Dedico questo blog a mia madre, meravigliosa farfalla dalle ali scure e dal cuore buio, totalmente priva del senso del volo e dell'orientamento e, per questo, paurosa del cielo aperto. Nevrotica. Elusiva. Inafferrabile.

martedì 29 settembre 2009

Calamity Jane alla conquista di Blogosphere.

In preda alla febbre del distacco, e del rinnovamento, stanotte ho bruciato i crespi del lutto e le palandrane da ipnotizzatrice.
Gli specchi compensativi e gli elisir delle lacrime.
Lo scapolare della penitenza. E quello della passione.
I pettinini d'argento delle malie. E tutti i miei feticci illusivi.
Ancora conturbanti.
Ancora capaci d'irretirmi, nonostante la iattura della cattiva sorte.
Portentoso falò, esaltato dall'esplosione pirotecnica di una bomboletta spray, finita tra le fiamme nell'euforia del rinnovamento.
Un moderno incantesimo acquistato su ebay.
Un aerosol terapeutico, disciplinato all'equilibrio dell'umore. E della ragione.
 Lenitivo ai tormenti delle reminiscenze. Cicatrizzante per le ferite dell'anima.
Effetti collaterali: apatia, sonnolenza, amnesia.
Obnubilamento irreversibile. Coma.
Lo scoppiettare del fuoco, e gli spari della mia carabina mirati a far cadere le stelle, hanno richiamato il coro aggiuntivo di uno sparuto branco di coyote, attratti dal trambusto e dalle fiamme.
Che ad ogni colpo, e con enfasi, hanno ululato alla luna la loro partecipazione emotiva.
Ingollo un sorso di delicious per scacciare i fantasmi che gemono con voce di vento in questa notte scura.
 Notte da fandango.
Sciolgo i capelli.
Mi sento bella. E travolgente.
Pronta alla sfida.
Calamity Jane alla conquista di Blogosphere.


giovedì 24 settembre 2009

L'assoggettamento all'amore.

Nudo, si era consegnato a me nel momento in cui aveva pronunciato la parola amore.
Prigioniero di emozioni che non sapeva dominare. E che subiva.
Mi porgeva i suoi polsi legati con i nodi indissolubili del suo amore.
Me li porgeva con la grazia con cui si offre un bouquet di fiori.
Mi donava i petali azzurri delle sue dita.
E tutto se stesso.
Accettava la sottomissione, incapace di dominare la violenza del suo amore.

Anteprima

lunedì 21 settembre 2009

Realtà apparente

Se vuoi vivere in una realtà parallela non puoi circoscriverti al semplice ruolo di spettatore.
Per poter trasformare la mera illusione in una realtà apparente devi riuscire a tramutarti in qualcuno che, in quella dimensione, occupa un posto di diritto.
Devi accettare la voce fuorisincrono.
Ed il ventriloquo che te la presta.
Devi credere alla menzogna dei soli raggianti e delle lune fredde che, scorrendo su un fondale dipinto, si alternano in un tempo squilibrato. Programmato sulla dentellatura di una rotella d'orologio. All'interno del meccanismo primitivo di un giocattolo antico.

Lunedì, 21 Settembre 2009
Stamani sono tornata nell'antro trascinandomi dietro il pesante baule del recente naufragio.
Respinta dal mondo di superficie, nel pieno della mia ennesima sconfitta esistenziale, è qui che ancora una volta trovo rifugio.
Mi rendo conto, oggi, di quanto la mia vita sia davvero solitaria.
Popolata da ombre e non da persone.
Voci, per lo più. Figure senza mani.
Perchè quello di superficie è solo un mondo fittizio. Un origami.
Ed io, una strega errante.
Che, sventatamente nel miraggio di un amore arrogante, ha rinunciato ai suoi poteri.
E così vago, senza una meta vera, appesantita dal formidabile ingombro di questo armamentario da illusionista che vado trascinandomi dietro da un tempo immemore.
E gravata dal fardello oppressivo dei miei disastrosi fallimenti esistenziali.
E dalla solitudine.
Che mi pesa dentro come un'anima morta.
Un cadavere che nessun vivo desidera vedere.
E così, per sentirmi meno sola, ho resuscitato fantasmi.
Attribuendo loro un ruolo. Ed un destino.
E facoltà di giudizio. E capacità di sentimento.
L'inganno illusorio della ragione e dell'anima
Il soffio di vita del ventriloquo.

