Dedico questo blog a mia madre, meravigliosa farfalla dalle ali scure e dal cuore buio, totalmente priva del senso del volo e dell'orientamento e, per questo, paurosa del cielo aperto. Nevrotica. Elusiva. Inafferrabile.

sabato 27 giugno 2009

Autismo compensativo

Ho vissuto gran parte della mia vita con tutti i limiti di una persona estremamente timida.
E mi accingo a vivere gli anni futuri con la consapevolezza di non poterli cancellare del tutto.
La mia odierna disinvoltura è frutto di un lavoro affatto facile, che ho iniziato ad intraprendere in età già adulta. In maniera autodidattica. Discontinua. Ma tenace.
Imbrigliando la mia sensibilità ossessiva.
E le intemperanze del mio umore.
E le fragilità del mio sistema nervoso.
Quel disagio esasperato di bambina solitaria.
Timidezza che è poi diventata interiorità.
Limite.

Timida. Insicura. Dipendente.
Non mi piacevo. Non mi accettavo.
Senza lo sguardo di qualcuno, che ogni tanto rilevava anche la mia presenza, io non esistevo.
Una vita per gli altri.
E' così che ho vissuto.
Annullamento mortale e cosciente.
Esaltavo le doti altrui. Abbellivo.
Tolleravo anche ciò che tollerabile non era.
Vivevo di luce riflessa.
Perchè in me non vedevo davvero niente di bello o d' interessante.

Eppoi, ecco ci sono tutte quelle parole non dette. E quelle ingoiate.
Per timore di un balbettamento intellettuale.
O linguistico.
Dire si quando dovrebbe essere no.
Rendersi invisibili per non essere coinvolti.
Rifiutare un caffè quando pure se ne ha voglia, perchè l'accettazione implica una serie di gesti che la timidezza potrebbe rovinosamente trasformare in goffaggine.
E quindi si preferisce rimanere con la voglia di caffè piuttosto che mostrarsi maldestri.
E così quello che al mondo appare è un carattere rigoroso.
Altero. Inaccessibile.
Oppure, di contro, una personalità ripiegata su se stessa.
Lenta. Ritardata.
Comunque lontana.
Perchè questa è la timidezza.
E perchè il giudizio del mondo è avventato.
E frettoloso.
Basato sulle statistiche dei comportamenti generici.
E crea barriere.
I parametri del giudizio di chi valuta sulla base delle percentuali sono mura invalicabili.

Eppoi c'erano tutte quelle parole non dette.
Ed ingoiate.
Urgevano per uscire fuori.
A volte quasi mi soffocavano.
Quei caffè mai bevuti.
Quegli inviti mai accettati.
Quel riflettere su come sarebbe stato se solo avessi trovato il coraggio di essere davvero io.
Di mostrarmi nella mia interezza.
Così come interiormente mi prospettavo.

Ho iniziato quindi a lavorare su me stessa, e da sola. In età adulta.
Modesti risultati che però mi hanno permesso aperture più ampie verso l'esterno.
Poi è subentrata la psicoanalisi.
Quando la depressione è comparsa nella mia vita.
Azzerando di nuovo tutto.
Quando prepotentemente, e con cattiveria, mi sono sentita respinta dal mondo.
L'accentuarsi di una solitudine che non è più solo interiore. Ma fisica.
Che trova pericolosa conferma nella negazione di una solidarietà vera.
Di stima. Se non di affetto.

E' l'analisi che mi ha validamente aiutato.
Facendo emergere la mia rabbia consapevole per quei periodi di volontario annullamento.
Senza indurmi all'abbattimento.
O al rimpianto.
Mi ha ridato una dimensione nuova.
Mi ha ragionevolmente ricondotto verso me stessa.
Esaltando il mio io positivo.
Le mie capacità latenti e poco sfruttate.
Facendole risaltare. Vigorose. Passionali. Personalissime.
Ho acquisito una sfrontatezza visibile a tutti.
Talvolta ostentata. Con ironica impudenza.
Volutamente provocatoria.
Irridente. Godibilissima.
Non una rivincita.
Ma un'affermazione.
Palesata sulle pagine di questo blog.
Dove trovano spazio tutte le parole non dette. E quelle ingoiate.
E quelle ancora inedite.
Ma la timidezza rimane.
La sua caratterizzazione.Ora rielaborata.
Di cui assolutamente non voglio disfarmi.
Un autismo compensativo. Interiore.
Non più limite. Ma scelta.
Un angolo remoto. Inaccesibile.
Dove posso liberamente ancora espletare le innocue stereotipie del mio essere.
Quando il mondo delle statische dei comportamenti generici diventa troppo molesto.
Marilena

