sotto e ricominciare il giochino

 Approfittando di una di queste tregue son tornata nel mio antro a constatare i danni causati dall'incuria del tempo e dal mio abbandono, e lo stato di salute dei suoi abitanti, semmai ancora ne fosse rimasto qualcuno.
Mi ha accolto il silenzio delle stanze disabitate e la penombra delle tende chiuse.

 ...d'altronde, io stessa, quasi mai scrivo storie a lieto fine.

Images by Steven Chu

giovedì 25 settembre 2014

Nanà

Il nome del suo primo amore, Nanà, se lo è tatuato sul polso.
Quando la storia è finita lui se ne è andato ma il nome è rimasto lì, come un bracciale indelebile, a testimoniare che le passioni svaniscono, ma non un buon tatuaggio.
E Nanà, dopo essersi consumata gli occhi nel pianto, alla fine ha deciso che quel nome lo avrebbe mostrato con l'orgoglio di una ferita di guerra e non come il marchio di un fallimento.
Quanti nomi si possono scrivere sul corpo di una donna?
Quello sarebbe stato solo il primo di una lunga lista.
E lei sarebbe diventata leggenda.

sabato 20 settembre 2014

Una storia d'amore


Mariù e Menico procedevano affiancati nella controra, lui col suo passo lungo cavallerescamente misurato su quello di lei, per non distanziarla di troppo.
Menico (Domenico) e Mariù (Mariuccia) Iodice, i coniugi della masseria da basso, quelli che avevano i soldi ma non i figli, e questo per colpa di lei, insinuavano le malelingue, così minima e provvisoria, visibile solo per l'abbondanza della chioma, fitta e chiarissima, colore della stoppa, ma i fianchi stretti e la passerina chissà quanto minuta, da far tribolare un uomo ad entrarci ed un neonato ad uscirci.
Tanta ricchezza e neppure un erede, che Menico, già figlio unico, faticava da solo a portare il peso di quel cognome che constava di migliaia di ettari di terreno agricolo ed un allevamento bovino, assai ben avviato.
Tant'è che è risaputo, come spesso capita, che chi ha il pane non ha denti, e senza nessuna ragione spiegabile alla logica, Menico s'era intestardito a voler in moglie questa maestrina dall'aspetto provvisorio, incolore ed inodore, mettendosi contro la famiglia intera che per lui, bello e ricco, avrebbe preteso una sposa diversa, se non più bella, o benestante, almeno con le qualità di una fattrice.
E si che di pretendenti ce n'erano a voler ricoprire quel ruolo, fornite oltre che di maggiore bellezza anche di cospicua dote.
Ma lui s'era intestardito al punto che con nessun ragionamento fu possibile smuoverlo dal suo proposito.
«O sposo Mariù, col vostro consenso, o me la sposo comunque, senza la vostra approvazione, e ce ne andiamo a vivere in una città estera». Aveva detto, opponendosi deciso, al volere del padre.
E quest'ultima minaccia era stata, alla fine, risolutiva.
Quella che aveva determinato il consenso alle nozze.

Mariù, di professione maestra, più volte aveva provato lei stessa a convincere Menico di non mettersi contro la famiglia, di cui capiva benissimo le motivazioni e, seppur le facevano male, intuiva che non originassero da una repulsa preconcetta nei suoi confronti ma, piuttosto, dall'ostinazione protettiva, seppur prevaricante, della preoccupazione della tutela del nome e dell'accrescimento dei beni, che la ricchezza esige che s'accompagni ad altra ricchezza, mentre lei, oltre al suo stipendio di statale, non possedeva null'altro.
Naturale che la famiglia di lui aspirasse ad una sposa con un curriculum più sostanzioso.
Ma a questi ragionamenti, Menico, appassionatamente s'opponeva, e ribadiva quella sua libertà di scelta che teneva conto del cuore e di niente altro.
Anzi, quando lei con tono misurato e dolce, si predisponeva a tali discorsi, lui le chiudeva la bocca con un bacio e le sussurrava tra i folti capelli albini, te o nessun'altra.
E questo impediva il prosieguo del discorso, perché Mariù, commossa ed innamorata, sentiva venir meno la determinazione a dissuaderlo dall'ostinazione per quel loro amore.
Il suo sentimento sincero soffriva dell'umiliazione dell'ingiustizia preordinata dal ceto e dal conto in banca, ma nonostante questo pur si prodigava per evitare quella rottura minacciata di Menico con la famiglia, sebbene lei stessa non avrebbe saputo immaginare la vita senza di lui.

Il giorno delle nozze Mariù somigliava più ad una comunicanda che ad una sposa, che nell'abito bianco sembrava sperdersi, e pure del velo avrebbe potuto farne a meno, con quei capelli chiarissimi sparsi sulle spalle, a farle da manto.
In virtù della legge dei contrasti, invece, Menico, alto il doppio e bruno come un arabo, sembrava ancor più imponente e scuro.
Matrimonio benedetto dall'amore, ma senza figli.
E si che all'inizio, Mariù, non riusciva a rassegnarsi, tanto forte era il desiderio di dargliene uno, ma non per quelle cose misere, quali il nome e la discendenza, ma perchè sarebbe stato il suo dono più grande, il risultato di quelle loro notti appassionate dove lei gli si concedeva come in una festa, nella glorificazione dei sensi e del sentimento. Notti di sesso e di confidenze.
Come quando dopo aver fatto l'amore, Menico, con la testa poggiata sul seno di lei, spesso le chiedeva un racconto, una storia vera o di fantasia, per continuare a vibrare, prima del sonno, ancora di piacere sessuale nel sottofondo di quella voce morbida, che esplorava per lui il buio con la lanternina magica della fantasia.
E neppure una volta lei lo deluse.
«Raccontami una storia, Mariù».
Mariù si fermava brevemente a frugare nel baule inesauribile della sua fantasia e tornava con la trama di una novella inedita, o i versi di una poesia, che anche poteva essere traccia per una canzone o per una ninna nanna.
Più spesso recava il dono prezioso di una storia d'amore, che era poi la loro stessa.

«Cosa ci trovi in quella femmina che le altre non hanno?» Gli aveva chiesto un giorno, esasperato, suo padre
«Mi piace lei, la sua voce, e come sa raccontar le storie. In particolare una: la nostra». Aveva risposto, senza tentennamenti, Menico.

lunedì 15 settembre 2014

Sull'amore. Sulla diversità. Sull'accettazione


Un poeta s'innamorò perdutamente di una eterea damina dallo sguardo malinconico.
Alla quale dedicava poesie.
Ardenti ed esistenziali.
In cui decantava il suo amore, immenso ed appassionato. Per lei, splendida creatura.
La più bella fra le donne. Unica. Incomparabile.
Le scriveva lunghe lettere in cui lei era angelo, sirena e dea. Incantatrice.
- Ma quello che davvero trovo sublime è il vostro sguardo. Rivolto verso l'interno. Che fa di voi una creatura irraggiungibile. Enigmatica. -
Questo scriveva il poeta alla eterea damina dallo sguardo incorruttibile.
Ed il suo amore cresceva a dismisura, quanto più lei sembrava inaccessibile.
Tenace. Irruento. Ardimentoso.
Che non lasciò insensibile la giovane signora.
E così le missive divennero lunghe conversazioni. Nel salottino di lei.
Dove nessun argomento veniva trascurato.
Ed il poeta piacevolmente potè constatare che, oltre alla bellezza, la damina possedeva anche l'acume dell'intelligenza. E della profondità.
In tutta questa armonia di affinità persisteva, come unica nota stonata, la malinconia perenne dello sguardo di lei.
- Che mi esclude. E mi prospetta un mondo misterioso. Di cui io non ne faccio parte alla stessa stregua di coloro che non hanno il privilegio di condividere alcunchè con voi -
Con toccante mestizia, lamentava il poeta.
- Qual è la ragione della vostra malinconia? Ditemelo affinchè io possa, con la forza del mio amore, diradare la tristezza che offusca lo splendore dei vostri occhi. -
La damina rimase in silenzio.
Un lungo, infinito silenzio.
Poi tirò su la veste e là, dove avrebbero dovuto esserci le gambe, spuntarono due irreali, grottesche code di pesce.
Il poeta ammutolì.
Ritraendosi d'istinto. Inorridito.
- Ditemi, quale miracolo può fare il vostro amore per modificare questo scherzo della natura? -
Chiese la damina in tono pacato. Riassestandosi dignitosamente la veste.
- Quella che ci fa credere che voi non abbiate gambe, ma code di pesce, è solo una stregoneria. Un'allucinazione.Voi siete perfetta. Alzatevi vi prego. Un passo verso di me. Se vacillate io vi sosterrò. Un solo passo, in nome dell'amore. Non abbiate paura. Non deludetemi -
E la damina coraggiosamente, per non amareggiare quell'amore così esaltato e fervente che ostinatamente negava la realtà di una deformità grottesca, ed affatto illusoria, provò a cimentarsi in qualcosa che mai prima aveva sperimentato: la posizione eretta.
Per un attimo fu in tutta la sua altezza.
Instabile.Vacillando. Annaspando.
Marionetta scoordinata. Disarmonica.
Terrorizzata.
Mentre rovinosamente cadeva in terra, fracassandosi il capo.

sabato 13 settembre 2014

Ballo in maschera


......e non è di certo al mascheramento carnevalesco quello a cui, con questo post, faccio riferimento ma, piuttosto, ad una commedia degli equivoci, consapevolmente recitata su un copione accuratamente redatto, minuziosamente articolato, che assolutamente non consente riscritture.
Dilettantismo ed improvvisazione non sono, in questo contesto, da prendersi in considerazione.

