Dedico questo blog a mia madre, meravigliosa farfalla dalle ali scure e dal cuore buio, totalmente priva del senso del volo e dell'orientamento e, per questo, paurosa del cielo aperto. Nevrotica. Elusiva. Inafferrabile.

domenica 30 maggio 2010

Sessodipendenti

MATTY
Ho conosciuto Lea in uno scontro di carrelli al supermarket.
Le nostre narici ci hanno subito fatti riconoscere come sessodipendenti.
Avevamo lo stesso sguardo ingordo e puzzavamo dello stesso sudore.
Quell'acquerugiola trasparente che dal sesso spurga direttamente nei pori dell'epidermide.
Una secrezione perlacea, dall' odore salmastro.
Così ci siamo ritrovati a scopare tra le pile dei cartoni pressati ed i cassonetti degli scarti alimentari, appena fuori dall'entrata secondaria del supermarket, quella che consente l'accesso al personale.
Ci abbiamo dato dentro alla grande, ancora più infoiati dall'idea che un commesso, o una cassiera, avrebbero magari potuto scoprirci.
Non c'è nulla di più sensazionale che fare sesso sentendosi gli occhi di qualcuno puntati addosso.
L'eccitazione adrenalica, riguardo a questa possibilità, ti spinge a performance davvero audaci.
Lea, dietro la sua apparente normalità, cela un'anima persa.

LEA
Mi sono sposata per salvarmi dalla brama del sesso.
Ho sperato nel miracolo del matrimonio, che appartenere ad un unico uomo mi avrebbe redenta dalla mia vita randagia.
Se il menage matrimoniale, come tutti dicono, spegne il desiderio sessuale, avrei di sicuro smesso di farmi scopare da chiunque.
Di rischiare ogni giorno una malattia venerea o l'incontro con un serial killer.

MATTY
Lea, in definitiva, ha pensato di sperimentare la veretta matrimoniale come uno di quegli anelli usati nel bendaggio gastrico, l'ultima risorsa per dimagrire quando tutte le diete hanno fallito.
Quell'anello di silicone che, restringendo la parte superiore dello stomaco, garantisce un precoce senso di sazietà per cui sono sufficenti poche briciole di cibo per sentirsi sfamati.
Metaforicamente, Lea, ha creduto di poter adoperare la sua fedina coniugale come un bendaggio vaginale che l'avrebbe resa libera dalle sue fameliche necessità sessuali.

LEA
Ho sposato un tipo essenziale, con poca fantasia, privo di qualsiasi morbosità
Uno non interessato alla sperimentazione.
Uno per il quale il sesso, per essere lecito e sacrosanto, necessita di due soli elementi: un pene ed una vagina.
Non sa nemmeno quante volte ho desiderato d'infilargli un dildo nel buco del culo solo per stimolare in lui una qualche reazione fisica ed emotiva.
La noia del matrimonio, anzichè spegnere la mia fame squilibrata di sesso, l'ha accresciuta.

MATTY
Così, quando il marito non c'è, Lea parte alla ricerca di partner occasionali portandosi dietro, in una borsa da palestra, tutto il suo suggestivo campionario di articoli da sexy shop.
Un fantastico assortimento di giocattoli sessuali.
La ragazza sà il fatto suo.
Ed il marito è davvero un coglione.
Non sà cosa si perde.
Lui non conosce la vera Lea.

LEA
Quando mi sono sposata l'ho fatto con motivazioni serie.
Volevo davvero guarire da questa dipendenza sessuale.
Non pensavo che sarei precipitata, invece, in un'astinenza tossica.
Quando ho iniziato a tradirlo mi dicevo è l'ultima volta.
Posso smettere quando voglio.
Ma non è così.

MATTY
Insomma, si ha bisogno di farlo, ecco.
E' una esigenza forte.
Una necessità fisica.
E' come una droga.
Hai bisogno della tua dose quotidiana.
Anzi, più di una dose.