venerdì 19 giugno 2009

La leggenda dell'Acherontia Atropos


Fu quella l'unica volta che La Morte esiliò dal suo antro sotterraneo per emergere, nella sua spaventevole bellezza, al mondo a quell'ora addormentato.
Dirompente dagli abissi insondabili dell'epicentro terrestre.
Coperta solo di brina notturna.
E dal manto corvino dei suoi capelli.
Creatura magnifica, La Morte.
Enigmatica. E schiva.
Condannata alla solitudine.
Da un destino desolante ed irreversibile.
Creatura amara. Costretta a celarsi nell'inganno di una tonaca monacale.
Per non suscitare nel fragile animo degli uomini il desiderio di una passione impossibile.
E mortale.
Che già molti del suo profumo si sono invaghiti.
E decisi a seguirne la seducente scia fin dentro le oscurità remote dei suoi domini.
Anticipando l'ineluttabilità del destino.

Fu quella l'unica volta che La Morte esiliò dal suo antro sotterraneo per emergere, nella sua spaventole bellezza, al mondo a quell'ora addormentato.
Giacchè pareva che gli alberi dormissero.
Con i rami chiusi ad ombrello.
E con gli uccelli acquietati dai voli diurni, in riposo tra le foglie e le gemme.
E i funghi, assopiti, sul morbido dei licheni.
E le lumache, assonnate, sotto i tetti di foglie.
Tutta la fauna elementare.
E quella strutturata.
E la razza umana.
Quella degli artisti. Dei drogati. E dei disperati
Quella più sensibile alla seduzione del suo profumo.
Immersa nel sonno.
Quello pesante delle montagne.
Quello disturbato dei vulcani.
Quello fluido delle sorgenti.
Quello tranquillo dei fili d'erba.
Solo il cielo non dormiva.
Perchè il cielo è insonne per natura.
Fasi meteorologiche da elaborare.
Pianeti ed astri da coordinare.
Eclissi e fenomeni paralleli da congegnare.
Un sistema indefessamente operativo.
Obbligato alla veglia.
E, in quell'ora notturna, preposta alla sorveglianza, c'era La Luna.
E La Luna, che è androgina, quando vide La Morte perdutamente se ne innamorò.

Fu quella l'unica volta che La Morte esiliò dal suo antro sotterraneo per emergere, nella sua spaventevole bellezza, al mondo a quell'ora addormentato.
E non era quindi del tutto deserto il mondo.
Nè del tutto addormentato.
Perchè c'era La Luna a sorvegliarlo.
Ad illuminarlo.
Una Luna androgina.
Ammaliata dall'incanto di quella creatura magnifica, che è La Morte.
Dirompente dagli abissi insondabili dell'epicentro terrestre.
Coperta solo di brina notturna.
E dal manto corvino dei suoi capelli.
E La Luna, nel delirio della passione, avvolse La Morte in un abbraccio convulso di luce.
Frammentando i suoi raggi in miriadi di stelle cadenti.
Una pioggia di vetro.
Che rischiarò la notte in un'alba prematura.
E La Morte, abbagliata da quell'ardente inaspettato fulgore, alzò gli occhi e vide La Luna.
E ne rimase incantata.
Impudica, e senza riserve, dischiuse il suo corpo di vergine alle necessità ineluttabili di quell'amore androgino.
Maledetto, come peccato, dal borioso Dio degli Angeli.
Perchè La Luna e La Morte avevano trasgredito ai destini per loro decisi nel progetto del mondo.
Infuriato, nella violenza dell'ira più travolgente, il borioso Dio degli Angeli accecò La Luna. Condannandola tra le nebbie nere di una eclissi secolare.
E deturpò La Morte. Privandola della sua pelle di brina e del manto corvino dei suoi capelli.
Il borioso Dio degli Angeli aveva così ristabilito la sua supremazia.
Ma non si avvide, nella sua furia cieca, del grumo scuro e palpitante che stava germogliando dal ventre, ora scheletrico, della Morte.
Una farfalla notturna. Enigmatica.
Dalle ali brunite.
E con l'effige del teschio impressa sul torace.
Concepita dalla Luna e partorita dalla Morte.
Nel trauma dell'eclissi.
E nel supplizio dello scuoiamento.
Contravvenendo alle leggi del borioso Dio degli Angeli.
Era nata l'Acherontia Atropos.
La Figlia della Luna e della Morte.