Se dovessi proporvi una scenografia di sicuro opterei per quella raffinatissima del film di Kubrick " Eyes Wide Shut": abbondanza di specchi ed ambienti luminosi, perchè nessun particolare di questo straordinario, e privatissimo ballo in maschera, deve restare nell'ombra.

......motivo per cui, premetto da subito, una recita di tale spessore non è per tutte, neppure facendo leva su sensibilità e passione istrionesca, doti geneticamente insite nella stragrande maggioranza di noi donne quando, fin da bambine, mostriamo una propensione sfacciata, e squisitamente femminile, all'inganno seduttivo.
E, se gli strumenti materiali per questa piece non sono impossibili da reperire, l'impianto recitativo, concernente l'alta qualità interpretativa richiesta, non è altrettanto scontato: la predisposizione non basta
Quindi non accingetevi a questa reppresentazione se non siete più che sicure di voi stesse.


Questa scenografia impone magnificenza in ogni dettaglio: l'abito deve essere sontuoso e straordinariamente seducente; consiglio i capelli raccolti per dar maggior risalto ai gioielli, di cui dovrete risplendere per stimolare quei pensieri peccaminosi che sempre scaturiscono alla visione di un collo sottile, sfacciatamente esposto alle voglie proibite di un amante.
Il vostro  talento, mie care signore, è nel fargli credere che siano sue le mosse conseguenti quando, invece, la regia sarà unicamente vostra: a lui gli applausi, a voi la gloria. 

Profusione di candele, lampadari, gioielli, e specchi......tanti specchi, disseminati ovunque, per dilatare gli spazi e vivere la duplice fantasia di essere, nel contempo, spettatori ed interpreti di quelle disinibite fantasie di esibizionismo, e voyeurismo, che piacevolmente stuzzicano l'immaginario sessuale.
Siete voi l'esibizionista, la predatrice che esibisce, dall'apertura provvidenziale del suo mantello stellato, il nudo candore di un seno o quello, ancor più mozzafiato, del pube esibito nature, incastonato nella sottile cornice del reggicalze di pizzo e lustrini, come un gioiello  sorprendente e prezioso, profferto al suo sguardo.
Ricordate che voi siete l'abito e quello che l'abito contiene.
Siete la vulva e la perla.
Costruite il vostro racconto erotico sulla scia della fantasia dettata dai vostri desideri più segreti, quelli che ritenete incofessabili e sui quali, con dovizia di particolari, fantasticate nei momenti di autoerotismo.
L'eros femminile sa essere travolgente, e molto più disinibito di quel che si è soliti immaginare, e le visioni allo specchio ampliano le sensazioni, moltiplicano le emozioni, ed ispirano alla sperimentazione di performance più  che audaci.

Partiamo dall'assunto che, in qualche modo, esibizionisti e voyeur, consapevoli o meno, lo siamo tutti, non per amore della poesia ma per puro stimolo sessuale.
Guardare e mostrarsi: è questo che avviene nel sesso.
Ovviamente se lo spettacolo ci piace e se ne siamo coinvolti.
......e se la trama non è scontata. 


 
PROBABILI TRAME
Un ballo in maschera: un occasione che più di ogni altra si presta alla sperimentazione delle fantasie sessuali più disinibite.

L' Alter Ego
Una mise maschile comporta un travestimento forse più scontato ma, di sicuro più facile, per organizzare una cena intima in un bel ristorante. Sostenere la recita davanti ad un pubblico, sia pur inconsapevole, è davvero eccitante. Passato il primo momento di smarrimento del vostro compagno (ovviamente la sorpresa è il fattore principale), scoprirete le conturbanti delizie di questo gioco di ruolo. E, se temete che il vostro partner la prenda male......naaaaaaa, sarà suo malgrado irretito perchè l'ambiguità, nel gioco sessuale, è sempre un fattore altamente provocante e stimolante.

L' Esibizionista
Un abito meraviglioso usato come l'impermeabile di un esibizionista, pretesto per esibire, e sorprendere, con metodi pirateschi, la vostra sessualità e stordire, con quest'audacia, il partner. Evitate di mettere in scena tale rappresentazione se lui è alla guida dell'auto o sta attraversando la strada.

La Voyeur
Ruolo insolito per una donna. Se lo sapete condurre, il gioco risulterà straordinariamente eccitante per entrambi. Luci soffuse, ma non troppo, perchè gli specchi devono adempiere alla loro funzione. Invogliate il vostro lui ad improvvisare uno spogliarello per voi, sedute in prima fila, con le gambe accavallate e...... niente mutandine: Sharon Stone docet.
Un gioco a due dove ci si eccita, eccitando.

La Mistress
Total nude, tacchi altissimi, una mascherina nera e frusta d'ordinanza.
Agli uomini piace molto più di quello che sono disposti ad ammettere.
Ma è una trama, questa, fin troppo banale!

lunedì 1 settembre 2014

Latte


La marchesa Dell'Isola del Gallo impiegò quarantotto ore di dolorosissimo travaglio per dare alla luce il suo secondogenito, un fantolino bianco e rugoso, dagli occhi color dell'acqua.
Due giorni d'indicibili sofferenze che l'estenuarono nel corpo e la prostrarono nello spirito, prima di riuscire ad espellere quell'esserino glabro, privo di colore e d' inclinazione alla vita, che emise solo un vagito, breve e secco, dopo che la levatrice riuscì ad estirparlo dall'utero al quale si era ferocemente abbarbicato come un erba di montagna che, se viene sradicata, trascina con sé anche il pietrisco nella cui fessura dimora.
La marchesa, che in quel lungo ed estenuante travaglio aveva rischiato di perdere la vita e la ragione, del suo erede maschio non volle più saperne.
Lo bandì inderogabilmente dalla sua camera.
E dalla sua memoria.
Invano il marchese cercò di farle accettare quell'esserino diafano e silenzioso, che mai piangeva e se ne stava rintanato nel suo angolo di culla, con gli occhi aperti e i pugni serrati.
Ogni volta che si arrischiava a sorpassare la soglia della sua camera con il neonato in braccio lei iniziava a blaterare frasi sconnesse e maledizioni, e lanciargli contro ogni sorta di oggetto.
Stessa sorte, poi, riservò a lui, vietandogli per il resto dei suoi giorni l'accesso al talamo nuziale, terrorizzata dalla eventualità di dover rivivere, con una nuova gravidanza, il martirio privato delle doglie.
Al neonato venne imposto il nome di Maurilio Cesare, marchesino Dell'Isola del Gallo.
Lo svezzamento si rivelò lungo e difficile perché il bambino, anche dopo l'avvenuta dentizione, si ostinava a nutrirsi solo ed esclusivamente del latte che succhiava, con instancabile voracità, dal seno della nutrice.
Alle sue esigenze alimentari provvedevano più balie, che si alternavano nell' allattamento.
Il piccolo si aggrappava alle mammelle e cominciava il suo famelico pasto silenzioso, che le sfiniva, prosciugandole.
E quando spuntarono i primi denti iniziò a mordere i capezzoli, succhiando con le vitamine del latte anche quelle del sangue.
Le mercenarie dell'allattamento malvolentieri si attaccavano al petto quella piccola sanguisuga, ma sopportavano in silenzio la sua bocca da squalo, facendo attenzione a non lamentarsene perché il marchese pagava bene.
Mai nessuna di loro, però, elargì all'infante il gesto spontaneo di una carezza.
In età scolastica, quando Maurilio Cesare venne affidato alle cure della governante che già accudiva la sorella primogenita, Isabella, era un bambino stentato e taciturno, con le stimmate future dell'emarginato.
Isabella, maggiore di quattro anni, aveva occhi e capelli color del miele, un firmamento di efelidi sparse su una carnagione d'albicocca, ossa larghe e solide, ed un promettente carattere da futura marchesa.
Maurilio Cesare conservava le sembianze immature di uno sparuto elfo albino, dalla pelle trasparente e le ossa minute, e quegli straordinari occhi del colore dell'acqua.
Arcangela, così si chiamava la governante, era un donnone emancipato, con le mani di falegname e l'anima di colomba.
Quando le venne affidata quella creatura trasparente e silenziosa, dallo sguardo ermetico, la sua intelligenza intuitiva penetrò in quella solitudine esistenziale predisponendola all'empatia, ben decisa ad ignorare l'aura scura che dalla nascita lo accompagnava, mentre il suo cuore sensibile si preparava a rimediare ad una mostruosa ingiustizia affettiva.
Riconobbe nello sguardo enigmatico di Maurilio Cesare i sintomi dell'anemia e della solitudine.
Il marchesino soffriva di carenza di proteine e di vitamine, dal momento che si nutriva esclusivamente di latte, rifiutando ogni altro alimento.
Ed era affetto da una cronica mancanza d'amore.
Nulla a cui non si potesse, seppur tardivamente, rimediare.
Partendo da questa certezza, Arcangela, cercò di spronare i due fratelli ad approfondire la loro reciprocità da cui, poi, sarebbe scaturito il naturale affetto dei consanguinei.
E lei, con convincimento, si calò nel ruolo di madre putativa, distribuendo equamente il suo amore tra i due bambini, ma riservandone il sopravanzo per Maurilio Cesare.
Con infaticabile dedizione si applicava alla sperimentazione alimentare per inventare, per lui, manicaretti al sapore di latte con celati all'interno estratti di carne e di verdure, atti a stimolare il suo sviluppo fisico, ristabilire un colorito epidermico più sano ed alimentare una sua più ottimistica predisposizione nei confronti del mondo.
Ma, da quando Maurilio Cesare aveva fatto il suo ingresso nella cucina di Arcangela, acquistando tempra e colore, Isabella aveva smarrito, invece, la sua indole indomita, il suo delizioso cipiglio di futura marchesa, mostrandosi languida e timorosa, perennemente attaccata alle gonne della governante, e sempre bisognosa della sua mano.
Questo comportamento anomalo non aveva troppo preoccupato Arcangela, imputandolo all'egoismo naturale insito nella bambina abituata da sempre ad avere tutto per sé.
Era sicura che quella sua improvvisa timidezza null'altro fosse che un espediente egocentrico per attirare la sua attenzione, riprendersi la scena e ritornare unica protagonista.
Era soddisfatta, invece, di quelle sue zuppe proteiche, al sapore di latte e di amore, che avevano colorito di tenue rosa l'incarnato del suo protetto, e reso più nitido il colore di fondale marino dei suoi occhi.
Di notte lo faceva dormire nel suo letto, avvolgendolo nel calore protettivo del suo grande corpo, per rimuovere il ricordo del freddo della nascita.
E del ripudio materno.
Non era riuscita però a scalfire la sua ostinazione al silenzio.
Ma a questo, Arcangela, era sicura di poter pervenire col tempo, con la pazienza e con l'amore.
Anche il marchese si era congratulato con lei per i sorprendenti risultati ottenuti.
Posso far di meglio, pensava Arcangela, concentrandosi sul miglioramento vitaminico delle sue zuppe al latte e mostrando, deliberatamente, di non avvedersi dei silenzi ostili d'Isabella.
Che non si attaccava più alle sue gonne, umiliata di sentirsi alla stessa stregua del pesante mazzo di chiavi che la governante portava appeso alla cintura, mentre di fretta, e di buon mattino, percorreva il mercato alla ricerca delle primizie con cui confezionare quei disgustosi intrugli al sapore di latte, e che per corroborare le teorie di Arcangela basate sull'empatia, era costretta a condividere con quel fratello che lei sentiva estraneo ed indecifrabile, e per il quale non riusciva a provare nessun affetto.
Da quando lui era arrivato tutto intorno a lei sapeva di latte.
L'odore sovrano di Maurilio Cesare aveva contaminato ogni cosa.
Non era ancora giorno quando Isabella, spettinata e a piedi nudi, entrò nella cucina silenziosa, frugò brevemente alla ricerca dell' affilato coltellino col quale Arcangela sbucciava le sue primizie e si acquattò, in attesa, nell'angolo più recondito, battendo i denti per il freddo ma ben decisa a porre termine a quella che le era sembrata, fin dall'inizio, una storia assurda.