Se le parole scritte avessero intensità di voce, queste mie, propagherebbero come un urlo apocalittico, così potente da perforare i timpani.
Azzittire le campane.
Ottundere il fragore del tuono.
Per sommergere, come inarrestabile onda di tsunami, gli anfratti più inaccessibili del pianeta.
E dilagare, ancora, oltre gli argini degli universi limitrofi.
Ma ho rinnegato la strega.
Per essere solo una donna.
E lasciarmi irretire dalla follia persuasiva di un amore delirante.
Allucinato.
Ho creduto alla menzogna dei soli raggianti e delle lune fredde che, scorrendo su un fondale dipinto, si alternano in un tempo squilibrato. Programmato sulla dentellatura di una rotella d'orologio. All'interno del meccanismo primitivo di un giocattolo antico.
Marilena

giovedì 17 settembre 2009

L'intrappolamento seduttivo



Quella dell'intrappolamento seduttivo, o La Dannazione Sulfurea, come è appellato negli antichi tomi, è una tecnica di seduzione che richiede un'abilità applicativa davvero fuori dalla norma.
Essendo una strategia da pianificare minuziosamente nei dettagli.
E dove non è concesso alcun margine d'errore.
E' questo un metodo per esperte generalesse.
E cacciatrici davvero abili.
Quindi, signore, se siete personalità distratte, approssimative, o dotate di poca pazienza, non prendetela assolutamente in considerazione. Poichè, opportunamente, l'ampia letteratura filosofica ed antropologica del pensiero femminile, e la divulgazione della metodica, nei trattati inerenti alla sperimentazione applicata riguardo a questa materia, pur contemplano alternative d'imbastimento meno artificiose.
Più sintetiche. Anche se più fallaci.
L'intrappolamento seduttivo necessita di notevole forza di carattere.
Perseveranza. Indubbia capacità decisionale.
Una incrollabile certezza nelle proprie potenzialità.
Dunque, impresa delicatissima.
Che non prevede sperimentazioni.
Nè, tanto meno, rimedi raffazzonati.
Rattoppi dell'ultima ora.
Le statistiche elencano, nell'aridità indiscutibile dei numeri, ben pochi successi e troppi, davvero troppi, disastrosi fallimenti.
Quindi, prima di accingervi ad intraprendere una impresa di siffatta complessità, assicuratevi che il vostro curriculum contenga tutte le specifiche elencate.
L'intrappolamento seduttivo si prefigge, come scopo finale, l'assoggettamento totale, attraverso l'imposizione coercitiva di uno stato di necessità imprenscindibile da voi.
Una manipolazione premeditata.
Per stabilire una dipendenza.
Fisica. E psicologica.
Un'assuefazione.
Un incantesimo ad personam.
Intrappolare significa precludere ogni via di fuga.
Nello specifico, però, scatta la meccanica della volontarietà e dell'accettazione.
Così come, per paragone, si verifica nel condizionamento della Sindrome di Stoccolma.
Le generalesse più audaci e le cacciatrici più esperte ben sanno, però, che per attuare un simile, audace ingegno, nulla deve essere lasciato al caso.
Per cui è innanzitutto d'obbligo uno studio esaustivo ed appassionato del soggetto: manie, vezzi, idiosincrasie e passioni.
Senza null'altro trascurare.
Conoscenze assolutamente fondamentali, se si mira al successo pieno del progetto.
Perché questo occorre per organizzare una trappola invisibile.
Ed inviolabile.
Visibilissima, invece, deve essere la soldatessa che a tale opera si appresta.
La ruvidità degli anfibi e la persuasione caratteriale dello Chanel n.5
La punta dello stivale per sospingere il capriolo nella trappola.
E la traccia subdola del profumo, a rassicurarlo.
A non disorientarlo.
Badate che la trappola non abbia pareti di muro.
 O inestricabilità di labirinto.
Meglio un fondo ialino, levigato e compatto, che mostri l'esterno.
Perché l'illusione dell'aria è fondamentale.
Stivalacci da guerrigliera.
Ed un lembo di pelle nuda.
Non occorre altro.
Nessuna trasparenza allusiva da cortigiana.
O lugubri taffettà da ipnotizzatrice.
Nessun inutile armamentario fetish.
O effimeri lustrini da diva.
L'essenzialità è, in questo contesto, l'inganno massimo della seduzione.
Ricordate anche che l'addomesticamento richiede pazienza ed indulgenza.
Le dita tenaci di Penelope.
E gli occhi veggenti di Morgana.
Non precipitate i tempi se mirate ad una vittoria piena e con resa incondizionata.
Alcune droghe agiscono subito.
Al primo impatto c'è già l'assuefazione.
Ma la dipendenza è data dalla cruda potenza della sostanza.
E non dalla mano che la porge.
Nell'intrappolamento seduttivo nessuna droga avrà più efficacia se non sarete voi a somministrarla.
E' questa la grande differenza.
L'assoggettamento che crea la dipendenza vitale.
Lo stordimento progressivo dello Chanel n. 5
E le lusinghe fameliche suggerite dall'arroganza dei vostri visceri, e dai capricci dei vostri umori, confidati al capriolo intrappolato nell'ardita spregiudicatezza di un gioco impudico, che pur terribilmente lo eccita. E, a cui mai, vorrebbe più sottrarsi.
In un territorio circoscritto. Ostile.
Ad armi impari.
Gioco pericoloso. E non condiviso.
Perché sarete sempre e solo voi a dettar le regole.
Ma il capriolo, addomesticato, le accetterà in una resa consapevole ed incondizionata.
Felice di subirle.
Ed ecco che la droga persuasiva è somministrata.
Ed il suo destino segnato per sempre dall'amara speranza di riuscire un giorno a possedervi.