LEA
I miei dildo e le mie anal balls sono un pò come il laccio emostatico e la siringa per il tossico...ma molto più piacevoli.
Disintossicarmi?
Non ne sento l'esigenza.

Anteprima

sabato 22 maggio 2010

A poche fermate dal capolinea

Continua a guardarmi le gambe, così le scavallo, cercando una posa più austera.
Dev'essere quel tipo d'uomo che ha la fissa delle caviglie perchè il suo sguardo si è avvinghiato alle mie come il cinturino di un sandalo.
Mi sento a disagio sotto quello sguardo impertinente e, come sempre accade quando provo imbarazzo, m'irrigidisco.
Unisco le gambe come una scolaretta sotto il banco, rimanendo immobile, concentrata sul libro che sto leggendo.
Lui ha visto la mia manovra ed intuito il mio disagio, così mi sorride di sghembo.
Ovviamente io rimango sulle mie, ignorandolo.
Ricaccio il naso nel libro, ma la trama mi sfugge perchè sento il suo sguardo intercettarmi mentre sfoglio la pagina o faccio un movimento.
Decido che ha un sorriso accattivante.
Decido che mi piace la fossetta sul suo mento.
Decido di smettere la farsa della lettrice.
Mi coinvolge molto di più la storia che sta accadendo al momento.
Chiudo il libro e metto gli occhiali da sole.
Ora sà che da dietro le lenti scure anch' io lo stò guardando.
Il suo sguardo scivola di nuovo, apertamente, sulle mie caviglie, soppesandone lo spessore e cercando d'intuire, attraverso le calze, la qualità dell'epidermide.
Provocatoriamente accavallo le gambe mettendo in evidenza le mie virtuose caviglie magnificamente esibite nelle strepitose decoltè di vernice rossa, da cui emergono lucide, ed insidiose, nel rivestimento sottile del nylon del collant.
Liscio le pieghe del vestito giocherellando con l'orlo che, distrattamente, faccio salire oltre la linea del ginocchio, ben consapevole del seducente contrasto del pallore naturale delle mie mani che accarezzano la seta nera dell'abito, maliziosamente indugiando sul lembo satinato delle gambe.
L'adoratore di caviglie dal sorriso accattivante, non riesce a distogliere lo sguardo dal fraseggio discreto, ed  al contempo impudico, del racconto delle mie dita.
Un racconto breve, senza un vero finale.
A poche fermate dal capolinea.

sabato 15 maggio 2010

L'ipnotismo della pioggia

Fuori dall'antro, stamani, c'è un cielo pallido e gocciolante, così distante dal sottosuolo dove io dimoro che, a stento, ho avuto percezione dell'imminenza dell'alba, se non fosse stato per quel grattare ossessivo della pioggia contro le assi precarie e tumefatte del sottotetto, dove una volta nidificavano le rondini e piccoli volatili abusivi, avrei potuto immaginarlo come un miraggio.
Il musino triangolare di Lizard, la lucertolina bionda, spunta da sotto una grossa pietra.
Anche lei, come me, in attesa del sole.
Abbiamo entrambe bisogno, seppur per ragioni diverse, di credere alle menzogne del cielo e di poterlo immaginare nè troppo distante dai gradini dove io sono seduta a fumare, nè dal sasso opportuno dove lei ha trovato provvisorio rifugio.
Lizard saetta brevemente d'intorno il suo sguardo di rettile.
Dalla stretta fessura dei suoi occhi trapela la consapevolezza di non essere un animale anfibio e, di conseguenza, la convinzione che tutta quell'acqua alla fine non la riguarda come un rischio reale, se saggiamente rimarrà sotto il riparo asciutto del suo ciottolo.
Lizard non enfatizza, come me, i cataclismi meteorologici rilevando in essi simbolismi e responsi, perchè il suo istinto esistenziale di animale a sangue freddo la preserva da qualsiasi malsano tentativo di avventurarsi oltre o di trasformarsi in qualcos'altro.
Così rimane inchiodata al suo pezzettino di suolo, perfettamente immobile, per non disperdere nemmeno un atomo del tepore accumulato.
Ma io immagino, invece, di avere le ali o le pinne o le ruote, o qualsiasi altra diavoleria mi frulli in testa, così da sfuggire all'ipnotismo della pioggia.
Al suo metodico ruscellare.
Al fraseggio subliminale e ventriloquo che ogni scroscio, subdolamente, sussurra.
Devo ricordarmi che un tempo ero una sirena vera prima che la febbre del sole trasformasse il mio oceano in questa landa desertica, e me nella polena di un galeone fantasma.