lunedì 25 agosto 2014

Un'impresa davvero ardua



...e quando avrò posto la parola fine alla biografia di Rebecca, giuro che smetterò di scrivere altre storie!
Il mio contributo alla letteratura si ridurrà solo alla trascrizione psicografica dei miei pensieri più reconditi, al racconto dettagliato delle mie paranoie e a quello più ermetico dei miei desideri, finalmente sollevata dalle responsabilità delle incognite dei destini fittizi dei miei personaggi di carta; affrancata dall'ossessione nevrotica della necessità della parvenza del simil vero; liberata dalla estenuante ricerca di un mio stile personale e dai conseguenti, quanto svantaggiosi paragoni, tra me e gli scrittori veri.

Ho riletto i primi capitoli di questa mia opera ancora incompiuta: quanta differenza tra quelli scritti ieri e quelli più recenti!
 L'entusiasmo iniziale, col passare del tempo e il troppo lento progredire del racconto, è tramutato in una sorta di stancante ossessione, di compito da portare a tutti i costi a termine, cosicché porre la parola fine a questa storia è diventata la missione della mia vita.

Creatura sfavillante, Rebecca, "femmina, senza ombra di dubbio" (come affermò la levatrice al momento della sua nascita)  ora rischia di rimanere, per colpa di questa mia subentrata disabilità intellettiva, prigioniera di quello scontato destino casalingo a cui soggiacciono le donne della sua epoca, agli albori della rivoluzione industriale.
"Femmina, senza ombra di dubbio" e "senza pentimento", aggiungo io, che in lei vivido ferve il germe della ribellione e del rifiuto alle norme societarie che relegano le donne ai ruoli prestabiliti di mogli e di madri, e che da lì a qualche decennio, si concretizzerà nel pensiero femminista.
Seppur, nell'adolescente Rebecca, questo germe in nuce non è ancora conformato a ideologia ma, piuttosto, necessità di giustizia.

Così, in questo momento, lei è laddove io l'ho collocata, fissata in un dagherrotipo color seppia, che la mostra seduta ad una tavola sobriamente imbandita, vestita del suo abito più semplice e col sorriso più sincero, in attesa di capire se Giandomenico Messinese, il giovane ed introverso maestro ebanista, designato dal volere paterno quale futuro marito, lo debba considerare solo un avversario da cui guardarsi oppure un  inedito alleato.

...e di alleati, in questo frangente, avrei bisogno anch'io, che da troppo tempo, ormai, verso in un improduttivo impasse vegetativo, dove la mia disabilità intellettiva mi spinge, inutilmente, a tentare d'afferrare le parole, diventate d'impeto sfuggenti, con lo stesso retino con cui la madre demente di Rebecca cerca di acciuffare le comete.
Un'impresa davvero ardua.

venerdì 15 agosto 2014

Arabesco (l'ossessione della scrittrice per la sua "incompiuta")

Ho ripreso a scrivere, dopo tanto tempo, la storia di "Rebecca".
Le prime righe sono state facili, poi di nuovo, è subentrato lo stand-by.
Da mesi la vado inseguendo con la lucida logica del giorno e gli incubi colpevoli della notte, e con i sensi di colpa di una cattiva madre che non ha saputo vigilare sulla propria innocente creatura, ed ora invano si dispera di averla, con la sua deplorevole inanità, inconsciamente voluta annichilire.
Devo assolutamente ritrovarla prima che la sua immagine trasmuti nel riflesso sbiadito di un'ombra vagante tra i ghirigori arabescati della carta da parati di questa stanza, in quello che si prefigura il triste destino finale di tutte le "incompiute".

 Ma è ciò che invece è proprio accaduto quando, al culmine delle mie sterili doglianze, posando distrattamente lo sguardo sulla parete, ho captato il riflesso rosso dei suoi capelli e la luce nera delle sue iridi: solo un'istantanea, fugace e confusa, e l'attimo dopo era già sparita, inghiottita dal fitto intrico del disegno di un fogliame vintage.
Invano ho cercato di ritrovarla esplorando più volte, in verticale ed in orizzontale, e con l'ausilio di una potente lente d'ingrandimento, le pareti della stanza, vagando tra le sinuose volute e i viluppi floreali, come una mosca tenace, ma assolutamente impotente.
Il mio scarso senso dell'orientamento del tutto spiazzato dalla ripetitività ossessiva dell'arabesco.
Come essere all'interno di un labirinto, dove gli elementi dei sentieri, tracciati con precisione millimetrica, sono esattamente identici gli uni agli altri.
Si perde l'orientamento.
E la ragione.

Tali e tanti altri rischi si corrono a voler inseguire le ombre mimetizzate sulle pareti.
Miraggi che si dissolvono nell'oscurità più fitta così come nel chiarore più intenso, che la luce inganna allo stesso modo del buio.

Per liberare Rebecca dalla trappola dell'arabesco ho iniziato a cancellare, con solventi ed intrugli chimici, gli immaginifici ghirigori e le sontuose impalcature floreali, piallare linee e demolire vettori, al fine di rendere visibile lo sfondo per poterla finalmente intercettare.
Ostinata, continuo a cancellare le sinuose geometrie dell'arabesco sulla carta da parati che somiglia, sempre più, ad una bizzarra mappa geografica dove le espugnazioni nette hanno prodotto aree concave come pianure innevate; l'uso improvvido dei solventi ha delineato marcate slabbrature rossicce, simili a crateri di vulcano; di contro, invece, il solvente troppo diluito ha  trattenuto le impronte dei miei polpastrelli, che hanno generato il tenue contorno di laghetti.

Quella che va delineandosi tra le mie mani è la mappa psicografica di un mondo parallello.

E mentre cerco d'intercettare nella trama, minuta e fittissima dell'arabesco, tracce della presenza di Rebecca, m'interrogo se anche io sono, al pari di lei, una creatura metafisica, mimetizzata nel disegno della carta da parati, sulla parete opposta.
Un'ombra che prende vita solo se ne viene rilevata la presenza.