domenica 13 settembre 2009

Una donna

Ho avuto molti uomini.
E mai innamorata di nessuno.
L'amore è un sentimento che non mi riesce di provare.
Gli uomini, invece, s'innamorano di me facilmente.
Attratti dalla mia distanza, si mettono in gioco per conquistarmi.
Non conquistano nulla.
In realtà sono io che, dopo un'attenta osservazione, stabilisco se lui valga davvero il mio gioco.
Così lascio cadere le barriere.
Silenziosamente tesso la mia ragnatela.
Ed imprigiono la mosca di turno.
Dò me stessa come un grande dono e pretendo la consapevolezza, da parte del mio amante, che per lui lo sia davvero.
 Stabilisco la mia unica ed inderogabile regola, che voglio sia da subito accettata: sottostare ad ogni mia richiesta senza possibilità di mediazione.
Sono bella e ho la voce giusta per ottenere ciò che voglio.

Anteprima

venerdì 11 settembre 2009

L'Imperatrice Camilla

La mancanza di fantasia induce più facilmente ad accettare la realtà?
Ed il suo eccesso, invece, la rallenta o, addirittura la inibisce?
Ho avuto ieri sera una discussione molto vivace con Camilla, quella in carne ed ossa e non la mia doppelganger (Camilla Cam Camille) proprio su questo argomento, discettando su quanto sia più o meno giusta l'influenza della fantasia, non riguardo la stesura di un racconto, ma alle sue implicazioni, a volte devastanti a volte fuorvianti, (parole sue) nell'impatto con la vita reale.
Perchè gli incasinamenti esistenziali, secondo lei, nascono proprio dalle aspettative, troppo spesso concretamente irrealizzabili, suggerite dalla nostra immaginazione.
Dico da subito che Camilla vive da Imperatrice incontrastata nella sua perfetta realtà quotidiana.
I suoi desideri si avverano facilmente.
E, sopratutto, non ha bisogno d'inganni illusori per rendere più consono alle sue aspettative quello che, ardentemente, realizza.
Perchè quello che desidera si avvera così come lo ha immaginato.
Camilla non deve fantasticare su come sarebbe stato se......
Per lei è normale essere ed avere, proprio nel modo in cui lo agogna.
L'Imperatrice Camilla abita da sempre una realtà ideale. Non le serve inventare.
Ha una bacchetta magica incorporata in qualche parte del suo portentoso ESSERE, che non delude mai le sue aspettative.
Nascere con il physique du rol giusto è già un bel vantaggio.
Ed il physique du rol di Camilla è quello di un'Imperatrice a cui basta un semplice cambio d'abito, o di pettinatura, per essere qualcun'altra.
Qualcun'altra che, però, aspira sempre e solo a voler essere lei, Camilla.
Gioca con gli specchi reali senza temere il trauma dell'incantesimo che si spezza.
Il mondo adora Camilla.
Le sue grandi mani.
Il suo passo da soldato.
L'abbondanza dei suoi capelli.
Perfino le lentiggini che, al primo tenue sole marino, le inondano il viso e le spalle.
Camilla straripa di tutti questi particolari, motivo per cui a lei mai verrebbe in mente di poter immaginare di voler essere un'altra.
Camilla adora essere Camilla.
Il tranello filosofico in cui l'Imperatrice cade è quello di confondere il concetto di fantasia con quello di mistificazione.
- Sei una mistificatrice, Mari. - Quante volte me lo ha detto?
- Riesci ad ingannare te stessa. Psicologicamente irretita dai tuoi stessi machiavellici congegni mentali. Devi sostenere il peso di due mondi. Quello reale. E quello fantastico. Una fatica incredibile -