martedì 11 maggio 2010

Latte



La marchesa Dell'Isola del Gallo impiegò quarantotto ore di dolorosissimo travaglio per dare alla luce il suo secondogenito, un fantolino bianco e rugoso, dagli occhi color dell'acqua.
Due giorni d'indicibili sofferenze che l'estenuarono nel corpo e la prostrarono nello spirito, prima di riuscire ad espellere quell'esserino glabro, privo di colore e d' inclinazione alla vita, che emise solo un vagito, breve e secco, dopo che la levatrice riuscì ad estirparlo dall'utero al quale si era ferocemente abbarbicato come un erba di montagna che, se viene sradicata, trascina con sé anche il pietrisco nella cui fessura dimora.
La marchesa, che in quel lungo ed estenuante travaglio, aveva rischiato di perdere la vita e la ragione, del suo erede maschio non volle più saperne.
Lo bandì inderogabilmente dalla sua camera.
E dalla sua memoria.
Invano il marchese cercò di farle accettare quell'esserino diafano e silenzioso, che mai piangeva e se ne stava rintanato nel suo angolo di culla, con gli occhi aperti e i pugni serrati.
Ogni volta che si arrischiava a sorpassare la soglia della sua camera con il neonato in braccio lei iniziava a blaterare frasi sconnesse e maledizioni, e lanciargli contro ogni sorta di oggetto.
Stessa sorte, poi, riservò a lui, vietandogli per il resto dei suoi giorni l'accesso al talamo nuziale, terrorizzata dalla eventualità di dover rivivere, con una nuova gravidanza, il martirio privato delle doglie.
Al neonato venne imposto il nome di Maurilio Cesare, marchesino Dell'Isola del Gallo.
Lo svezzamento si rivelò lungo e difficile perché il bambino, anche dopo l'avvenuta dentizione, si ostinava a nutrirsi solo ed esclusivamente del latte che succhiava, con instancabile voracità, dal seno della nutrice.
Alle sue esigenze alimentari provvedevano più balie, che si alternavano nell' allattamento.
Il piccolo si aggrappava alle mammelle e cominciava il suo famelico pasto silenzioso, che le sfiniva, prosciugandole.
E quando spuntarono i primi denti iniziò a mordere i capezzoli, succhiando con le vitamine del latte anche quelle del sangue.
Le mercenarie dell'allattamento malvolentieri si attaccavano al petto quella piccola sanguisuga, ma sopportavano in silenzio la sua bocca da squalo, facendo attenzione a non lamentarsene perché il marchese pagava bene.
Mai nessuna di loro, però, elargì all'infante il gesto spontaneo di una carezza.
In età scolastica, quando Maurilio Cesare venne affidato alle cure della governante che già accudiva la sorella primogenita, Isabella, era un bambino stentato e taciturno, con le stimmate future dell'emarginato.
Isabella, maggiore di quattro anni, aveva occhi e capelli color del miele, un firmamento di efelidi sparse su una carnagione d'albicocca, ossa larghe e solide, ed un promettente carattere da futura marchesa.
Maurilio Cesare conservava le sembianze immature di uno sparuto elfo albino, dalla pelle trasparente e lo scheletro minuto. E straordinari occhi del colore dell'acqua.
Arcangela, così si chiamava la governante, era un donnone emancipato, con le mani di falegname e l'anima di colomba.
Quando le venne affidata quella creatura trasparente e silenziosa, dallo sguardo ermetico, la sua intelligenza intuitiva penetrò in quella solitudine esistenziale predisponendola all'empatia, ben decisa ad ignorare l'aura scura che dalla nascita lo accompagnava, mentre il suo cuore sensibile si preparava a rimediare ad una mostruosa ingiustizia affettiva.
Riconobbe nello sguardo enigmatico di Maurilio Cesare i sintomi dell'anemia e della solitudine.