martedì 5 agosto 2014

Agnese seduce il Re. E la vendetta della Regina


                                                              
Accade anche alle donne più timide di rimanere intrappolate in amori adulteri, che la passione non tiene conto delle vere nuziali né dei contratti stabiliti per l'eternità.
E così è accaduto anche ad Agnese, timida e riservatissima Dama di Camera della Regina, di soccombere alla passione irreversibile per un uomo assolutamente proibito.
Intoccabile: il Re.
Agnese, la damina diafana che sembra possedere, per via di quella sua timidezza congenita, il dono dell'invisibilità.
Che in silenzio si materializza nel bianco delle sue vesti.
Che in silenzio scompare, senza lasciare traccia di quel bianco.
Agnese che arrossisce, parla poco, e le cui dita gentili sfiorano il mondo con l'inconsistenza di un respiro.
Ed in virtù di queste doti, la Regina, fra le tante ha scelto lei come Dama di Camera, per affidarle il privilegio della cerimonia mattutina della vestizione, e per il delicato compito di fare e disfare il viluppo impervio delle trecce e dei posticci, sui quali innalzare la regale corona.
La timida Agnese si materializza quando serve per dissolversi quando più non è necessaria la sua presenza.
Questo immensamente piace alla Regina, personalità altera e suscettibile che poco tollera le altre donne, soprattutto se più giovani ed avvenenti.
Ed in quella sua dama non ha riscontrato la minaccia né di un corpo, né di un'anima.
E' solo un fruscio di veste.
Ed un sussurro di dita.
Forse neppure saprebbe individuarla fra le tante che fanno ala al suo passaggio.
Ma Agnese non figura mai nella coreografia degli inchini.
Avvalendosi del dono dell'invisibilità sguscia via, inosservata, per rifugiarsi a leggere poesie e a fantasticare sul volo peregrino delle farfalle, nella solitudine del labirinto botanico, meraviglia e delirio dei giardini reali in cui nessuno, avventatamente, osa avventurarsi.
E' leggenda quel labirinto.
Inestricabile. E demoniaco.
Una trappola a cielo aperto.
Si racconta che il tracciato vero lo conosca solo la Regina, e che è mefistofelico inganno visivo quello che si prospetta dall'esterno al visitatore che, per sventura addentrandosi nei suoi fitti meandri, rimane inesorabilmente intrappolato nel demenziale dedalo di un percorso che conduce verso il nulla.
Ma Agnese non ne ha paura.
Non l'attraggono le incognite esplorative ma la quiete che li vi trova.
Percorrendo sempre lo stesso breve itinerario, senza addentrarsi troppo nell'ignoto del labirinto, ha fissato punti di riferimento in particolari che, seppur minimi, l'aiutano nell'orientamento: una foglia sporgente, un intreccio di rami, un arboscello puntuto, un leggero diradamento nel reticolo fogliare.
E proprio attraverso quella sottile smagliatura, un pomeriggio autunnale, ha scorto il Re che solitario passeggia, senza scorta di armigeri né compagnia di gentiluomini.
Così, Agnese, può constatare che Sua Maestà ha gli occhi mansueti di un cucciolo, le mani sensibili di un artista e la barba ribelle di un poeta.
Appare perfino meno alto senza la corona che, certificando il potere, accresce anche la statura.
E tra le mani, invece dello scettro, reca un libro.
Questo la colpisce enormemente.
Lo vede, per la prima volta, nella sua veste privata e non in quella consueta ed ufficiale, dove però è sempre secondario alla preponderanza, caratteriale e scenica, della Regina.
D'impulso vorrebbe mostrarsi.
Chiedergli cosa stia leggendo.
Una conversazione tra lettori, non di certo quella sconveniente tra il Re ed una Dama della Regina.
E' trattenuta, però, da quella sua endemica timidezza che la costringe a ritrarsi, come d'abitudine, nell'ombra..
Ma il tenue chiarore della sua presenza, filtrato attraverso il respiro delle foglie, ha attratto l'attenzione del Re che, con voce gentile, le chiede di mostrarsi.
Lei obbedisce e s'inchina al suo cospetto quando, nel rialzarsi, un soffio di vento le scioglie i capelli, e in quell'imbarazzo le cade il libro di mano.
Il Re lo raccoglie e porgendoglielo con un sorriso le mostra il suo.
E' lo stesso libro, l'identica storia, che entrambi stanno leggendo.
«Non vi ho mai vista.» Dice lui, colpito.
«Non sono una che si nota.» Risponde lei, arrossendo.
E' questo il primo di innumerevoli incontri.
Il Re l'attende, tutti i pomeriggi, nella stanza di foglie, sotto il soffitto mutevole del cielo, alla mercé degli elementi meteorologici e delle schermaglie della luce e del buio.
Leggono e commentano versi di poesia, assaporando quella sintonia perfetta che scaturisce dalla intensa condivisione di una stessa passione.
E la passione per la poesia tramuta presto in passione dell'anima.
E dei sensi.
Seppur combattuta e rinnegata, è un'attrazione irresistibile quella che vanno provando.
Le dita si sfiorano, cercandosi, nello sfogliare le pagine.
La voce frammenta in sussurro quando l'irruenza amorosa del poeta esplode nei versi.
Un pallido riflesso se paragonato allo sconvolgimento interno che li va sopraffacendo.
E quel giorno Agnese, dopo aver recitato il toccante brano su un amore proibito, soccombe alla visibilità di una lacrima che prontamente le dita sensibili del Re raccolgono.
La seconda, l'asciuga con le labbra.
La terza, l'assapora con un bacio.
Si ritrovano così a sfogliare i loro ardenti desideri, e non più solo le pagine complici di un libro, che avrebbero ora arricchito con i capitoli inediti delle audaci sperimentazioni del loro amore.
Ed Agnese fiorisce tra le braccia del Re, nel tumulto progressivo del piacere sessuale, dapprima timidamente, come un bocciolo tremulo che presto tramuta in un lussurioso fiore carnivoro.
Insaziabile, si lascia trascinare nell'estasi sessuale concedendosi senza quel ritegno che si conviene ad una vergine inesperta, ma come una lussuriosa Eva il suo ventre partorisce orgasmi che assorbono tutto il vigore del Re.
Lasciandolo stordito.
Esterrefatto. Beato.
Più quella passione progredisce più Agnese acquista splendore.
E visibilità.
Ed è una scia luminosa quella che ora preannuncia il suo passaggio.
Vestita di scarlatto, di azzurro o di viola.
Non arrossisce più, pur mantenendo inalterata la riservatezza innata delle parole indispensabili.
E la Regina, sugli indizi di quei cambiamenti, inizia ad accorgersi di lei.
Delle sue assenze.
E di quelle del Re.
E delle voci cortigiane che tempestive zittiscono al suo passaggio.
Decide, la Regina, di far luce sulla tresca di cui a corte si va mormorando, incaricando il Capitano della Guardia Reale, veterano fedelissimo e discreto che, seppur non possedendo come Agnese il dono dell'invisibilità, ha affinato sui campi di battaglia un talento mimetico che si è rivelato provvidenziale nelle situazioni più estreme, di appurare quanto di vero ci sia in quei mormorii, e dove conducono le passeggiate del Re e quelle della sua Dama di Camera.
Di missioni difficili è esperto il Capitano, ma questa si rivela la più penosa.
Vorrebbe dire di no alla Regina.
Che la sua onorabilità di soldato rifiuta questo meschino incarico di pedinamento.
Ma a lei ha giurato fedeltà ed obbedienza.
Non può tradire la sacralità di questo voto.
Si predispone, quindi, il leale Capitano ad assolvere all'incarico con tutta la discrezione che l'evento impone, e non gli ci vuole molto per appurare che le passeggiate del Re e della dama della Regina hanno una meta comune: il labirinto botanico.
Dove si officia un amore adultero.
Spudorato e sublime.
Una poesia sperimentale, di orgasmi multipli e complesse geometrie di corpi.
Il Capitano è turbato, e commosso, dalla sacralità e dalla dissolutezza di quell'enfasi celebrativa.
La versione in prosa di una poesia trascendentale.
Ma pur dovrà riferire alla Regina quello che ha visto.
E quello che nelle viscere del labirinto si va consumando ha un solo nome: tradimento.
Il buon Capitano cerca le parole più opportune, meno crude, per fare il suo resoconto alla Regina.
Ma ben sa che non ne esistono.
«E' tutto vero, Maestà.» Non gli riesce di dire altro.
E' una donna altera, e con una luce buia negli occhi, quella che con un gesto lo congeda.
"Ma è pur sempre una donna tradita" pensa il Capitano che nella sua esperienza di veterano ha potuto appurare che, nella vita e nelle guerre, la ragione non è mai solo da un'unica parte.
Così, Agnese, non trova più il Re ad attenderla nella cinta protettiva del labirinto, mentre a palazzo si sparge la notizia di un male, repentino e mortale, che lo ha colpito.
Ma la Regina pur continua ad avvalersi dei servigi della sua dama.
Del tocco etereo delle sue dita.
E godere di quei suoi occhi disperati.
Di quello splendore che offusca in patimento.
Del tormento di quell' anima estirpata.
Delle domande mute, perché proibite.
Del dubbio, che col tempo tramuterà in certezza, che non è stato il male ad uccidere il Re ma il suo amore.
Tormentata dai sensi di colpa che la perseguiteranno per tutta la vita, mentre, invece, la Regina continuerà ad avvalersi dei servigi della sua Dama di Camera.
Che nessun'altra ha un tocco di dita leggero come il suo.

domenica 3 agosto 2014

Ventitre giorni per tentare di ritrovarmi

Il mio ultimo scritto è datato 11 Luglio 2014, giorno del mio cinquantottesimo compleanno, e rileggendolo rilevo, in quelle frasi sgranate come chicchi di rosario, una mia precisa e consapevole volontà di lascito morale e letterario.

Ventitre giorni d'assenza: mai così a lungo avevo latitato dalle pagine del mio blog
Ventitre giorni di totale e volontario distacco per cercare di riposarmi dal pesante fardello delle parole scritte.
Ventire giorni per tentare di ritrovarmi.
Non ci sono riuscita.

Un periodo passivo e colmo di rassegnazione ma, soprattutto, improntato all'accettazione di un destino ormai incontrovertibile e, di conseguenza, la definitiva presa di coscienza della futilità di voler sublimare, attraverso le parole scritte, un'esistenza che non ha, in realtà, nessun'altra motivazione se non quella della mera sopravvivenza, priva di qualsiasi effetto collaterale.

