Dedico questo blog a mia madre, meravigliosa farfalla dalle ali scure e dal cuore buio, totalmente priva del senso del volo e dell'orientamento e, per questo, paurosa del cielo aperto. Nevrotica. Elusiva. Inafferrabile.

domenica 30 novembre 2008

Arcobaleni

Nera notte di nubi squarciate e di acqua e di grandine e poi...la meraviglia del risveglio nel cuore vivo di un arcobaleno.
Ho aperto gli occhi e la tag di KILROY campeggiava in vivide lettere sull'arcata della mia stanza: un piccolo capolavoro. E, all'interno di questo iridescente arcobaleno c'era scritto, col rosso più intenso che io abbia mai visto, WITCH, racchiuso nel contorno di un cuore.
E il flash fuggente del largo sorriso del piccolo Freak che spariva inghiottito dal giorno.

E un nuovo inaspettato arcobaleno di petali di fiori nel ricordo di una foto sul suo blog.
Fiori che sbocciano prematuri dalle zolle di neve di un autunno piemontese.
Petali, come dita gelate che cercano il calore sulle mie labbra e tra i miei seni.
Petali come arcobaleni tempestosi, trasportati dal vento e dalle farfalle, affinché il cuore sempre ricordi nelle notti più nere, la promessa, mai mancata, dell'aurora.

venerdì 28 novembre 2008

Lo specchio di Alice e l'antro della strega

Sono guarita, non c'è più la depressione.
Sono guarita ma ho dentro un vuoto sconosciuto, diverso da quello noto del mio malessere.
E' un vuoto assolutamente vuoto.
E un'angoscia diversa, tranquilla, quasi serena.
La depressione mi teneva in bilico sulla linea incerta di due confini, non dormivo la notte, ululavo nel buio ai fantasmi, cercavo di sopravvivere agli incubi, covavo pensieri di morte, e urlavo.
L'urlo mi affermava, rendendomi visibile.
E, in tutto questo caos, ho imparato a "sentirmi", sviluppando una sorta di sesto senso mediante il quale riusivo a percepire l'intera struttura ossea e muscolare e linfatica del mio corpo. La sentivo con i sensi tesi di un'animale che lotta per far fronte alle proprie esigenze, e continuamente all'erta per sfuggire agli agguati. Mai, come in quel periodo, ho avvertito la necessità animalesa della tana, un luogo dove trovar rifugio per riposarmi, per prendere fiato, per pensare un attimo solo a me stessa. C'era sempre qualcuno a stanarmi, a ricordarmi che avevo altro a cui pensare, doveri più urgenti a cui far fronte. Ed infine anche la devastazione dei sensi di colpa per quel tempo introspettivo e tolto alle esigenze del mondo. Anche se a quelle esigenze io ho continuato a provvedere, sia pure in stato catatonico e sotto farmaci, e con nelle orecchie il ronzio molesto di quelle voci che volevano essere d'incoraggiamento ma che mi trascinavano sempre di più dentro l'abisso, incattivendomi.
Nessuno, nemmeno per un momento ha pensato di alleggerirmi, almeno per il tempo necessario di una mia qualsiasi ripresa, del peso tremendo di quella croce che ancora oggi mi porto da sola sulle spalle.
E in solitudine ho vissuto la mia depressione.
Quando è iniziata la mia convalescenza?
E questo vuoto assolutamente vuoto che mi si allarga dentro, laddove prima s'annidava quello della malattia, cosa sta a significare?
E il mondo magico dell'antro?
Ha più senso che io vi rimanga?