Il marchesino soffriva di carenza di proteine e di vitamine, dal momento che si nutriva esclusivamente di latte, rifiutando ogni altro alimento.
Ed era affetto da una cronica mancanza d'amore.
Nulla a cui non si potesse, seppur tardivamente, rimediare.
Partendo da questa certezza, Arcangela, cercò di spronare i due fratelli ad approfondire la loro reciprocità da cui, poi, sarebbe scaturito il naturale affetto dei consanguinei.
E lei, con convincimento, si calò nel ruolo di madre putativa, distribuendo equamente il suo amore tra i due bambini, ma riservandone il sopravanzo per Maurilio Cesare.
Con infaticabile dedizione si applicava alla sperimentazione alimentare per inventare, per lui, manicaretti al sapore di latte con celati all'interno estratti di carne e di verdure, atti a stimolare il suo sviluppo fisico, ristabilire un colorito epidermico più sano ed alimentare una sua più ottimistica predisposizione nei confronti del mondo.
Ma, da quando Maurilio Cesare aveva fatto il suo ingresso nella cucina di Arcangela, acquistando tempra e colore, Isabella aveva smarrito, invece, la sua indole indomita, il suo delizioso cipiglio di futura marchesa, mostrandosi languida e timorosa, perennemente attaccata alle gonne della governante, e sempre bisognosa della sua mano.
Questo comportamento anomalo non aveva troppo preoccupato Arcangela, imputandolo all'egoismo naturale insito nella bambina abituata da sempre ad avere tutto per sé.
Era sicura che quella sua improvvisa timidezza null'altro fosse che un espediente egocentrico per attirare la sua attenzione, riprendersi la scena e ritornare unica protagonista.
Era soddisfatta, invece, di quelle sue zuppe proteiche, al sapore di latte e di amore, che avevano colorito di tenue rosa l'incarnato del suo protetto, e reso più nitido il colore di fondale marino dei suoi occhi.
Di notte lo faceva dormire nel suo letto, avvolgendolo nel calore protettivo del suo grande corpo, per rimuovere il ricordo del freddo della nascita.
E del ripudio materno.
Non era riuscita però a scalfire la sua ostinazione al silenzio.
Ma a questo, Arcangela, era sicura di poter pervenire col tempo, con la pazienza e con l'amore.
Anche il marchese si era congratulato con lei per i sorprendenti risultati ottenuti.
Posso far di meglio, pensava Arcangela, concentrandosi sul miglioramento vitaminico delle sue zuppe al latte e mostrando, deliberatamente, di non avvedersi dei silenzi ostili d'Isabella.
Che non si attaccava più alle sue gonne, umiliata di sentirsi alla stessa stregua del pesante mazzo di chiavi che la governante portava appeso alla cintura, mentre di fretta, e di buon mattino, percorreva il mercato alla ricerca delle primizie con cui confezionare quei disgustosi intrugli al sapore di latte, e che per corroborare le teorie di Arcangela basate sull'empatia, era costretta a condividere con quel fratello che lei sentiva estraneo ed indecifrabile, e per il quale non riusciva a provare nessun affetto.
Da quando lui era arrivato tutto intorno a lei sapeva di latte.
L'odore sovrano di Maurilio Cesare aveva contaminato ogni cosa.
Non era ancora giorno quando Isabella, spettinata e a piedi nudi, entrò nella cucina silenziosa, frugò brevemente alla ricerca dell' affilato coltellino col quale Arcangela sbucciava le sue primizie, e si acquattò, aspettando l'arrivo del fratello, nell'angolo più recondito, battendo i denti per il freddo ma ben decisa a porre termine a quella che le era sembrata, fin dall'inizio, una storia assurda.