Così, in questo presente, rifuggo gli specchi e il crudo chiarore della luce, per acquattarmi nella più confortevole penombra dove, però, non sono mai davvero sola, poichè nel pulviscolo rado dei raggi filtrati ed opacizzati s'aggirano, come falchi predatori, gli spettri queruli dei morti e quelli baldanzosi dei personaggi in cerca d'autore, coalizzati ad accrescere il frastuono nella mia  testa ed amplificare il silenzio del mio cuore.
Marilena

venerdì 11 luglio 2014

Sono nata da una pagina bianca

Una volta scrivere, per me, era vitale e liberatorio. Esaltante.
Una sorta di compensazione alla banalità del quotidiano.
Una cosa in cui credevo e a cui per tanto tempo mi sono aggrappata.
Una grazia, meglio, un indulto: attraverso la pratica della scrittura mi veniva condonato il reato di non aver saputo vivere.
Ho scritto con frenesia, nel tempo in cui le parole erano difficili ma non aliene; con rabbia e con passione; con misurata dolcezza, più che altro per pudore, per non incappare nel banale sentimentalismo letterario col quale, di sicuro, avrei guadagnato facili consensi a scapito della più cruda determinazione all'analisi introspettiva; con ironia, costringendo, en plair air, il mio ego, ossessionato e sbilenco, all'adeguamento di un suo, seppur fragile, baricentro.
E con amore, sempre, anche quando usavo le parole più violente, distruttive. Autolesionistiche.
Attraverso la scrittura ho esplorato quel mondo remoto, ed interiore, nel quale mi sono avventurata da naufraga, per sfuggire all'emarginazione e alla disperazione dei fallimenti e delle mie crisi esistenziali, a bordo di un guscio di noce che all'origine fu culla e poi traballante zattera.
Perchè sono nata da una pagina bianca.
Con la scrittura ho dotato la mia ombra di una voce e di un corpo, rendendola così visibile al mio stesso sguardo prima ancora che a quello del mondo, materializzandomi tramite le parole, e poi con la voce della strega, che quelle parole le ha urlate rendendomi evidente nella mia consistenza fisica, volume e peso e stato di bisogno.
Ma non c'è nulla di più inconcludente che iniziare a vivere nel momento stesso in cui si muore, quando gli altri, ormai rassegnati, sono già predisposti a raccogliere il tuo ultimo respiro e tu, invece, li destabilizzi declamando, con voce forte e chiara, l'elenco assurdo delle tue necessità, cosicché in questo inaspettato inganno ci si ravvede una perfidia piuttosto che una resurrezione.
La vendetta di chi sta per morire e ancora la vuol tirare a lungo a scapito dei vivi, costringendoli a una sosta forzata presso quel tuo capezzale, impegnandoli nel loro tempo e nelle loro energie, nella misericordiosa, quanto inutile opera dell'ultima assistenza.
Quei vivi che al cospetto di un morente pur si credono eterni, e di sottecchi controllano impazienti l'orologio per calcolare il tempo speso nell'attesa di quell'ultimo respiro, consapevoli che la quotidianità li reclama, richiamandoli al disbrigo di più urgenti impegni.
Ha il cuore forte!
Finchè il cuore batte...
Il cuore non vuole arrendersi, seppur è evidente che ogni battito gli costa una fatica immane.
Questo è ciò che vanno sussurrando i vivi, sperando che tutto termini in breve tempo: un'agonia veloce equivale ad una più veloce ripresa della loro vita, al ripristino di una normalità fatta di attese, speranze e desideri. E delusioni.
Ma il mio cuore è forte e continua ostinato a battere, a non volersi arrendere, anche se ogni battito mi costa una fatica immane, pur continuo ad esistere in questo vuoto esistenziale, nella mia consistenza fisica, volume e peso e stato di bisogno.
E la scrittura si pone come necessità primaria assolvendo il compito di mantenermi in vita attraverso il racconto di me stessa, perché sono nata da una pagina bianca e tale tornerò ad essere quando avrò definitivamente perso memoria delle parole.
Marilena
Images by August Bradley

giovedì 26 giugno 2014

Il mio battito d'ali




 "Il minimo battito d'ali di una farfalla è in grado di provocare un uragano dall'altra parte del mondo"

 Il mio battito d'ali
Il mio battito d'ali non ha mai avuto la forza di generar cicloni, piuttosto, in questo cielo falsamente etereo, ho cozzato in volo contro nubi erte come muri.
Nata sprovvista del senso dell'orientamento, e di quello della memoria visiva, più che liberamente decidere il percorso, mi lascio pigramente trasportare dai venti uggiosi e dalle correnti ascensionali, in balia dei riverberi e dei miraggi e dei placidi orizzonti illusori, che pur celano, al loro interno, le insidie silenziose delle eclissi.
Più facile accodarmi, allora, agli stormi pellegrini in transito verso mete ignote e condividerne, sia pure per un breve tratto, il percorso e il destino.
Il mio passaggio sarà così testimoniato.
Marilena

sabato 14 giugno 2014

Il cielo non è per tutti


Il cielo non è per tutti: non per i codardi che piroettano agganciati ad una corda, e neppure per i visionari, assuefatti alle proprie allucinazioni. Non per gli scrittori, che di cieli, in virtù del proprio estro, ne dispongono una gamma infinita. Il cielo non appartiene neppure agli angeli, creature illusorie e disidratate, e tanto meno agli eroi, troppo corporei, che a stento librano come zavorra di mongolfiera destinata, per prender quota, ad esser scaraventata a terra. Il cielo, paradossalmente, appartiene a chi ha i piedi ben saldi sulla terra ed è ragionevolmente cosciente della provocazione di quell'orizzonte fittizio che si palesa alba, in una regione, e tramonto in un'altra.

mercoledì 11 giugno 2014

Smarrita la strada dell'antro

Smarrita la strada dell'antro.
Intontita dal caldo e dai ritmi frenetici della mia vita, sono allo sbando più totale.
Stanca, stanca, stanca.
Succhio energie dal mio io più profondo per trovare la forza sufficiente di affrontare la giornata.
Passo dall'esaltazione effimera alla depressione più cupa nel giro di un attimo.
Mi trovo spesso a pensare di farla finita.
Architetto piani di suicidio indolore.
Il pensiero di sprofondare nel nulla m'incute, al contempo, pace e spavento.
Pace, perchè non esistere equivale a non sentire più la fatica del corpo e il peso dell'anima.
Spavento, per via del vuoto, del silenzio e del buio: i tre elementi che, immagino, governino il nulla. 

Tutti questi anni sprecati in questa finzione.
Tutti questi anni di fatica aggiuntiva.
Tutti questi anni di non vita.
E coltivare, attraverso la scrittura, l'illusione di averne una.
Di esistere.

Mi sono rigenerata nelle parole, come in una partenogenesi.
Ho aspirato ossigeno dalle frasi, voracemente, come da una placenta.
Per avere l'illusione di un progetto.
Di una speranza.
Una giustificazione a questa mia ostinata permanenza.

Ma davvero non c'è nulla, in questa mia vita, che valga tutta questa immane fatica.
Tutta questa pazienza.
Tutto questo lavorio di formica.

Sono assolutamente cosciente delle cose che sto in questo momento scrivendo.
Così come sono certa che, se non le scrivessi, di certo imploderei.

Le parole mi hanno, da sempre, salvata.
Devo molto a loro.
Di sicuro, il bonus, di questi ultimi sette anni.

Oggi, però, mi sento davvero persa.
Marilena

sabato 24 maggio 2014

Racconta la mia storia


Rendimi protagonista di una storia che valga la pena di tutti i suoi probabili patimenti.

UN ATTO D'AMORE COMPENSATIVO

Racconta la mia storia, m'ha sussurrato Rebecca, infilandosi nel letto accanto a me.
Mi ha abbracciato, la sua guancia contro la mia, tremava, nonostante la nottata fosse tiepida.
Per la prima volta l'ho percepita davvero giovane ed indifesa: un'adolescente in lotta contro un mondo adulto, truffaldino ed ingiusto.
L'ho stretta forte tra le mie braccia, con gratitudine per quel suo spontaneo ritorno.
Siamo rimaste così, in silenzio per un pò, respirando all'unisono nel buio, condividendo la gioia di quel nostro ritrovarci, nonostante i dubbi e i fallimenti, la mia esasperante lentezza nell'istruirla alla consapevolezza e la sua smania adolescenziale di esser da subito entità completa e definita.
La mia paura, innazitutto, di vederla crescere troppo in fretta, con quelle sue ossa che entusiasticamente si vanno allungando e i seni arrotondando: una donna in miniatura.
La mia piccola regina rossa, in armi contro un mondo maschile e diseguale, scesa in campo a vendicar giustizia, scombinar le carte e ribaltare i giochi.
Ma io, madre tremebonda, ho dapprima agognato per lei avventure da filibustiere, e poi, pentita, l'ho esiliata in una casa di bambole.
Per proteggerla l'ho nascosta al mondo.
Ma lei, spirito indomito, non ha voluto sentir ragioni e, dopo aver atteso invano che io
volontariamente spalancassi la porta di quella, seppur confortevole prigione, nottetempo ha scavalcato la finestra del dodicesimo piano e, con coraggio da funambola, appesa ad un lazo da rodeo, s'é calata nel vuoto, inseguendo quel suo destino, preordinato o casuale, che giustificasse la sua venuta al mondo, e lo sfarzo entusiasta di aggettivi, verbi ed avverbi, di cui io ho abbondamente, per diciannove capitoli, fatto uso, per risarcirla dell'affanno della sua nascita e controbilanciare l'indifferenza con cui questa venne, dal suo entourage famigliare, accolta.
 Racconta la mia storia, sussurra Rebecca, la sua mano nella mia mano, ancora fiduciosa in me nonostante la mia deplorevole incoerenza, ma contando sulla mia ritrovata consapevolezza a non procrastinare ulteriormente gli eventi e completare questa sua biografia, a cui ho dato un inizio ma non una fine.
Terminare questo racconto è un atto d'amore compensativo nei suoi confronti.