Alice ha 52 anni e continua a rifiutare la verità dello specchio. Non vuol rischiare di perdere quei sogni che da bambina l'hanno salvata dalla paura e dalla solitudine. Senza quei sogni Alice non avrebbe più identità, nè spessore: non sarebbe più lei. Per questo quando dice di voler uscire dallo specchio in realtà non lo vuole davvero.
Lo specchio è "il mondo umano" di Alice così come l'antro è il mio.
Fuori dal mio antro c'è la stessa realtà di sempre (quella che mi ha condotta alla depressione), immutata, di cui io sono lucidamente cosciente e dalla quale so di non poter sfuggire. Ne sono consapevole e non la rifiuto in cambio di un'altra più congeniale alle mie esigenze, ma nell'antro c'è il buio e la musica, ci sono Amaranta e IggyBlOG e Kilroy, i Freaks e i Fantasmi Muti e l'esaltante follia della strega.
Nell'antro ci sono io.
Nessuna delle due realtà, quella dell'antro e quella della superficie, esclude in definitiva l'altra.
Marilena

lunedì 24 novembre 2008

Freaks

Freaks, i miei piccoli mostriciattoli mutanti, hanno dismesso la maschera tribale della morte e del sangue, ed ora si propongono, ghignanti e scherzosi, in caroselli dell'assurdo.
Attori di talento, travestono i miei morti da vivi con impressionante realismo imitativo, cosicchè io sempre cado nel loro tranello. Le battaglie notturne sono meno cruente di quando ho iniziato a scrivere questo blog, molto più tattiche ora, pericolosamente giocate nel campo dell'astuzia psicologica. E' una fredda guerra di nervi quella che si consuma nel buio dei miei sogni. Ed eccoli i miei morti, assieme ai vivi che stanno morendo e a quelli che non hanno mai vissuto, allineati su un palcoscenico che si tengono per mano, profondendosi in sussiegosi inchini verso un pubblico di ombre. Recitazione di alta scuola per cui rimango intrappolata nella loro messa in scena, diventandone addirittura parte fondamentale: sono io la disperazione, l'angoscia, il grido, lo stupore, la rabbia. I Freaks sono magnifici imitatori di corpi ma sono assolutamente alieni agli umani stati d'animo, per questo hanno bisogno di me, affinchè io possa dotare di pathos le loro macabre finzioni.

domenica 23 novembre 2008

Tenerezza

Le guance opulente di BLOG s'insinuano nel mio campo visivo, meravigliosamente tonde come le sue piccole mani grassocce che si aprono, e si chiudono, nel gesto di fare ciao per attirare la mia attenzione. Non parla BLOG, ma si fa capire. Vuole uscire fuori all'aperto, non sopporta troppo la quotidianità dell'antro, i rumori e i movimenti dei suoi abitanti. Gli occhialoni scuri, in precario equilibrio sul naso minuto, gli coprono buona parte del volto. E la bocca imbronciata è molto più espressiva di ogni parola. Poi accenna un sorriso, timido e molto pudico, ammaliatore. Raramente BLOG sorride, e questo mi intenerisce. Fuori fa freddo, ed io sono come una lucertola che ha sempre bisogno del sole per destare il sangue e rinvigorire le ossa. Non lo sopporto proprio il freddo. Invidio Iggy e la sua capacità di cadere in letargo. Ecco, è proprio un letargo quello a cui agogno in questo periodo d'inizio freddo, e nell'imminenza della paranoia delle feste natalizie.
BLOG ora mi tende le braccia, vuole che lo coccoli un pò. Il mio istinto materno......come faccio a resistergli? So perfettamente che questo è un gesto preordinato, il mio figlio filosofo, obeso e nichilista, è anche un intelligente opportunista che sa dove poter far leva per ottenere ciò che vuole.
Ha intuito il mio disperato bisogno di tenerezza (darla o riceverla, non è questo che conta).
Contro ogni apparenza non é BLOG ad avere davvero una illimitata necessità di me (presto o tardi inizierà a gattonare, ad essere indipendente, ad imboccare la porta senza aver bisogno dell'ausilio delle mie braccia), ma sono io, consapevolmente, ad aver bisogno di lui, del suo sghembo sorriso cinico, dei suoi pugni serrati e dell'ostinazione della sua bocca muta. E, sopra ogni cosa, del suo sguardo che pazientemente filtra il mondo attraverso quei suoi occhialoni neri.

