Dedico questo blog a mia madre, meravigliosa farfalla dalle ali scure e dal cuore buio, totalmente priva del senso del volo e dell'orientamento e, per questo, paurosa del cielo aperto. Nevrotica. Elusiva. Inafferrabile.

venerdì 29 luglio 2011

Insomnia

Era ancora buio quando sono approdata al mio antro, in quella particolare ora quando la notte s'appresta diventare alba, con  i confini degli orizzonti ancora sfumati, imprescindibili e confusi, come in una visione, cosicchè il cielo ed il mare appaiono sullo stesso piano, e la tridimensionalità è una ipotesi ancora a venire, ed il mondo lo si capta attraverso i pori della pelle e l'esiguità della vista, ancora appannata dai retaggi del sonno.
O, come nel mio caso, dell'insonnia, che mi fa deambulare in stato perenne di sonnambulismo, acrobata spensierata, ed incosciente, mentre avanzo con i tacchi a spillo sul bordo slabbrato di un cornicione.
Nell'ora transitoria in cui l'umanità ancora dorme affannata cercando di disintossicarsi, il più possibile, dalle scorie virulente del giorno trascorso, e di quelle del giorno futuro.
Nel paesaggio color del piombo, estraneo alla stagione, le ciglia appesantite dall'insonnia perniciosa, gli abiti sgualciti e la valigia malchiusa, ho bussato alla porta dell'antro strategicamente mimetizzato nelle asperità del paesaggio ed ancora avvolto nel buio metafisico della prima alba.
Ho dovuto bussare con insistenza e poi, con disperazione, prima che Amaranta, strappata al suo sonno, venisse ad aprirmi con uno scontroso, chi è?
Non chiedermi nulla, per favore, le ho detto, voglio solo dormire.

Jeff Charbonneau & Eliza French

martedì 26 luglio 2011

Trappole

L'Imperatrice Camilla è furente, all'ultimo secondo, però, ha deviato la traiettoria della sua grande mano battendo la palma sullo schienale del divano, anziché sulla mia faccia,
Poi, con la stessa mano mi ha porto, solidale, il pacchettino dei kleenex.
Solo allora ho notato l'anello da gangster sul suo anulare.
Un anello grande, di forma rettangolare, con incastonata una pietra dura, color rubino che, abbattendosi sul mio viso, avrebbe prodotto un qualche danno.
Lei ha intercettato il mio sguardo ed intuito i miei pensieri, nascondendo di riflesso la mano dietro la schiena.
Poi ha scorto, in un angolo, la valigia mal chiusa da cui fuoriesce un lembo di gonna e il rettangolo di una cintura
- Stai partendo? - Mi chiede
- Devi chiuderla meglio -  M'indica la valigia
Poi, per un pò stiamo in silenzio.
E' il primo confronto davvero duro che avviene tra noi: Camilla, sempre  così misurata e principesca, è rimasta, lei per prima, sbalordita dall' istintività di quel gesto che non le appartiene, perchè tutto ciò che è istintivo la spaventa, al contrario di Amaranta che, dell'istinto, invece, ha fatto il suo punto di forza.
Caratteri profondamente diversi: adoro Amaranta perché non somiglia neppure lontanamente all'Imperatrice Camilla e, adoro quest'ultima, perché è così diversa da Amaranta.
Diverse ed assolutamente non complementari.
Io sono il punto di raccordo.
Sono la voce che racconta all'una dell'altra e, seppur all'apparenza, a nessuna delle due sembra importare di sapere, sò che non è così.
Mi manca Amaranta.
Tutte le cose più belle, più intense, le ho scritte con lei, all'ombra spiovente dei suoi capelli, rilette nel riflesso dei suoi occhi smeraldini, avvolta nel profumo seduttivo del suo scialle.