RACCONTA LA MIA STORIA

Rebecca era nata in un mondo limitato, vuoto e silenzioso che lei, al momento della sua nascita, aveva provveduto a colmare con abbondanza di capelli e vigorosi vagiti.Era fuoriuscita dalla vagina esausta della madre, avvolta nel bozzolo rosso della sua chioma contestando, a pieni polmoni, la sorpresa per quella inaspettata, quanto fraudolenta, estirpazione uterina.
La levatrice, con fatica, aveva convinto la madre ad attaccarsela al seno per metter fine a quel trambusto neonatale, poiche la puerpera, dopo i patimenti del parto era preda della tentazione del ripudio, consapevole che anche quest'ultima figlia  avrebbe subito, al pari delle altre quattro che l'avevano preceduta, la fredda accoglienza paterna...

martedì 20 maggio 2014

Ritratto in nero

Insomma, ultimamente ho ritirato fuori tutte le mie cianfrusaglie antidepressive.
I miei feticci.
Per combattere le mie segrete distimie.
Il mio pallore anemico e le nere palandrane.
I funerei crespi del mio malessere.
La frangia e gli occhiali scuri, perennemente incollati sugli occhi.
Le labbra rosse, sono l'unica nota di colore.
Che risultano così nitide, eccessive, nel biancore della mia immagine.
Mi aggiro come un fantasma teatrale, annunciata dal tintinnio dei miei monili.
E dal profumo amaro del mio malessere.
Una presenza discreta. Incolore.
Sono le mie mani, callose e sciupate, a ricordarmi che appartengo ancora a questa vita.
Sono le mani di una donna terrena queste che distendono le pieghe del vestito.
Spazzolano i capelli.
Pennellano di rosso le labbra.
Queste mani che dovrei rivestire di una pelle nuova.
E di nuovi desideri.
Ma ho smesso di desiderare da tanto tempo.
E di sognare.
Così anche le mie ali si stanno incancrenendo, private dello slancio del volo, sono sempre più strettamente pressate sulle mie spalle, come some che curvano la schiena.
Ali appiccicose. Pesanti.
Zavorra. Sotto la quale rischio, continuamente, di rimanere schiacciata.
Se non fosse per queste mie mani, callose e sciupate, con le quali mi sfioro e sfioro il mondo, cercando di afferrare la vita, potrei ben convincermi di non essere davvero io la donna terrena, vestita di nero e con le labbra di fiamma, che scrive le pagine di questo diario, ma la protagonista di una storia raccontata per immagini su una pagina di romanzo.

sabato 17 maggio 2014

Lastra radiologica

Niente è più esaustivo di una lastra radiologica.
Qui viene rivelato l'inganno delle ossa e le bizzarre astruserie delle articolazioni.
Gli snodi esasperati delle giunture e l'inasprimento incoerente delle curvature della colonna.
Delle vertebre che, arroganti, gravano su un tronco sbilenco.
La possente schiena di Atlante si piega, infine, sotto il peso eccessivo del mondo.
E, per non rimanerne schiacciato, il poderoso Titano partorisce una gibbosità dorsale.
Una cifosi acuta. Per gestire la forza gravitazionale. E mantenere l'equilibrio.
Una gobba leopardiana.
Poetica. Esistenzialista.
L'ermeneutica del corpo interno.
Tradotta in lastra radiologica.
Per sondare gli enigmi della cervicale.
Scandagliare l'amnesia perniciosa delle ossa.
Esplorare l'afasia squilibrata delle articolazioni.

La lastra radiologica delle mie mani.
Entrambi i mignoli (quello destro in modo più evidente), all'altezza della terza falange, sono incurvati da un principio di artrite deformante.
Imperfezione appena visibile, ma che pur c'è.
Sono le dita di una Morgana amnesica che ha perso il dono della preveggenza.
E della memoria mitologica.
E di quella progressiva.
Costretta a vagare cerebralmente cieca nei meandri del suo io scheletrico.
Alla ricerca d'improbabili polle divinatorie.
Guidata solo dai random nodosi di quelle sue dita artritiche.

giovedì 8 maggio 2014

Un finale meraviglioso

Inscenava per lui, lo scrittore, piccole provocazioni.
Da principio strategie apparentemente  innocenti, poi, man mano che s'imponeva alla sua attenzione, sempre più teatrali.

Passeggiava, durante le ore della siesta, sotto il suo balcone, vestita di rosso (era il colore che lui preferiva) e con la pesante treccia dei capelli tracimante, dall'argine delle forcine, come un burrascoso fiume ramato: rosso su rosso.
Femmina sfrontata, la cui presenza suscitava la curiosità gelosa delle donne e quella golosa degli uomini.
Passava e ripassava sotto quel suo balcone, sostandoci, perfino strimpellando una chitarrina a mo di serenata.
Questo corteggiamento strampalato aveva reso lo scrittore celebre in tutta la contrada, e poi in tutta la regione e ancora oltre i confini.
Lui, però, per non cedere a quelle lusinghe da sirena, nemmeno s'avvicinava ai vetri e neppure spiava dalla serranda socchiusa, che gli bastava chiudere gli occhi per vederla: un petalo rosso nella calura ardente del pomeriggio.
Così la immaginava.
Così lei era.

Pure capitava che lo svegliasse nel cuore della notte, lanciando sassolini alle imposte chiuse del balcone, mormorando il suo nome: un richiamo che nessun'altro sentiva ma che a lui giungeva nitido, inequivocabile nel suo significato.
Nella strada buia gli si offriva sollevando la veste scarlatta.
Sarebbe bastato aprire il portone e scendere i tre gradini. O lei salirli.

Travolgente.
 Lui l'immaginava travolgente.
Un vento rosso.
Una fiammella.
Qualcosa che non si può fermare, ma solo per un breve attimo trattenere.
Per questo rimandava il momento della sua resa.
Conscio che una volta avuta l'avrebbe poi persa.

Così, pur ritraendosi, gioiva di tanta perseveranza.
Esaltato da quella sua innocente impudicizia.
Lui la vedeva innocente.
E bella.
La donna più bella del mondo.
Ma anche la più folle.
Ostinata, sotto quel suo balcone, sia che ci fosse il sole o la luna.
Anche nei giorni di pioggia.
Incurante, a dar spettacolo d'amore all'intera contrada, con quelle sue serenate.
E i richiami notturni dei sassolini.

Lei lo aveva reso leggenda.
Gli uomini lo invidiavano.
Le donne lo sublimavano.
 Tutti, però, aspettavano che qualcosa tra loro accadesse.
Un inizio o una fine, a motivar tanta tenacia, da una parte a provocare e dall'altra a resistere.

E in attesa della capitolazione di uno dei due, s'erano intanto aperte le scommesse.
 Un portento quella rossa, che pur avrebbe meritato un tipo più virile del timido scrittore.
Una donna magnifica, per gli uomini.
Una sgualdrina, per le donne.
Bravo lui, a non darle speranza.

L'epilogo avvenne in una notte caldissima e senza luna.
Lo scrittore, contravvenendo alla regola, non s'era quella volta barricato perché stentava, in quell'aria immota, anche a respirare.
Finestre spalancate sulla strada buia e sull'ombra porpora che la pattugliava, mormorando incessante le sillabe del suo nome.
Una nenia ipnotica, un incantesimo a cui lui, finalmente, quella notte s'arrese.
Tre scalini a scendere.
Tre scalini a salire.
E già lei gli si offriva.
Sfrontata.
E bellissima.

Trascorsero la notte in un amplesso senza fine.

L'alba, foriera di pioggia, portò ristoro all'arsura meteorologica e a quella dei sensi.
Lei, finalmente acquietata, come Ofelia s'era addormentata nel fiume rosso dei suoi capelli, mentre lui giaceva insonne, preda del presentimento dell'abbandono imminente.
Una donna così non la trattieni.
Non è appannaggio di un solo uomo.
Né di un solo amore.
Queste le previsioni pessimistiche dello scrittore.

L'idea di trattenerla prigioniera del suo amore, all'interno di una camera blindata, con la certezza che lei lo avrebbe poi odiato, lo ripugnava
Ma altrettanto insopportabile sarebbe stato il dolore di vederla andar via.
Valutò, allora, l'ipotesi di morire assieme.
La lama affondata nei loro cuori sarebbe stata la freccia di Cupido che li avrebbe uniti per l'eternità.
Una morte romantica, con le finestre spalancate sull'irrompere della bufera d'acqua che li avrebbe, in ultimo, trascinati via, avvolti nello stesso lenzuolo.
Un epilogo meraviglioso a consolidare quella loro leggenda, sui quali anche i critici, da sempre severi coi suoi finali che a loro parere ammazzavano la storia, avrebbero finalmente concordato.