venerdì 7 maggio 2010

Un atto d'amore

Ho già scritto in passato della mia passione per i termini forti e drammatici.
In particolare per le parole nude, perentorie.
Quelle prive di ombre.
E' una scelta.
Uno stile.
Una esigenza che ancora una volta, però, ha avuto ripercussioni nella mia vita privata.
Posso capire che trovare nel mio post UNA GIORNATA DI PIOGGIA una frase come "bocca di puttana in un viso di cera", riferito a me stessa, possa sconcertare quelli che, nel mio entourage, l' hanno letta trovandola eccessiva, fuorviante, illeggittima.
Lesiva.
Preoccupati anche per la mia immagine nell'opionione di chi legge.
Di questo mi dispiace davvero, e chiedo scusa a chi ho arrecato dispiacere ma, ancora una volta, ripeto che il mio uso delle parole non è mai nè sconsiderato nè disinvolto, ma sempre mirato a dare corpo alle immagini.
La frase "bocca di puttana in un viso di cera" rende magnificamente, dal mio punto di vista, l'idea di uno stato d'animo catatonico contrapposto alla vividezza di una bocca sgargiante e provocatoria.
Quelle labbra di puttana rosso carminio in un volto grigio sono il punto focale attraverso il quale ho cercato visivivamente di evidenziare l'oppressione di una tristezza intima ed invasiva.
Colore vivido e rumoroso, il rosso, fine a stesso per esigenze di vita e di mestiere, usualmente adoperato dalle prostitute, dai clown, dai folli
E dagli scrittori.
Chiedo scusa a chi si è sentito ferito da questo mio post e da tracce simili lasciate in altri siti, ma sono fermamente convinta, e lo ribadisco ancora una volta, che chi vuole scrivere non deve avere paura delle parole e, soprattutto, fregarsene dei giudizi.
Per me le esigenze del racconto hanno il sopravvento su qualsiasi altra ragione per cui non intendo edulcorare, smussare, intiepidire o rendere più accettabile, solo per non incappare nella malevolenza del mondo, o recare dispiacere a chi mi vuol bene.
D'altronde tutto è così facilmente e consapevolmente fraintendibile.
Anche l'onestà degli scopi.
Penso solo che, se quella mia frase, o altra similare, fosse stata scritta su una pagina di carta non avrebbe sortito, forse, lo stesso effetto.
Questo mio post è un atto di amore verso chi mi vuol bene e chi mi stima, ma non ne scriverò più di simili riguardo questo argomento perchè chi vuole scrivere, e farlo davvero, deve attingere solo da se stesso senza assoggettarsi a nessun tipo di condizionamento esterno.
Marilena

giovedì 6 maggio 2010

Una giornata di pioggia

I capelli pendono come anime oblunghe, fuoriuscite dalla scatola cranica, molli ed insensibili, come filamenti estranei.
Quello che lo specchio mi mostra è la testa di una bambola primitiva, con gli occhi grandi e la bocca rosso carminio.
Bocca da puttana in un viso di cera.
Fuori la pioggia s'intestardisce a cadere verticale.
Aspetto paziente dietro i vetri che la sua traiettoria muti.
Solo allora potrò staccarmi dallo sfondo asfittico di questa stanza per emergere in quello liquido della pioggia.
Marilena

lunedì 3 maggio 2010

Perfino il caos esige una perfezione nel suo disordine


 


 