- Vado via per un pò - Spiego all'Imperatrice, rimasta tutto il tempo in silenzio a fissare l'anello vescovile sulla sua mano
- Scusami, Mari, per l'intenzione dello schiaffo, tu sai che io... nemmeno con le mie figlie, ma non so cosa mi abbia preso. Soprattutto, quasi mai indosso anelli, fanno sembrare ancora più grandi le mie mani, e stamani, invece...avrei potuto farti seriamente male -  Mi guarda pentita.
- Quello non è un anello, Camilla, è un'arma modello Bulgari -

Ridiamo, di nuovo complici.
- E' che mi sono arrabbiata per il modo in cui ti stai facendo trattare.Vieni via da Blogosphere, non c'è nulla di vero, qui non esiste né amicizia né lealtà. Cosa ci stai a fare in questa parodia di mondo? -
- Non lo so - Le rispondo dopo un attimo di riflessione
- Vai da lei? -
- Sì, mi manca terribilmente l'antro e tutto il caravanserraglio dei mostriciattoli, come li chiami tu. Starò via un  pò, devo ritrovare il mio equilibrio ed un pò di pace. I mondi aperti sono impegnativi e, ultimamente, anche infidi. Trappole, da cui bisogna guardarsi per non rimanerne impastoiati -
L'Imperatrice mi abbraccia, avvolgendomi nel suo profumo leggermente maschile e poi sfila l'anello vescovile, e me lo offre.
- Voglio che lo tenga tu e, a proposito di trappole, ti mostro una cosa -
Sotto la pressione leggerissima del suo dito la pietra di rubino si solleva, mostrando l'interno vuoto del castone.
- Potrai riempirlo con del veleno o, secondo il caso, con una polvere afrodisiaca o allucinatoria, o serbarci qualche stilla di sangue, quello del tuo ultimo amante, ad esempio, o quello di una rivale -
Suggerisce, porgendomi l'anello, col suo sorriso più enigmatico.

domenica 24 luglio 2011

Fantasmi

L'anima è collocata in quella zona vaga, sita tra la testa e gli intestini, parimenti soggetta ai desideri, ai moti e alle intenzioni, e a tutte quelle che sono le esigenze materiali del corpo.
Così la sensazione del freddo determina la necessità del caldo, l'insonnia quella del riposo, l'inquietudine quella della pace, e via di questo passo.
Anche nei travagli più grandi, nei tormenti più dolorosi, è sempre il corpo, con le sue esigenze imperative ad acuire, o temperare, gli stati dell'anima.
Le sofferenze spirituali molto risentono di quelle fisiche, a loro volta soggette all'età e alla salute.
Normale, quindi, che un organismo giovane senta forte, e più o meno subitanea, l'urgenza di una reazione, come quando dopo una convalescenza forzata si avverte il bisogno impellente dell'aria, della folla, della vita.
Un corpo meno giovane, invece, è forse più propenso ad adagiarsi nel proprio torpore, prolungando, a volte inconsapevolmente, altre, invece, in piena lucidità, la propria convalescenza.
Si langue in un coma che non sempre è rigenerativo, anzi, sovente, sortisce l'effetto contrario, che è quello dell'abbandono, della disperazione, del lutto.
Ovviamente questo non è un principio incontrovertibile ma piuttosto una mia considerazione personale, circoscritta nell'ambito delle mie cognizioni esistenziali
L'anima, soprattutto, nella sua area particolare collocata nella testa, è fragilissima, vulnerabile così tanto che nessun elmo, nessuna protezione, può adempiere alla perfezione al suo compito di preservazione.
Persino i pensieri possono far male, e lenirli nel loro sovraccarico, non sempre è possibile.
Le distrazioni, poi, sono impensabili.
Quasi indecenti.
Rifiutate a priori, quasi ad assolvere un adeguamento morale, seppur possono sortire l'effetto di una buona medicina.
Ma spesso si rifiuta la cura per sentirsi addosso tutto il peso del proprio male, quasi che nella sofferenza si possa trovare un riscatto esistenziale a partire dalle proprie colpe, vere o presunte.
Capita così di crogiolarci nel malessere, come avvolti in una coperta calda che, beneficiandoci del suo tepore, altrimenti c'impedisce di fuoriuscire dalla protezione della nostra cuccia.
Il mondo esterno è freddo e rumoroso, incompatibile con quella nostra anima che altro non esige che logorasi in quel calduccio solitario, in compagnia forzata di qualche fantasma masnadiero.
Eppur bisogna reagire se si vuol avere qualche speranza di guarigione imparando a convivere, se non si riesce ad esorcizzare, col nostro fantasma beduino, senza averne paura, senza maledire la sua presenza ma traendone, di contro, il beneficio di una compagnia coatta, malinconica, e forse solamente temporanea.
Che il tempo mitiga le tristezze, i fallimenti e le delusioni.
Il tempo è la benda miracolosa che preserva la fragilità della testa e, di conseguenza, di quella parte dell'anima che qui risiede.
Non bisogna aver paura dei fantasmi lazzaroni ma imparare a sorridere delle loro stregonerie, di quel loro apparire e sparire, senza un tempo preciso né una modalità coerente.
Accettarli così come si presentano alla nostra memoria, a volte cupi e altre scherzosi, sullo sfondo di un sole o di una tempesta, calati in luttuosi sudari o risorti in candidi lini.
Alla fine, essere umani con i propri fantasmi significa essere umani con se stessi.
Marilena