giovedì 10 settembre 2009

Il figlio della leggenda

Era arrivato trasportato dal vento della prateria, rotolando dentro un cespuglio.
Ed arenato nei pressi della canonica.
Nel momento in cui la sorella del pastore s'affacciava sull'uscio, dal cespuglio emergeva una mano. Ed una voce invocava aiuto.
Al cospetto di quello che sembrava un maleficio, la donna si fece il segno della croce.
Poi, istericamente, iniziò a gridare.
Le urla, acute e continuate, richiamarono l'attenzione di una piccola folla e, quando il pastore sopraggiunse, trovò davanti lo spiazzo della sua canonica un vivace assembramento al cui centro intravedeva la sorella, accasciata su una seggiola, ed un tumbleweed che campeggiava, irreale, sul sagrato.
Un tumbleweed dotato di una mano e di una voce.
- C'è qualcuno là dentro. Bisogna tirarlo fuori - esortò il pastore, che era un uomo pratico.
Rigettando l'ipotesi superstiziosa, e già predominante, che quello fosse un intrigo del demonio.
Aiutato da due volontari si accinse nell'opera di smantellamento del bozzolo-prigione, ed intanto andava tranquillizzando il prigioniero sull'imminenza della sua liberazione.
Non fu affatto facile penetrare la coriacea fortezza di quel cespuglio, debitamente rinforzato di rami puntuti e rovi spinosi. Che graffiavano le mani e penetravano la carne.
Alla fine riuscirono, però, ad aprire un varco, dal quale emerse, contuso e ferito e con gli abiti strappati, un giovane uomo dalla folta capigliatura corvina ed un viso lungo, dai lineamenti gradevoli.
Le proporzioni del suo corpo, invece, erano assolutamente sbagliate.
Il busto troppo lungo rispetto alla brevità delle braccia.
Le gambe tozze e molto arcuate.
Ed una gobba, sulla spalla destra.
Un abbozzo d'uomo.
Che a malapena giungeva in altezza alla vita del pastore. Che pure era di medie dimensioni.
A questa apparizione la folla era ammutolita.
I superstiziosi si facevano il segno della croce.
Biascicando formule per scongiurare la iattura.
- Chi vi ha fatto questo? - chiese il pastore al piccolo uomo ancora frastornato.
- Gringos - fu la risposta sintetica
- Per gioco. Per divertimento - aggiunse, poi, come ulteriore spiegazione. - Ma non importa se alla fine sono giunto nel luogo verso cui ero diretto -
- Eravate dunque diretto qui? Posso chiedervi chi siete?- domandò, con dolcezza, il pastore
- Joachin Ortega de la Cruz- rispose l'altro, con una nota d'orgoglio
- Joachin Ortega de la Cruz. Figlio di Santiago Ortega de la Cruz - precisò con timbro di voce assai alto, ed in palese tono di sfida.
E, a quel nome, tutti zittirono.
- Vi dice nulla questo nome? - chiese, sarcastico, al pastore - Voi dovreste conoscerlo bene, dal momento che gli avete somministrato il sacramento dei morti - proseguì amaro - Come tutti voi altri che lo avete visto penzolare dal capestro più alto che mai sia stato costruito - concluse con disprezzo, puntando il dito verso gli astanti.
A questa sua affermazione lo stupore iniziale della folla si era tramutato in scherno.
Perchè risultava davvero difficile credere ad una discendenza simile.
Santiago Ortega de la Cruz, soprannominato La Leyenda, l'incubo di sceriffi e cacciatori di taglie che per decenni, invano sulle sue tracce, avevano invece inseguito il suo fantasma, che quel bandito pareva possedesse il dono demoniaco dell'invisibilità, e non poteva di certo aver generato quello scherzo della natura.
- Voi? Il figlio di Santiago Ortega de la Cruz, ma...come è possibile? - chiedeva incredulo il pastore, riandando con la memoria al ricordo del gigante che aveva rifiutato la confessione e l'assoluzione.