P.S - E spiegami per favore, com'è il taglio di capelli  "alla fantino".
Inizio questa pagina di diario riportando il post scriptum dell'ultima e-mail della mia amica Camilla, l'Imperatrice.  l
I suoi commenti ai miei post mi arrivano sempre via e-mail.
Ed ecco che del  mio racconto"Agatha al centro del mondo" ciò che ha colpito la sua immaginazione è stato il particolare del taglio di capelli "alla fantino",  assolutamente non determinante ai fini della storia.
Il particolare.
Quella solitaria nota di squisito profumo che, elevandosi potentemente univoca, ha la capacità di annullare l'impiastricciamento inquinante di tutti gli altri odori.
E' questo l'assunto di Camilla sulla perfezione.
Per me, invece, la perfezione sta nel tramutare in profumo tutti gli odori e tutte le puzze.
Impresa ardua anche per il più raffinato maestro profumiere.
Impossibile per chi, come me, gli odori nemmeno li percepisce.
E questo stabilisce il mio limite olfattivo, per cui rimarrò solo un' apprendista garzone addetta alle storte e agli alambicchi, perché incapace di creare essenze.
Questa mia maniacalità verso la perfezione riguarda solo i miei scritti perché per tutto il resto non ne ho nessuna esigenza, trovando addirittura sollievo nella mia costituzionale imperfezione.
La mia ossessione è cercare tra i tanti termini quello perfetto, l'unico possibile al contesto, mentre la creatività ha bisogno di territori liberi o, al contrario, molto intasati.
Non certo di spazi misurati al millimetro.
E questo stabilisce il mio limite di scrittrice, per cui rimarrò solo una disinvolta parolaia, senza evolvermi in null'altro, destinata a vagare esausta alla ricerca di una scrittura perfetta.
Perché a me non basta il particolare.
Voglio ricoprire tutto con il mio odore.
Camilla ancora afferma che, se nel disordine dei capelli metti un nastro vistoso, sarà quello ad essere notato e non la tua scapigliatura.
Se il nastro è molto esagerato, parleranno della sua grandezza.
Se è sgargiante, parleranno del suo colore.
Il nastro è la nota imperativa di quel profumo che si sovrappone a tutti gli altri odori.
- Ma questo è solo un distogliere l'attenzione-  obietto io.
- E cos'altro è la perfezione se non una ipnosi?- ribadisce lei. - La concentrazione dello sguardo su un unico punto.E quell'unico punto è il particolare. E' di quel particolare, genialmente evidenziato, di cui ci ricorderemo e che cancellerà tutto il resto. Puzze comprese.- 
Così l'Imperatrice Camilla, donna perfetta, mi rivela che la perfezione non esiste in quanto tale ma solo nella nostra capacità di farlo credere.
- Guarda le mie mani - mi confida - sono esageratamente grandi perfino per una donna della mia altezza. Così non indosso anelli, né smalto. Non le esaspero. Ma al polso porto sempre un bracciale importante. Il bracciale cattura l'attenzione e la sua grandezza ridimensiona le proporzioni delle mie mani. Un correttivo elementare che ristabilendo un equilibrio crea l'illusione di un'armonia naturale. -
- Ma questo è un trucco d'attrice e non da scrittrice - sono pronta a ribadire - E di trucchi, in questo campo, ne voglio fare a meno: perché perfino il caos esige una perfezione nel suo disordine -.
Marilena