sabato 13 giugno 2009

Un dolore da uomo

Era un dolore da uomo. Quel grumo convulso. Nello stomaco.
E lui era poco più di un bambino. E senza nessuna esperienza di dolori passati. E in difficoltà a decifrare quelli del presente.
 L'assenza di paragoni, quindi, gli confondeva la mente e deviava le sensazioni.
Lo stomaco.
Non era quello il luogo del dolore.
A far così male era il cuore.
Realtà che lui, virilmente, rifiutava. Respingendo le lacrime.I singhiozzi. E l'oppressione del respiro.
Impedendosi le parole. Nel timore che la voce irrompesse in pianto.
Così aveva strappato dal petto quella sofferenza inopportuna di bambino.E tramutata in uno spasmo di carne.
Un dolore da uomo.

martedì 9 giugno 2009

La donna dell'attico

In un attico periferico, nell'incantevole città di Roma, abita una donna né bella, né brutta.
Né giovane, né vecchia.
Evanescente.
Perché così si vede negli specchi fumè appesi alle pareti.
Specchi che nelle giornate d'estate copre con pesanti drappi di broccato.
La donna dell'attico odia la luce.
Quella del sole.
La luce squilibrata.
La luce che la squilibra.
Le punte ardenti del sole si smorzano sulle superfici brunite di quei vetri con bagliori sulfurei.
Raggi lavici. Espansi dal cratere di un vulcano. Mistificatori.
La donna dell'attico si smarrisce nell'interno degli specchi.
Perché ogni specchio, nelle sue profondità, contiene labirinti di altri specchi.
Moltiplicandola così in una infinità di donne né belle, né brutte.
Né giovani, né vecchie.
Una moltitudine di vestali drappeggiate in coperte di broccato che trovano, all'interno dei vetri offuscati, il buio necessario al loro equilibrio.
Un riparo dalla luce.
Fino a che sarà di nuovo crepuscolo.
Solo allora la donna dell'attico uscirà dallo specchio.
Nuda.
Fluorescente.
Nel pallore della sua pelle.
Spalancherà tutte le finestre affinché la luna inondi, con il suo chiarore di nebbia, le stanze buie.
La donna dell'attico così potrà rimirarsi negli specchi notturni.
Sorridendo. Con gengive di ghepardo.
Finalmente equilibrata.

mercoledì 3 giugno 2009

Licantropia

Il mio umore durante la giornata di ieri è stato davvero mutevole. A fatica l'ho controllato.
Attimi improvvisi di euforia. Generata da inezie transitorie. E fuggevoli.
E, di getto, tramutate in ostilità.
Mi sono truccata con una luce scura. Non avevo voglia di ritrovarmi nello specchio.
Mi sono sforzata di essere quella di sempre.
La mia collaudata immagine di superficie funziona sempre abbastanza bene.
L'ho lasciata fisicamente agire per potermi ritrovare in un tempo analogico più consono alla mia estraneità cognitiva.
La necessità di un rifugio solitario.
Buio. Irraggiungibile.
Un utero ipogeo.
Fecondato dalle mie ossessioni.
E dalla nostalgia di uno stato remoto di alterazione febbrile.
Di quel sentirmi davvero viva nelle crisi più violente della malattia.
E delle percezioni acutissime a livello epidermico che più rabbiosamente eccitavano la mia sensibilità animalesca.
Un licantropo che ulula da qualche parte, dentro di me.
L'esigenza primordiale di un cielo notturno.
E di una luna tonda.
Marilena