domenica 17 luglio 2011

Una storia d'amore

 Questo racconto è dedicato a mia sorella Elisena, poetessa istintiva e particolarissima
Con tutto il mio affetto

Mariù e Menico procedevano affiancati nella controra, lui col suo passo lungo, cavallerescamente misurato su quello di lei, per non distanziarla di troppo.
Menico (Domenico) e Mariù (Mariuccia) Iodice, i coniugi della masseria da basso, quelli che avevano i soldi ma non i figli, e questo per colpa di lei, insinuavano le malelingue, così minima e provvisoria, visibile solo per l'abbondanza della chioma, fitta e chiarissima, colore della stoppa, ma i fianchi stretti e la passerina chissà quanto minuta, da far tribolare un uomo ad entrarci ed un neonato ad uscirci.
Tanta ricchezza e neppure un erede, che Menico, già figlio unico, faticava da solo a portare il peso di quel cognome che constava di migliaia di ettari di terreno agricolo ed un allevamento bovino, assai ben avviato.
Tant'è che è risaputo, come spesso capita, che chi ha il pane non ha denti, e senza nessuna ragione spiegabile alla logica, Menico s'era intestardito a voler in moglie questa maestrina dall'aspetto provvisorio, incolore ed inodore, mettendosi contro la famiglia intera che per lui, bello e ricco, avrebbe preteso una sposa diversa, se non più bella, o benestante, almeno con le qualità di una fattrice.
E si che di pretendenti ce n'erano a voler ricoprire quel ruolo, fornite oltre che di maggiore bellezza anche di cospicua dote.
Ma lui s'era intestardito al punto che con nessun ragionamento fu possibile smuoverlo dal suo proposito.
O sposo Mariù, col vostro consenso, o me la sposo comunque, senza la vostra approvazione, e ce ne andiamo a vivere in una città estera. Aveva detto al padre.
E quest'ultima minaccia era stata, alla fine, risolutiva.
Quella che aveva determinato il consenso alle nozze.

Mariù, di professione maestra, più volte aveva provato lei stessa a convincere Menico di non mettersi contro la famiglia, di cui capiva benissimo le motivazioni e, seppur le facevano male, intuiva che non originassero da una repulsa preconcetta nei suoi confronti ma, piuttosto, dall'ostinazione protettiva, seppur prevaricante, della preoccupazione della tutela del nome e dell'accrescimento dei beni, che la ricchezza esige che s'accompagni ad altra ricchezza, mentre lei, oltre al suo stipendio di statale non possedeva null'altro.
Naturale che la famiglia di lui aspirasse ad una sposa con un curriculum più sostanzioso.
Ma a questi ragionamenti, Menico, appassionatamente s'opponeva, e ribadiva quella sua libertà di scelta che teneva conto del cuore e di niente altro.
Anzi, quando lei con tono misurato e dolce, si predisponeva a tali discorsi, lui le chiudeva la bocca con un bacio e le sussurrava tra i folti capelli albini, te o nessun'altra.
E questo impediva il prosieguo del discorso, perchè  Mariù, commossa ed innamorata, sentiva venir meno la determinazione a dissuaderlo dall'ostinazione per quel loro amore.
Il suo sentimento sincero soffriva dell'umiliazione dell'ingiustizia preordinata dal ceto e dal conto in banca, ma nonostante questo pur si prodigava per evitare quella rottura minacciata di Menico con la famiglia, sebbene lei stessa non avrebbe saputo immaginare la vita senza di lui.