venerdì 21 novembre 2008

Deja vu

Non sei malata Mari, te lo ha detto anche lo psicologo e tu stessa ne sei consapevole. Non sei malata ma hai un problema ed i problemi, come ben sai, non si risolvono con le medicine. Ricaccia in gola l'urlo della strega e trova la calma necessaria alla riflessione. Abbi, alla fine, il coraggio e la coerenza di una decisione definitiva. Non sei più una ragazzina e......ok, non ne parliamo, so che detesti la retorica del discorso sul tempo che passa e paragrafi affini. Lo detesti, ma ne sei consapevole, e questo è ciò che conta.
Cosa vuoi davvero Mari?
Cosa vedi nel tuo domani?
Soprattutto come ti vedi in quel domani?
Non è un'analisi facile questa, me ne rendo conto, vista la grande stanchezza di quest'ultimo periodo per il ricorso continuo all'autocontrollo, ma devi comunque arrivare ad una conclusione o trascorrerai gli ultimi anni attivi della tua vita nella paranoia di un deja vu.
Dover fronteggiare i propri sbandamenti umorali è già un impresa ardua, ed in questo, te ne dò atto, sei stata brava, perchè anche se non li hai completamente azzerati li hai comunque di molto limitati ma, a lungo andare, questo continuo stato di tensione a cui ti sottoponi farà di nuovo saltare quel tuo, pur sempre troppo fragile, sistema nervoso.
E' solo questione di tempo.
E tu lo sai.
Come sai che non puoi prevenire, o addirittura impedire, i suoi sbandamenti umorali.
Ci hai provato, ma il prezzo è sempre troppo alto: dar via, ogni volta, un pezzettino di te stessa e, alla fine, renderti conto che, comunque, questa mutilazione non è servita a sciogliere i dubbi o le ossessioni di chi non riesce a crederti.
E la fiducia è la base primaria di ogni rapporto importante.
Autocensurarti, rinunciare all'esternazione dei tuoi veri pensieri e dei tuoi vivi stati d'animo, solo per limitare le sue paure e le sue ansie, non servirà che a renderti ogni giorno sempre un pò più instabile e, di sicuro, non risolverà il grosso problema che sta alla radice di tutto: la sua mancanza di fiducia nei tuoi riguardi.
Sacrificio inutile il tuo, percepito attraverso sensi di colpa dilanianti, questa volta, nei tuoi stessi confronti perchè scaturiti dalla consapevolezza dell'ingiustizia che ti stai infliggendo.
Mari, non possono essere queste le fondamenta su cui tu vuoi basare il tuo futuro, perchè sono terribilmente simili a quelle del tuo passato.
Amaranta

venerdì 14 novembre 2008

Paranoid Schizoid Woman

  
Io implodo, crollo dentro l'abisso di me stesso, verso il mio centro sepolto, infinitamente.
(da Cosmicomiche: L'implosione - Italo Calvino)

LA STORIA DI SILVIA
ALI
Le ali, quando spuntano, fanno davvero male.
Due piccole ferite nette dietro le spalle, i solchi in cui s'inseriranno, fra le scapole, i ventagli alari.
All'inizio ti sembrerà di portare un peso enorme sulle spalle.
Un fardello che ti piega la schiena.
La leggerezza non sempre è come te la immagini.
Ti daranno perfino impaccio muovendosi, talvolta, al ritmo delle tue braccia.
Non sono ali per il volo, ma per l'equilibrio.
E' questa la cosa fondamentale.
Sono ali per aiutarti a non cadere.
A rimanere stabile sulla superficie.

Sentivo sotto i vestiti il solletico delle piume sulla mia pelle.
Una sensazione che mi faceva star bene.
Sorridevo.
E la gente mi guardava con simpatia.
Sorridevo.
E mi trovavano carina.
Accettavo la luce e il buio con naturalezza, senza pormi problemi, perché le mie ali mi davano il giusto equilibrio.
Fino a quando...

Non mostrare mai le tue ali a nessuno, per gli altri sono solo estensioni, immaginarie ed irrazionali, sintomo evidente della tua conclamata farneticazione.
Allora sbarreranno tutte le finestre per paura che tu possa spiccare quel tuo volo, illusorio e mortale.
Così, per preservarti, ti toglieranno il cielo.
E tornerai di nuovo a fissare un muro.