E proclamato fino allo strangolamento del nodo scorsoio, la sua innocenza.
Ricordava, l'uomo di chiesa, le ultime parole del bandito: impiccatemi per tutti i misfatti che ho commesso, ma non per questa infamia di cui sono innocente.
- Fate uno sforzo di memoria, padre - sollecitava il nano - visto che è passato davvero così poco tempo da quando lo avete giustiziato. Parlo di Santiago Ortega de la Cruz: La Leyenda. Io sono suo figlio -
- Non potete essere suo figlio. L'uomo che è stato giustiziato era un ciclope e voi siete...non gli somigliate affatto - s'intestardiva il pastore, non ravvisando alcuna reale ipotesi di parentela tra il bandito, imponente come una sequoia e per il quale era stato necessario costruire un patibolo su misura, e quell'accenno di uomo che gli stava di fronte. E che ostinatamente ne asseriva la discendenza.
- E' di sicuro omonimia, figliolo - concluse in ultimo, scuotendo il capo, desolato.
- Vi dico che l'uomo che avete impiccato era mio padre. Santiago, La Leyenda. Non ce ne sono molti con quel nome e quell'aspetto - ribattè, spazientito, il giovane.
Agli insulti striscianti della folla, nel frattempo, era seguito il lancio di una pietra che mancò, per eccesso di altezza, il bersaglio.
L'odio degli astanti continuava a crescere.
- Ho aiutato io a costruire la forca per Santiago - affermò una voce tenorile - Un patibolo solido e con un capestro robusto, per spedirlo tutto intero all'inferno. E con la testa ancora sul collo -
Con tutta l'agilità che il suo corpo rattrappito gli consentiva, il giovane si voltò inviperito a cercare l'uomo che aveva parlato.
- Le provocazioni non servono a nulla - tuonò il pastore che ben conosceva l'appartenenza di quella voce - E le sfide nemmeno - aggiunse rivolto al nano. - Santiago Ortega de la Cruz è stato regolarmente processato. Riconosciuto colpevole. E giustiziato. E' tutto regolare -
- Regolare? Non c'è nulla di regolare in ciò che qui è avvenuto. Mio padre era un fuorilegge. Un bandito. Ma non un violentatore di bambine. Lo avete giustiziato per un crimine che non ha commesso. Io reclamo il suo corpo. Ed il suo onore - ribadì, in tono di sfida.
- Attento ragazzo, stai approfittando della nostra pazienza. Ti consiglio di tornartene da dove sei venuto - lo avvertì l'uomo col distintivo, materializzatosi dalla folla - Tuo padre meritava la forca. Per questo ed altri crimini. Riprenditi il suo cadavere, se proprio ci tieni. E vattene -
Un uomo deciso, lo sceriffo.
Di poche parole. Un duro.
Ma Joachin Ortega de la Cruz, figlio di Santiago Ortega de la Cruz, La Leyenda, non era giunto fin lì per veder fallita la sua missione. Aveva affrontato un viaggio durissimo. Pieno d'insidie. Da ultimo, l'aver subito la follia di quel manipolo di gringos che lo avevano derubato e poi, per solo divertimento, intrappolato nel tumbleweed.
Riprendersi il corpo di suo padre non gli bastava.
Voleva che gli venisse restituito anche l'onore.
- Per quanti dollari è stato venduto il suo onore? - urlò con rabbia dolorosa - Dimmelo sceriffo, perché per uccidere La Leyenda, il capestro, da solo, non sarebbe bastato. Per farlo morire davvero gli avete dovuto insozzare l'anima -
Ostinato, nell'impotenza della sua solitudine, Joachin Ortega de la Cruz continuava a gridare, nel nome del padre, la sua verità.
Impicchiamo anche lui.
Scherzo di natura. Depravato. Nano.
Gridava la folla inferocita.
Lanciandogli contro insulti e pietre.
L'uomo col distintivo tornò sui suoi passi solo per sibilare il suo avvertimento definitivo - Vattene, nano. Non costringermi a costruire il capestro più piccolo della storia -