Il giorno delle nozze Mariù somigliava più ad una comunicanda che ad una sposa, che nell'abito bianco sembrava sperdersi, e pure del velo avrebbe potuto farne a meno, con quei capelli chiarissimi sparsi sulle spalle, a farle da manto.
In virtù della legge dei contrasti, invece, Menico, alto il doppio e bruno come un arabo, sembrava ancor più imponente e scuro.
Matrimonio benedetto dall'amore, ma senza figli.
E si che all'inizio, Mariù, non riusciva a rassegnarsi, tanto forte era il desiderio di dargliene uno, ma non per quelle cose misere, quali il nome e la discendenza, ma perchè sarebbe stato il suo dono più grande, il risultato di quelle loro notti appassionate dove lei gli si concedeva come in una festa, nella glorificazione dei sensi e del sentimento. Notti di sesso e di confidenze.
Come quando dopo aver fatto l'amore, Menico, con la testa poggiata sul seno di lei, spesso le chiedeva un racconto, una storia vera o di fantasia, per continuare a vibrare, prima del sonno, ancora di piacere sessuale nel sottofondo di quella voce morbida, che esplorava per lui il buio con la lanternina magica della fantasia.
E neppure una volta lei lo deluse.
Raccontami una storia, Mariù.
Mariù si fermava brevemente a frugare nel baule inesauribile della sua fantasia e tornava con la trama di una novella inedita, o i versi di una poesia, che anche poteva essere traccia per una canzone o per una ninna nanna.
Più spesso recava il dono prezioso di una storia d'amore, che era poi la loro stessa.

Cosa ci trovi in quella femmina che le altre non hanno? Gli aveva chiesto un giorno, esasperato, suo padre
Mi piace la sua voce e sa raccontar le storie. In particolare una: la nostra. Gli aveva risposto Menico.

mercoledì 13 luglio 2011

Un giorno nuovo

E' un giorno nuovo, questo, in cui riprendo a scrivere, dopo tanto tempo, il mio diario.
Se non fosse sorto questo giorno  nuovo, forse, non avrei più trovato il coraggio di scrivere di me, che poi  lo scrivere della mia vita è come raccontare una storia, ed è questo il motivo unico per cui si tiene un diario.
Scrivere un diario è fondamentalmente semplice: si narra di un evento, si palesa un pensiero o un dubbio, si racconta uno stato d'animo, ci si analizza, ci si disegna.
Scrivere un diario è solo apparentemente semplice, perchè consiste nel rivelare le nostre verità, i nostri punti di vista, le nostre congetture che, però, così apertamente espresse, possono creare malumori, risentimenti, ricatti psicologic,i da parte del nostro entourage privato, pronto a ricordarci che c'è sempre un limite alla verità.
Più onestamente, aggiungo io, alla versione delle nostra verità.
Ma un diario è scritto proprio per mostrare quelle nostre verità che possono essere discordanti con tutto il coro delle altre verità.  Ed anche nel coro, sono sicura, non troveremo due verità uguali al cento per cento.
Ma in questo giorno nuovo il coro è silenzioso, o meglio, io non l'ascolto.
Che poi, il coro, è composto da quelle voci più determinate, più motivate, ad insinuarsi negli strati più vulnerabili di me stessa.
Ed il leit motiv è sempre lo stesso: fai attenzione a ciò che scrivi, rischi di sputtanarci e di sputtanarti.
Perchè è questo il rischio della verità: lo sputtanamento.
Ma non è principio di nessuna verità lo sputtanamento, piuttosto, un suo effetto collaterale.
I panni sporchi si lavano in famiglia in modo che, verità e menzogne, trattate con lo stesso candeggiante, risultino pressochè indistinguibili.
Questo è uno di quei ferrei principi etici a cui la stragrande maggioranza di noi si attiene: l'onorabilità della famiglia, come quella di un clan, strettamente connessa alla nostra stessa onorabilità c'impedisce di denunciare, perchè chi infrange le regole è un detrattore.
Così, su questa etica mafiosa, spessissimo si basa la nostra coscienza e, quando si tenta d'infrangere questa morale, si viene messi al bando. E, noi stessi, ci sentiamo, poi, in colpa.
La voce del sangue e degli affetti. E dell'onore.

Ma questo è un giorno nuovo e da qui riprendo il filo interrotto del racconto di me stessa.
Lo riprendo da persona libera di gestire in piena autonomia la propria vita ed i propri pensieri, definitivamente affrancata da quell'oppressione psicologica che ha cercato di schiacciarmi, di annullarmi, e a cui io mi sono passivamente assoggettata.
Ma questo è un giorno nuovo, pieno delle mie verità, perchè nato sulla concretezza della mia ritrovata emancipazione.