sabato 1 maggio 2010

Agatha al centro del mondo

Agatha dal sogno della notte appena trascorsa aveva rilevato auspici benevoli per il compimento della sua impresa.
Nel sogno c'era stato il ritorno delle rondini a nidificare tra le tegole precarie del suo sottotetto.
Poi la fioritura, selvaggia e trasbordante, di un cespuglio di gelsomino ormai da tempo inaridito.
Aveva perfino ripreso a zampillare l'umile fontanella del cortile, irrimediabilmente disseccata dalla siccità della passata stagione.
Eppoi, nel sogno, si era vista anche lei.
Appena un po’ più giovane, con i capelli fluenti e la gonna rossa che tanto piaceva a Juan.
Lui, però, nel sogno non c'era.
Il bastardo che l'aveva mille volte tradita e che lei mille volte aveva perdonato.
Il miserabile che poi l'aveva umiliata fuggendo di notte, di nascosto come un ladro, con la sua sgualdrinella ancora impubere.
L'assenza di Juan, in quel suo sogno così bello, l'aveva ulteriormente convinta della positività di quei segnali notturni.
E di quelli diurni.
Perché si era destata con il sole che le solleticava le gambe e che, approfittando della sua incosciente remissività, andava penetrando, sempre più ardimentoso, sotto la cotonina diafana della camicia da notte.
Lei, allora, con distratta malizia, aveva aperto un poco di più le gambe facendo sì che gli immateriali polpastrelli del sole non trovassero ostacoli insormontabili a quella sfacciata manovra.
Non si mosse da quella posizione fino a che non si sentì colma di quel calore espansivo, generoso ed umido,  quello dell'innamorato che vorrebbe per sempre rimanere dentro l'intima fessura, nel ventre della sua amata.
Quando si fu alzata, per prima cosa controllò se le rivelazioni del sogno si fossero materializzate anche nella realtà del presente.
Ma tutto, all'apparenza, sembrava come sempre.
Ciò che sembra non sempre è.
Ricordava la frase che sua madre era solita recitare ogni volta che si era trovata di fronte ad un possibile inganno.
Ciò che sembra non sempre è.
Anche Juan, un tempo, le era sembrato un uomo diverso da quello che poi si era rivelato.
Ma quella mattinata di sole e di vento no, non la stava ingannando.
Era esattamente quello che sembrava.
Perché c'era anche il vento, altro elemento che consolidava il suo convincimento che quella fosse la giornata perfetta per la sua impresa.
Il vento era ben calibrato.
Né troppo forte.
Né troppo debole.
Deciso.
E tiepido.
Un vento androgino.
Donna e uomo insieme.
Ed un vento di questa natura non l'avrebbe di sicuro tradita.
Aveva indossato pantaloni e stivaletti da cavallerizza per domare le nubi.
Con le forbici, senza tentennamenti, aveva mozzato la treccia scura che le ondeggiava sulla schiena, pesante come una gomena.
Ogni inutile zavorra, per il successo dell'impresa, andava senza pentimento eliminata.
A Juan piaceva l'intrico selvaggio dei suoi capelli di femmina.
La treccia recisa, ciondolante nella sua mano, questo le rammentava.
Agatha, quel mattino aveva invece con decisione stabilito che la sua gonna rossa e la treccia tagliata, gli occhi verdi di Juan e la sua anima bastarda, erano solo gravami di cui poteva benissimo fare a meno.
Fardelli del passato.
La donna che si accingeva a celebrare la mirabolante impresa era una donna inedita.
Una domatrice di nuvole con i capelli da fantino.
Una donna che mai avrebbe sprecato la sua vita ad amare un figlio di puttana come Juan.
Con questi convincimenti propositivi, Agatha era entrata nel buio della rimessa per riemergere alla luce trascinandosi dietro un carretto, sbilenco e traballante, sul quale era issato uno stravagante marchingegno: un argenteo corpetto rigido simile al busto, privo di maniche, di un'armatura, e sulle spalle del quale erano montate due flessibili stecche perpendicolari.
Ed ancora, da entrambi i lati del dorso, si dipanava un complesso ricamo di funicelle che convergeva sui fianchi.
Aveva trascinato il suo trabiccolo cercando di non esaurire troppo le energie, arrampicandosi fino alla sporgenza frastagliata del dirupo.