giovedì 1 maggio 2014

Un gioco nuovo


- Sei così giovane - Mi ripeteva carezzandomi con le dita ombrate di colore.
Mi piacevano quelle sue dita, lunghe e nervose, sfumate di azzurro, di porpora e di grigio.
Dita di apostolo in un uomo così carnale.
- Ma anche così vecchia. Una sacerdotessa di Avalon. Erano le sacerdotesse a scegliere gli uomini, sai? Mi avresti scelto? Nella folla prostrata ai tuoi piedi, mi avresti indicato? Avremmo fatto l'amore nei boschi, sotto la luna piena, consci degli occhi spalancati a spiarci nel buio. Occhi come luci ad illuminare un immenso palcoscenico per la mia bellissima strega. Non ci sarebbe stata profanazione, perché saresti stata tu a scegliere me -
E le sue dita percorrevano immaginari sentieri di bosco, danzando nell'aria come farfalle nude, pronte a farsi divorare dalla bocca ingannatrice di un fiore carnivoro.
Dita da ipnotizzatore.
Mi ritrovavo nuda fra quelle sue dita, con la sorpresa di un calore nuovo e sconosciuto nel ventre. E mi rotolavo cercando sollievo a quel piccolo fuoco che lui alimentava con la sapienza delle sue mani. Si eccitava della mia eccitazione, ma sfidava se stesso a non cedere alla tentazione.
- Non ancora. Non così presto. Non oggi - Ripetevano le sue labbra aride.
I capelli spioventi sugli occhi bendati e quelle sue dita che brancolavano cieche su di me, nella stanza scura.
- Voglio impararti a memoria e, per fare questo, occorre il buio completo. Voglio avere le capacità di un cieco per possederti completamente -
Ma io avevo imposto la penombra perché ho paura del buio assoluto.
- Odio il buio, l'odore della mia paura ti renderebbe tutto estremamente facile ed il tuo gioco non avrebbe più senso -
Trovando valida questa mia considerazione aveva ceduto di buon grado all'infiltrazione di un po di luce. Avevo capito che quello era per lui un gioco nuovo e che le regole le andava, di volta in volta, stabilendo.
Ma quello che mai avrebbe immaginato era che io quel gioco lo conoscevo fin dall'infanzia: vivere nel silenzio e nell'oscurità interiore per riuscire a captare l'esterno attraverso l'esasperazione estrema dei sensi.
Se avessi voluto avrei potuto facilmente violarlo.

venerdì 25 aprile 2014

Un piccolo "non luogo" privato, ove si può spadroneggiare

 INQUIETUDINI
 Mi sono presa una pausa dal Blog.
Ho esplorato Face Book.
Mi sono iscritta a un gruppo.
Alla ricerca di nuovi interessi.
Non ne ho trovati.
In compenso stanno scomparendo anche i vecchi.
Non riesco più a scrivere.
Dilaga il mio pessimismo esistenziale a cui, però, non voglio ancora del tutto arrendermi.
Marilena
  (Diario - Inquietudini 17/02/2014)


Prova a fare una pausa, vedrai che ti verrà la nostalgia di questo piccolo 'non luogo' privato, ove si può spadroneggiare.
Cristiana
(18 febbraio 2014 12:47)

UN PICCOLO "NON LUOGO" PRIVATO, OVE SI  PUO' SPADRONEGGIARE
Immensamente mi piacque questa definizione di cosa è un blog, appunto quel "non luogo" privato, ove si può spadroneggiare.
Sovrani assoluti, talvolta perfino despoti, che il permesso concesso per accedervi è a nostra esclusiva discrezione, così  come liberamente decidiamo dei nostri scritti non subordinati a nessun altro giudizio se non al nostro.
Ovviamente anche in Blogosphere vige un'etica comportamentale, giusta e sacrosanta, seppur  troppo spesso ignorata, (a tal proposito molto scrissi nel passato) ma qui entriamo nel campo della morale   perché una legislazione in materia non esiste, che sarebbe paradossale in un mondo basato sul principio della "libera circolazione delle idee" (abiurando, quindi, la protezione dei copyright a favore del Creative Commons, in nome della condivisione, e del riuso, delle proprie e altrui opere)

 Questo piccolo " non luogo" privato, ove si può spadroneggiare, per alcuni è quel libro che mai sarà pubblicato; confessionale, per altri; brogliaccio di bordo, per viaggiatori all'approdo; lista delle virtù, e delle negligenze, per chi difetta di memoria; ponderosa biografia; pamphlet d'amore, o di rivalsa, per tutti i tipi d'innamorati; je accuse, per gli arrabbiati e gli irriducibili.
E ancora tanto, altro e diverso, per ogni tipo di esigenza, di emozione e d'incanto.

Ed io immensamente amo questo "non luogo" privato, che a mio piacimento percorro in tutta la sua inesplorata vastità, estasiata dalle sue albe vacillanti e dai suoi tramonti squilibrati, da me stessa evocati: un mondo a mia immagine e somiglianza, ma così tanto silenzioso da sembrar deserto.
Così m'è parso, ad un certo punto, di stare a scrivere parole nella sabbia, effimere, che un alito leggerissimo di vento potrebbe all'improvviso cancellare e che nessun altro, oltre me, se ne accorgerebbe.

Un eremo  silenzioso e solitario, questo piccolo "non luogo"privato, dove solo il devoto, o il turista per caso, ne varcano la soglia, accolti dalla solennità dei soffitti, dalle screpolature dei muri e  dall'odore di muschio che permea gli altari, e s'insinua nelle narici con la sua nota selvatica e pungente.
Bisogna per prima cosa abituarsi a quell'odore e solo dopo ci si potrà predisporre, nel modo giusto, all'ammirazione della santità dell'eremita che, solitario per libera scelta, vigila in quel desolato contesto a guardia degli ossari sotterranei e delle reliquie di poco conto, date in concessione dalle chiese maggiori per motivare, di un qualche pretesto, i pellegrini ad intraprendere il viaggio.

lunedì 21 aprile 2014

Un difficile sdoppiamento




Saggio, non svelarsi mai completamente, neppure a se stessi
(Amaranta)

 
Saggio non svelarsi mai completamente neppure a sé stessi: spontaneamente lasciare irrisolto un interrogativo; consapevolmente non sciogliere l'ingarbugliamento di un nodo; scientemente illuminare una zona d'ombra.
Questa salvifica misconoscenza impedirebbe, all'introspettivo penitente di apprestarsi al confessionale con l'intento specifico di dichiarare i peccati del passato e del presente, e con anticipo quelli non ancora commessi, che pur avendo il presentimento di poterli nel futuro perpetrare, non sono stati ancora compiuti.
Per quel che mi riguarda, una confessione preventiva dei reati commessi, e di quelli in pectore, e la smania di espiarli per un senso di giustizia e non per l'assoluzione.
La confessione non impedisce la reiterazione: un circolo vizioso.
Con l'aggravante della consapevolezza a trasformare, il tutto, in un girone infernale.
E non c'è nessuno, più entusiasta del peccatore pentito, che si appresta a confessarli e poi ad espiarli.
Il saio e il cilicio e, sullo sfondo, un rogo ammonitore.
Nella duplice veste di giudice e d'imputato, i verdetti paiono mai abbastanza duri perché permane il dubbio della concessione, ad personam, di una qualche attenuante.

Se la pena inflitta è l'ergastolo  l'unico modo per evadere, sia pur solo mentalmente, è la spettacolarizzazione di se stessi.
Più circoscritto è il perimetro calpestabile più ci si eleva in altezza, con fasto hollywoodiano e abbondanza di effetti speciali.
E l'auspicio di un pubblico vero che faccia la fila al botteghino a decretare il tutto esaurito.
Ed eccoti al centro del palco, rutilante di luce, sicura del copione e della parte che stai rappresentando in quella sceneggiatura che hai scritto in virtù della completa, ed intima, conoscenza di te stessa.
Non ci sono puntini sospensivi, è tutto definito: en plein air.
 Nessun luogo è così luminoso come quella tua cella, simile al microscopico pertugio di un topo, dal cui interno occhieggia, però, con l'occhio unico di un ciclope a circoscrivere il mondo.
Non c'è bisogno di una garitta per dominare i territori conquistati, lo si può fare anche da un pozzo sotterraneo, basta che ci sia lo spazio necessario per manovrare i fili.

Lo scrittore, all'inizio della storia, è incuriosito e affascinato dalla diretta conoscenza dei suoi personaggi, appassionato alle probabilità della trama di cui ne scandaglia ogni possibile risorsa, ma afflitto, prima ancora di giungere all'ultimo capitolo, d'aver preventivamente svelato a se stesso, tutte le incognite.
Per lo scrittore, quindi, non esistono segreti.
Nessuna sorpresa, nessun colpo di scena, nessun batticuore: tutto svelato, organizzato, predisposto all'altrui meraviglia.
Alla ricerca dello stupore smetterà, allora, le vesti dello scrittore per indossare quelle del lettore.
Un difficile cambio di ruolo, al quale dovrebbe predisporsi preventivamente resettato dalla sua essenza di addetto ai lavori, così da non rilevare, con spirito troppo critico, le correzioni, le contraddizioni, gli aggiustamenti, i prevedibili colpi di scena, quelli programmati e quelli di supporto...insomma, quei medesimi artifici a lui noti e da lui stesso attuati.
Predisporsi con l'entusiasmo, spontaneo e benevolo del lettore che, all'oscuro di questi sottili inganni, (sulla pagina vede solo le parole e non le impalcature che le sostengono) pienamente gode della storia nella sua interezza.
Un difficile sdoppiamento
Marilena

sabato 19 aprile 2014

Mia madre era dark

Penso spesso a mia madre
L'immagine di lei, davanti allo specchio: l'incarnato chiaro, la bocca rossa, un cerchietto nei capelli scuri, ed un vestito estivo dalla stravagante fantasia.
Bella ed inaccessibile.
Una eroina di Poe, tragicamente predestinata ad esser sepolta viva.
Un destino poi avverato.