Il sole innonda di luce il mio terrazzo: la portulaca ha dischiuso i suoi petali alla luce.
Decine di piccole bocche arancioni spalancate ad affermare la loro unica verità.
Marilena

domenica 10 luglio 2011

Requiem per un poeta (capitolo 11)



Le tante verità di un’unica storia

 La verità di Mariana Malavento
I dati con cui il commissario Sangemini si era trovato a fare i conti per risolvere il delitto erano di ben scarsa consistenza.
La mancanza di un indiziato credibile, poi, aveva aumentato il chiasso intorno al caso.
Molti avrebbero desiderato, per antipatia, veder imputata la suocera, quella Mariana Malavento, donna ingombrante e spavalda, che aveva gettato discredito sul genero a cui pur tanto doveva in quanto a benessere e notorietà.
Ma si sa che la riconoscenza, fra tutte le virtù, non è quella più praticata dagli uomini, a maggior ragione da una donna siffatta: bellissima, sguaiata ed irriconoscente, sarebbe stata l'assassina perfetta.
Arrogantemente esponendosi, Mariana Malavento, però, aveva da subito, e senza mascheramenti, esibito la tangibilità del suo odio nei confronti del genero, che il commissario Sangemini non aveva dubitato neppure per un secondo della genuinità di quel sentimento, trattenuto per troppo tempo da una donna come lei pericolosamente istintiva, capace di uccidere, se lo avesse ritenuto opportuno, e di  confessare il delitto come un atto di giustizia, per cui avrebbe anche reclamato, in ultimo, un risarcimento.

La verità di Helga Malavento
Su Helga, invece, mancava una verità specifica, tant'è che il commissario l'aveva esclusa subito dalla rosa degli indiziati, non perché la ritenesse incapace di uccidere (l'esperienza gli aveva insegnato che chiunque, fortemente motivato, può trasformarsi in potenziale assassino), ma perché sposando Jacopo Imperiale aveva infine catturato l'ombra rassicurante di quel padre che la madre gli aveva negato fin dall'infanzia.
Completamente appagata nella sua vita matrimoniale, non aveva alcun motivo per uccidere l'uomo che l'aveva resa, al contempo, moglie e figlia. E consacrata musa.
Alla morte del poeta, sentendosi  nuovamente orfana, aveva fatto ritorno nel suo mondo inaccessibile, consegnandosi, di nuovo passiva, all'inedia e al mutismo.
Era questo il prezzo del suo odio inconfessato nei confronti della madre che, di contro, seppure a modo suo, teneramente amava quella figlia così fragile, a cui non aveva mai imposto i suoi modelli di vita, ma anzi profondamente la rispettava per quella sua austerità esistenziale, la passione per lo studio, e attenta vigilava che quella sua sensibilità pericolosamente esacerbata non tramutasse in patologia.
Guardandole le braccia martoriate dagli aghi delle flebo, lo sguardo claustrofobico e le labbra ostinatamente serate, il commissario Sangemini l'aveva da subito ascritta alla categoria dei probabili suicidi piuttosto che a quella degli assassini in nuce.

La verità di Oliviero Piscopo
L'accurata ricostruzione delle dinamiche della sua rocambolesca, quanto  intempestiva entrata in scena sul luogo del crimine, e la mancanza assoluta di un movente, avevano convinto il commissario Sangemini della totale estraneità di Oliviero Piscopo,  al quale si poteva, alla fine, solo imputare l'omissione di soccorso.

Uno sbandato, questo ex attore, turbolento e pavido, mancante di qualsiasi carisma, mantenuto dalle donne, inebetito dagli  stravizi da nottambulo, era solo una rumorosa comparsa sul set di questo imponente drammone.
Non possedeva, d'altronde, alcun talento interpretativo, neppure per i ruoli secondari, accontentandosi di fugaci comparsate nelle camere da letto di ricche signore annoiate, ma sempre pronto alla fuga ed alla sconfessione.
La storia di Oliviero Piscopo, trascritta nei verbali della polizia era assolutamente vera.
Meno vera, invece, quella raccontata in una sua biografia, pubblicata dalla "Zattera Del Poeta", la casa editrice di Jacopo Imperiale, in cui veniva descritto come una sorta di eroe romantico e decadente, che fece grandemente salire di prezzo le sue prestazioni di letto e lo recuperò alla notorietà dei set cinematografici e televisivi.