(foto di L. Charb)


domenica 6 settembre 2009

Il piacere negato

Attraverso la privazione si sentiva appagato da una voluttà sconosciuta.
Così si accingeva ad entrare in un universo luminosamente buio, quello dei santi che agognano al martirio per avere diritto al paradiso. Stava intraprendendo il cammino delle anoressiche e dei martiri che, abiurando alle necessità vitali del corpo, sviluppano una interiore forza ciclopica mediante la quale il sacrificio e la rinuncia sono soltanto stimoli all'accrescimento di questa nuova energia.
Ogni volta si avvicinava un pezzetto di più.
Ogni volta si ritraeva sempre più esausto.
Lo vedevo tremare, i capelli sudati, i muscoli tesi: sentivo la sua lotta per non profanarmi, come diceva lui.
- Legami - era appena un sussurro la sua voce.
Lo legavo talmente stretto che le sue braccia portavano a lungo i segni delle corde e poi, secondo il mio umore, lo provocavo.
A volte lo lasciavo in attesa, gli sussurravo promesse solo per eccitarlo.
Per farlo arrivare al limite.
Una volta, dopo aver inutilmente a lungo implorato, ha pianto.
Gli ho asciugato le lacrime con la mia bocca: sapevano di gratitudine.

Anteprima

venerdì 4 settembre 2009

Un gioco nuovo

- Sei così giovane - Mi ripeteva carezzandomi con le dita ombrate di colore.
Mi piacevano quelle sue dita, lunghe e nervose, sfumate di azzurro, di porpora e di grigio.
Dita di apostolo in un uomo così carnale.
- Ma anche così vecchia. Una sacerdotessa di Avalon. Erano le sacerdotesse a scegliere gli uomini, sai? Mi avresti scelto? Nella folla prostrata ai tuoi piedi, mi avresti indicato? Avremmo fatto l'amore nei boschi, sotto la luna piena, consci degli occhi spalancati a spiarci nel buio. Occhi come luci ad illuminare un immenso palcoscenico per la mia bellissima strega. Non ci sarebbe stata profanazione, perché saresti stata tu a scegliere me. -
E le sue dita percorrevano immaginari sentieri di bosco, danzando nell'aria come farfalle nude, pronte a farsi divorare dalla bocca ingannatrice di un fiore carnivoro.
Dita da ipnotizzatore.
Mi ritrovavo nuda fra quelle sue dita, con la sorpresa di un calore nuovo e sconosciuto nel ventre. E mi rotolavo cercando sollievo a quel piccolo fuoco che lui alimentava con la sapienza delle sue mani. Si eccitava della mia eccitazione, ma sfidava se stesso a non cedere alla tentazione.
- Non ancora. Non così presto. Non oggi - Ripetevano le sue labbra aride.
I capelli spioventi sugli occhi bendati e quelle sue dita che brancolavano cieche su di me, nella stanza scura.
- Voglio impararti a memoria e per fare questo occorre il buio completo. Voglio avere la sensibilità di un cieco per possederti completamente. -
Ma io avevo imposto la penombra perché ho paura del buio assoluto.
- Odio il buio, l' odore della mia paura ti renderebbe tutto estremamente facile ed il tuo gioco non avrebbe più senso. -
Trovando valida questa mia considerazione aveva ceduto di buon grado all'infiltrazione di un po' di luce. Avevo così capito che quello era per lui un gioco nuovo e che le regole le andava, di volta in volta, stabilendo.
Ma quello che mai avrebbe immaginato era che io quel gioco lo conoscevo fin dall'infanzia: vivere nel silenzio e nell' oscurità interiore per riuscire a captare l'esterno attraverso l'esasperazione estrema dei sensi.
Se avessi voluto avrei potuto facilmente violarlo in quel suo stesso gioco.

Anteprima

martedì 1 settembre 2009

Puttana

Nessuna promessa. Nessun inganno.
Assolutamente sincera. Sempre.
Assolutamente io.

- Assolutamente tu nella tua crudele schiettezza. Non hai sentimenti. Non hai un'anima. -

Avevo visto la sua rabbia impotente trasformarsi in una buia quiete.
- Sei una puttana - Queste le sue ultime parole.

Puttana.
Lo sputo cattivo di un uomo ferito.
Insulto, rabbioso e provocatorio, singhiozzato davanti al muro del mio silenzio.
Gridato, quando stavo andando via.
Puttana.
Non era vero. E lo sapevamo entrambi.
Ho preferito il silenzio all'affermazione di una verità che non avrebbe mutato la storia.
Puttana.
La vastità del suo dolore mitigava l'umiliazione dell'insulto.

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