Amava il buio e la penombra.
Parlava della sua morte, imminente e prematura.
Minaccia di suicidio.
Un giorno avrebbe aperto la finestra e spiccato il volo verso il suolo.
A noi, però, aveva vietato d'avvicinarci a finestre e balconi: aveva il terrore di una disgrazia.
Sono vissuta, da bambina, nell'ossessione di questa sua morte preannunciata.
Non stornava gli occhi dalle scene cruente: il sangue non la spaventava, piuttosto sembrava provarne fatale attrazione.
Le sue fiabe...ad incutere spavento per prevenire la nostra bambinesca spavalderia.
Amavo quei momenti di narrazione condivisi nel letto grande, con  la luce fioca dell'abatjour che illuminava ombre invisibili sulle pareti e, oltre la soglia, il rettangolo buio del corridoio.
Il mondo era in quella stanza e nei toni impazienti della sua voce, quando a causa delle nostre intemperanze, interrompeva il racconto minacciando di non terminarlo.
A volte la minaccia s'avverava.
Aspettavo, con ansia e sollievo, i momenti tragici della storia: non sempre c'era il lieto fine perché lei, a sua discrezione, liberamente l'interpretava.
Mai in nessun altro luogo, come in quella stanza, nel letto condiviso con lei e la nidiata dei miei fratelli, mi sono sentita così al sicuro.
Le ombre invisibili, che vigilavano sulle pareti, avrebbero impedito ai fantasmi fluttuanti nel corridoio buio di oltrepassare la soglia.
Perché mia madre, fata e strega, conosceva la formula magica per impedirne l'accesso.
E la formula era segretata nelle parole del racconto.

Mia madre era bella.
Poi l'alzheimer l'ha erosa un pezzettino per volta.
L'ha spolpata, come un boccone prelibato.
Si è cibato di lei.
Perché non fuggisse l'ha seppellita viva nel catafalco del suo corpo, per poterne disporre a suo piacimento.
Un catafalco senza finestre da cui spiccare il volo, sia pure verso il suolo.
L'avrei spinta io, nel vuoto, pur di liberarla dal mostro che la stava vivisezionando.

Un racconto in bianco/rosso/nero, quello della sua vita.
Protagonista di una favola dark.
Perché mia madre era dark.
Le sue ossessioni, così come le sue attrazioni, le sue contraddizioni e le sue enfasi, la sua malinconia congenita come il suo, a volte, troppo irruento protagonismo, sono tutte riconducibili alla poetica dark.
Tragica eroina di un racconto di Allan Poe.
Realistica interprete di un film di Tim Burton.

 Perfettamente la ricordo composta nella bara: i capelli, nonostante gli anni e la malattia, ancora quasi tutti  scuri, le palpebre incollate e la bocca...troppo sottile ed allungata, non era la sua.
Lei aveva belle labbra.
Quella bocca non le apparteneva
Non era lei nella bara.
Purché tutto si concludesse in fretta ho finto che lo fosse.

Oggi sono riuscita, dopo nove mesi dalla sua morte (nove mesi: il tempo di una gestazione) a ricomporla in quella bara nel modo giusto: l'incarnato chiaro, la bocca rossa, un cerchietto nei capelli scuri, e un abito estivo dalla stravagante fantasia.
Su questo fermo immagine l'ho adagiata nel suo letto matrimoniale, le ho posto uno specchio tra le mani, ho acceso l'abatjour e la luce fioca ha resuscitato le ombre invisibili, vigilanti sulle pareti della sua camera, ad impedire ai fantasmi fluttuanti nel corridoio buio di oltrepassare la soglia.

Mia madre ora riposa dove nessun mostro potrà ridestarla con un bacio ingannevole, trascinarla nella sua tana buia e farne scempio.
Bella ed inaccessibile.
 Inviolabile.
Finalmente al sicuro.

Marilena


sabato 12 aprile 2014

Interno giorno

I miei nuovi ritmi esistenziali mi allontanano sempre più dalla realtà dell'antro.
Ogni volta che tento di oltrepassarne la soglia, s'alza un vento forte e contrario che mi risucchia nel suo ingarbugliato vortice, per catapultarmi, senza troppi complimenti, sul pianeta Terra.
Solo il tempo di gettare, attraverso l'esterno dei vetri, una rapida occhiata, per  intravedere la sagoma scheletrica di Iggy appollaiato, come un pappagallo rissoso, sulla spalla di Amaranta, improvvisata governante di una dimora che, altrimenti, cadrebbe in balia dell'anarchia più assoluta.
Ora è lei che ha preso le redini del comando e, come si dice  in gergo, dirige la baracca.
Probabilmente pensa che io sia ancora in viaggio, seppur ben conosce la mia difficoltà ad avventurarmi da sola, fosse pure in una strada adiacente e mai percorsa.
Così, dai vetri capto la fugace visione della mia alter ego che s'aggira per le stanze dell'antro con un cigarillo tra le labbra e con Iggy abbarbicato alla sua spalla, esibito come un trofeo, e felice di esserlo.
L'amore ci rende arrendevoli e gentili.
La ferocia di Iggy, il minuscolo killer affetto da D.O.C, sedata dal profumo insidioso della treccia di Amaranta a cui, teneramente, rimane aggrappato con le tozze dita, a tracciare, nell'intrico dei capelli, caste carezze.

Non necessito di vedere per sapere, che ben conosco i protagonisti, così dal mio momentaneo esilio coatto, nitidamente immagino le successive sequenze: Amaranta spalanca le finestre, Iggy, traumatizzato dall'irrompere improvviso della luce, pur non cede la sua postazione, stoicamente resiste a quella tortura, abbagliato dal sacrificio dell'amore e dalla poesia della sua eterrnità.
Durerà poco questo idilio mattutino, come tutti gli altri di cui sono stata testimone oculare, che la mia alter ego, presa da altre impellenze, vorrà presto alleggerirsi di quel minuscolo fardello che pur le grava sulla spalla, nonostante gli sforzi di Iggy per rendersi incorporeo.
Dapprima ricorrerà all'arte della persuasione, che non sortirà alcun effetto, per diventare, poi,  irriducibilmente decisa.
Allora lui, preda della sindrome dell'abbandono, scalcerà e si ribellerà, ricorrendo in ultimo al fallimentare ricatto dell'autolesione.
Amaranta non se ne lascerà intimorire e, pragmaticamente, lo lascerà sfogare nel suo bugicattolo dove lui, di lì a poco, privo di energie, cadrà in un sonno ristoratore e consolatorio, in cui continuerà a sognare di lei.
Scene già viste.
Scene che vorrei continuare a vedere.

Amaranta spalanca le finestre e la luce inonda le stanze di flebile tepore primaverile.
Dal sottotetto dell'antro, una rondinella abusiva, spicca il volo verso un cielo da cartolina.
Lo stesso cielo di Roma, lontano migliaia di miliardi di parsec.

domenica 6 aprile 2014

Approdi

In questi miei luoghi, da un qualche tempo, c'è aria di abbandono, da quando gli orologi del pianeta, da un dato momento, hanno iniziato a girar le lancette all'impazzata, e il tempo s'è messo a rincorrermi, (e non viceversa, che io volentieri avrei ancora indugiato, fino alla fine dei miei giorni, nel rassicurante tepore della mia collaudata, seppur noiosa, routine esistenziale.
Poi è sbucato questo vento, spavaldo ed irruento che, insinuandosi attraverso fessure e crepe, (che l'antro, da quando lo abito, non ha mai beneficiato d'una sostanziale, quanto necessaria, opera di restauro) scaruffa  i miei capelli e le mie sottane, nel maremoto delle coltri i tendaggi si gonfiano come imponenti vele e l'esile zattera del letto s'invola, direttamente dalla finestra spalancata, verso l'esterno, traslucido e silenzioso, del primo mattino.

Letteralmente è un attraversar lo specchio per ritrovarmi in una dimensione anomala e, di primo acchitto, ostile, con  questo vento che non smette di soffiarmi alle spalle, direzionandomi verso una rotta che potrei pur percorrere ad occhi chiusi, naufraga sonnambula in equilibrio sulle onde.

E, giunta al primo approdo, inizio a dipanare le ore della giornata, che si srotolano, indipendenti dalla mia volontà, preventivamente subordinate ad azioni ampiamente collaudate che non contemplano variazioni di rilievo: una routine ossessiva destinata a ripetersi all'approdo successivo.

 E, tra uno scalo e l'altro, c'è un vuoto di quattro ore da dover trascorrere, in qualche modo, per la strada, che non sempre è possibile rientrare all'antro per sostarvi una striminzita ora e dover poi, subito, ripartire di nuovo, percorrendo a ritroso il medesimo tragitto, ma con più stanchezza addosso.

Così, quando è bel tempo, volentieri sosto su una panchinetta all'interno di un pretenzioso giardinetto prospiciente il mio secondo approdo, dove consumo il mio pasto ed osservo le persone che s'alternano sulle panchine.
Donne, zingari, e qualche studente che ha bigiato la scuola: questi i frequentatori abituali. 

Osservo, da dietro gli occhiali scuri, questo avvicendarsi, cadenzato e quieto, che quando s'alza uno subito si siede un'altro, cosicchè le panchine quasi mai rimangono vuote. E si chiede gentilmente permesso per sedersi alla stessa, mantenendo, quando è possibile, libero un piccolo spazio, non per demarcare una linea di confine ma, piuttosto, un atto di rispetto.

Le donne tendono a sedersi vicino alle altre donne o, se le panchine sono occupate, sulla staccionata, in attesa che si liberi un posto, nel frattempo sciorinando in grembo il contenuto della propria borsa: un panino, una bottiglia d'acqua, un cellulare, un libro.
 Oggetti, e gesti comuni, che raccontano però storie diverse.
A volte ci si scambia un sorriso, una parola, una cortesia: ma tutto rigorosamente circoscritto nel perimetro del giardinetto.
Perchè è al suo interno che si consuma la storia comune che, una volta varcata la cancellata, le strade divergono, smarrendosi verso imponderabili destini.



 Vorrei scusarmi, tramite questo post, di non aver più commentato, se non sporadicamente, i blog che fino a qualche tempo fa,  con interesse sincero, seguivo.
Ciò è dovuto a impegni nuovi di lavoro e alla conseguente, cronica, mancanza di tempo.
Marilena