La verità della casa editrice “la Zattera Del Poeta”
La casa editrice, paladina dell'eredità intellettuale di Jacopo Imperiale, con un colpo di genio aveva organizzato, tramite un grande battage pubblicitario, la pubblicazione dell'antologia postuma del poeta in concomitanza con quella della biografia dell'attore, suscitando lo sconcerto dei critici, del clero e dei benpensanti che sostenevano, scandalizzati, che era come mischiare, in nome del profitto commerciale, il diavolo e l'acqua santa.
Inaccettabile, per costoro, che Jacopo Imperiale, poeta nazionale di fama mondiale, fosse costretto a dividere il suo ultimo palcoscenico con quell'attoruncolo vizioso, il cui unico talento era stato quello d'inciampare nel suo cadavere.
I più infuriati proposero addirittura il boicottaggio della casa editrice che invece, trovandosi al centro di una simile bagarre pubblicitaria, esaurì nel giro di pochi giorni le copie edite, provvedendo tempestivamente all'avvio di una seconda ristampa per esaudire le migliaia di richieste, anche estere, che continuavano a pervenire incessanti.

La verità dell’anonimo balbuziente
La verità dell'anonimo balbuziente, congetturava il commissario Sangemini, era stata la più onesta di tutte.
Il testimone occulto si era limitato a raccontare la sequenza a cui aveva assistito mentre era in perlustrazione nella sua consueta ronda notturna alla ricerca di coppiette da spiare: un uomo steso a terra, immobile, mentre quello che lo sovrastava gli andava conficcando un coltello nel torace e, nella fretta di concludere il suo lavoro da killer, aveva imbrattato di sangue la sua sciarpa bianca da dandy.
L'anonimo balbuziente non aveva mentito, e neppure voluto volontariamente addossare il delitto ad Oliviero Piscopo: si era semplicemente limitato a raccontare ciò che aveva visto,
   
La verità di Jacopo Imperiale
La verità, Jacopo Imperiale, se l'era portata nel tomba insieme alla visione di un angolo di cielo in cui, per sempre, avrebbe continuato a brillare quell'unica stella passiva che aveva assistito, lontana ed indifferente, al suo assassinio.
L'intera sua esistenza era stata passata al setaccio: la vita noiosa di un intellettuale a cui, però, piacevano molto le donne, senza distinzione d'età, cosicché era lecito pensare che i pochi anni di Helga non erano stati il motivo principale per cui l'aveva sposata.
Seppur quel matrimonio, determinato  forse dall'amore, o solo da un capriccio, strenuamente osteggiato da Mariana Malavento, aspramente criticato dalla casta degli intellettuali così come dall'entourage più intimo del poeta, funzionava, invece, benissimo.

La verità di Guerrino Sangemini
La verità del commissario Guerrino Sangemini era nella consapevolezza che ci sono verità irraggiungibili, e così quella morte, forse, non avrebbe mai avuto un vero colpevole.
Non era gettare la spugna, né rassegnarsi, ma solo filosoficamente prender atto di ciò che l'esperienza gli aveva insegnato, ossia che gli insuccessi (compresi quelli investigativi)  rientrano nella casistica di tutte le categorie, di cui bisogna tener conto senza considerarli fallimenti se, con rigore, si è espletato il proprio compito.
Ma la verità... dov'è la verità?
Sul corpo di un uomo steso sul tavolo dell'obitorio?
Nei reperti imbustati e catalogati negli archivi della polizia?
Nelle cartelle dei verbali degli interrogatori?
In un particolare discordante, una parola stridente, un dito puntato, una smorfia accusatrice?
La risposta è che la verità non sempre è dove l’andiamo cercando.