Il fianco di quella montagnola offriva solidi appigli per i piedi ma presentava anche tratti infidi di sassolini scivolosi e di un friabile pietrisco, ingannevole imitazione di roccia.
Raggiungere la cima non era stato affatto agevole dovendo trascinarsi dietro anche l'ingombro del carretto che, alla fine, vi era approdato, seppur martoriato e privo di una ruota, ma con il carico ben protetto, assicurato com'era da robuste cinghie.
Si era riposata solo il tempo necessario per recuperare le forze, ché il percorso era stato ben più duro di quello che aveva previsto.
Ma non poteva permettersi una sosta più lunga nel timore che il vento perdesse di forza.
Allora, Agatha, aveva indossato il corpetto.
Ne era emersa prima la testa che, privata dell'oceano dei suoi capelli di donna, sembrava piccola come quella di un bambino.
Eppoi le braccia sottili, fragili, nella loro magrezza costituzionale.
Quel corpetto panciuto la rendeva simile ad una irreale creatura intrappolata in un otre da cui fuoriuscivano membra irrisorie, che pareva dovessero cedere sotto il suo peso.
Il bustino d'amazzone luccicava, in pieno sole, delle mille sfumature dell'iride.
Ed Agatha ne risplendeva.
Ben salda sulle sue gambe esili resisteva alla forza del vento che, senza quel suo pesante carapace di guerriera, forse l'avrebbe strappata dal suolo, involandola.
Si era sporta dall'orlo dello strapiombo.
Le cime degli alberi, viste da lassù, sembravano cespugli.
Una distesa compatta di verde che non lasciava intravedere il nero della terra.
Ma non era ad una discesa verso il basso, plateale e dimostrativa che lei mirava.
D'altronde non ci sarebbe stato nessuno a testimoniare l'evento.
No, al contrario, aspirava invece a librarsi verso il cielo.
Dove avrebbe domato le nuvole.
Ma, in ogni caso, non ci sarebbe stata folla ad applaudire.
Un’impresa solitaria.
Una sfida che, dal suo punto di vista, non necessitava di alcuna celebrazione.
Una rivincita, attraverso la quale si sarebbe trovata al centro del mondo.
Lo avrebbe saputo lei sola.
E questo le era sufficiente.
Decisa, Agatha, aveva portato le mani ai fianchi allentando alcune cordicelle e trattenendone altre.
Dalle stecche perpendicolari, posizionate sulle sue spalle, si spalancarono due magnifici ventagli alari che lei poteva aprire o comprimere, secondo il suo capriccio, adesso che ancora non si era librata.
Poi, una volta in volo, sarebbero servite ad espletare le manovre necessarie per assecondare le volontà del vento.
Per cui lei, opportunamente, si andava assicurando che tutto quel complicato intrigo, di cordicelle e di fili, funzionasse alla perfezione.
Non era alla morte che aspirava.
Ma alla vita.
Così controllava che le funicelle fossero libere nel loro percorso.
Che nessuna ostacolasse le altre.
Accertandosi che nessun malaugurato nodo si potesse, al momento delle manovre, sciaguratamente formare.
Agatha, sul ciglio ventoso del burrone, apriva e chiudeva quelle sue splendide ali di farfalla fantascientifica, soppesando e valutando, concedendo giogo ad alcuni fili, trattenendone altri per modificarne, in misura adeguata, l'estensione.
Doveva essere certa di calibrarle alla perfezione studiando la potenza del vento e delle correnti ascensionali a cui avrebbe dovuto affidarsi per spiccare il volo e per rimanere poi in quota.
Agatha sapeva che ci sarebbero stati momenti in cui le correnti alte sarebbero state più deboli in caduta, e di questo avrebbe dovuto ricordarsene al momento opportuno per non cedere al panico dello sfracellamento.
Era pronta a non aver paura.
Perché la paura sarebbe stata la zavorra più pericolosa di tutte.
Il peso aggressivo che irrimediabilmente l'avrebbe trascinata verso il basso.
Il vento era ben calibrato.
Né troppo forte.
Né troppo debole.
Deciso.
E tiepido.
Un vento androgino.
Donna e uomo insieme.
Ed un vento di questa natura non l'avrebbe di certo tradita.