Ben sapeva, il commissario Sangemini, che la letteratura investigativa è piena di casi irrisolti, proprio come  sarebbe stato questo di Jacopo Imperiale che però, invece di cadere nell'oblio,  avrebbe continuato ad ossessionare nei decenni generazioni di detective, storici, giornalisti, scrittori, legulei e parolai, pronti a cimentarsi alla ricerca della verità.  
Magari ridisegnando le identità dei protagonisti e reimpostando la cronologia degli eventi. 
Trasformandola in leggenda.
Ma non sarebbe stata più la stessa storia.

domenica 3 luglio 2011

Requiem per un poeta (capitolo 10)


Post mortem
E' giusto affermare che nell'ambito delle realtà compiute la morte è la più definita.
Tutto quello che accade dopo non dipende più dalla volontà di chi muore, a cui è impedito il fare o disfare per  impostare ipotesi diverse e riscrivere la propria storia, così come è invece nelle possibilità dei vivi.
E la veridicità di questa affermazione è nella storia di questi due uomini, Jacopo Imperiale ed Oliviero Piscopo, i cui destini mai si sono incrociati e chissà, se ciò fosse avvenuto, neppure forse si sarebbero troppo piaciuti, tanto diversi i loro vissuti, tanto diversi i loro contesti.
Ma è pur vero che Jacopo Imperiale, poeta di fama mondiale, non ha più alcuna possibilità di replica alla leggenda che gli stanno cucendo addosso, e l'onorabilità della sua memoria dipende unicamente dalla magnanimità dei fautori di gossip e di business.
Ad Oliviero Piscopo, invece, son pervenuti molti vantaggi, che superato il momento umanissimo dell'angoscia, quando l'abbiamo visto piangere come un bambino impaurito, ora, invece, saggiamente guidato dall'avvocatessa che ha preso in mano il suo destino, è ben deciso a perseguire quella nuova e inaspettata opportunità, di riscrivere la sua storia.

Non tutti i mali, alla fine, vengono per nuocere.
La detenzione lo aveva disintossicato di tutti gli eccessi di cui fino ad allora si era nutrito, restituendogli un'anima meno malandrina e più consapevole.
Più diligente, sarebbe giusto dire, che l'avvocatessa, diavolo d'una donna, egregiamente adempiva alle funzioni di regista, sceneggiatrice e fautrice di effetti speciali, ma non avrebbe tollerato, dal momento che in gioco c'era il suo prestigio professionale, né svisate personali né battute fuori copione, e su questo era stata perentoria.
Non tutti i mali, alla fine, vengono per nuocere.
Sarebbe questa la morale più ovvia, quella che invia al lieto fine, quella che ci libera dall'ansia di una possibile ingiustizia compiuta ai danni di un innocente, sia pur scapestrato, perché sappiamo, da subito, che non è stato Oliviero Piscopo ad uccidere Jacopo Imperiale, nonostante ci siano diversi e pesanti  elementi a suo carico, come le sue impronte digitali sul manico del coltello, le tracce di saliva, e la sua sciarpa intrisa di sangue.
Ma nessun movente. 

Il commissario Sangemini aveva pazientemente, ma invano, cercato in tutto quel tempo un raccordo, una connessione sia pur remota tra i due.
Ma scandagliando la vita del gigolò aveva trovato solo fallimenti, astuzie maldestre e piccole meschinità, spesso anche inconsapevoli, e questo la diceva lunga sul carattere dell'uomo.
Fosse per lui lo avrebbe già pienamente scagionato, relegandolo dietro il sipario di quel palcoscenico troppo grande per un attore così piccolo.
L'avvocatessa, intanto, attraverso i media aveva iniziato la sua arringa difensiva che consisteva in una apparentemente pacata, quanto ferocemente sarcastica, lista d'obiezioni ed interrogativi, a cui era stato chiamato a rispondere, in primis, il commissario Sangemini che, a onor del vero, non aveva argomentazioni valide da contrapporre alla logica ineccepibile delle sue tesi difensive ma, anzi, pienamente concordava con lei anche se per etica professionale non si sarebbe mai pronunciato in un giudizio personale.

 "La Zattera Del Poeta", la casa editrice di Jacopo Imperiale, navigava in acque opulente e tranquillissime, sospinta dolcemente da un vento di bonaccia, ed era già alla seconda ristampa dell'ultima antologia del poeta, proprio quella che la critica aveva stroncato, ma che aveva acquisito, dopo la morte violenta dell'autore, valore di testamento intellettuale, cosicché gli stessi che lo avevano declassato a libercolo, ora s'affannavano a riesumarlo come capolavoro. Una felice intuizione sperimentale di una poetica innovativa, leggera e giocosa, solo all'apparenza elementare.
Non tutti i mali, alla fine, vengono per nuocere.
L'uomo era morto.
Il poeta, invece, miracolosamente resuscitato.