LA STORIA DI AMY
LA SINDROME DI MUNCHAUSEN
Continuava a nutrirlo col suo latte avvelenato, cantandogli dolcissime filastrocche, carezzandogli con dita leggere i capelli.
Gli raccontava del suo amore infinito e, appena la piccola bocca s'adombrava di viola, correva a prodigarsi in attentissime cure a salvargli la vita.
Per poi riattaccarselo al seno e somministrargli, ancora e ancora, quello che pur sapeva essere veleno.
E' la storia di un amore delirante.

Sapevo che lui mi stava avvelenando ma, nonostante tutto, mi ostinavo a credere che il suo fosse amore.
La paura dell'abbandono mi ha reso colpevole di collusione.
Così ho continuato a bere quel veleno per timore di essere rifiutata, perché la mia presa di coscienza dichiarata mi avrebbe resa non più idonea a quella forzatura patologica.
Stavo male, certo, ma sempre c'era la sua parola buona e la sua carezza sui capelli.
Amorevoli cure ci sarebbero state sempre, a patto che io non guarissi.
Ho accettato le carezze ed il veleno.
Ho creduto veramente di essere malata.
Alla fine non sapevo più distinguere.

LA STORIA DI NADIA
PULSIONI SUICIDE
Mia madre parlava spesso di morte e, a modo suo, l'interpretava pure.
Io ne ero al contempo impaurita ed affascinata, fino a svilupparne una vera ossessione.
Ho vissuto, da piccolina, nel terrore che lei potesse d'improvviso morire (in realtà era sanissima, ma depressa) giurando a me stessa che se ciò fosse accaduto sarei morta con lei.
Così, da sempre, il suicidio è stato il feto che mi sono portata in grembo in una lunghissima gestazione.
Percepivo i battiti del suo piccolo cuore duro.
Il loro propagarsi, dal grembo al cervello.
Avrei dovuto trovare, prima o poi, il coraggio di partorirlo o si sarebbe incancrenito nel mio utero, tramutandosi in un devastante tumore maligno.
Dovevo estirpare, con le mie stesse mani, l'alieno tenacemente attaccato alla mia placenta.
Era parte di me e non corpo estraneo e, sicuramente, nell'abortirlo sarei morta io stessa.
Una prova tardiva di coraggio, un atto reale dal quale sarebbe sgorgato sangue.
Il sangue fa parte del ciclo vitale delle donne: quello del mestruo, quello del parto.
Forse per questo che ne ho orrore solo se fuoriesce da una ferita o se è sintomo di una malattia, ma non se scaturisce per un fattore naturale. O da una determinazione meditata.
E il suicidio è un atto meditato.

Il mio urlo silenzioso e la  mia mano che trova sicurezza nella decisione del taglio (rasoiarsi non fa poi così male se lo fai con fermezza e se ti affidi al tepore dell'acqua).
Quattro segni netti (io che non riesco a tracciare una riga diritta neanche con un righello) e la mia mano era ben ferma, solo il cuore batteva accelerato, ma forse non era il mio, era quello del mio oscuro figlio che, dalla profondità buia del mio utero, presagiva l'imminenza di quel parto troppo a lungo posticipato, e che ora lo avrebbe violentemente scaraventato nella luce, decretando così, nell'evento della sua nascita, la mia morte.

Il suicidio non è un atto estremo di vigliaccheria.
Richiede un coraggio immenso ed una determinazione altrettanto netta.
Sconfiggere la paura atavica del buio.
E del sangue.

La mia mano non ha tremato e, soprattutto, non ho avuto paura.
Quella di non incidere più a fondo è stata, alla fine una mia scelta.
Il coraggio della morte mi ha rivalutata.

LA STORIA DI ALDA
TENTATIVI D'IMPLOSIONE
...eppoi da una distanza siderale è arrivata LA VOCE.
Beffarda e irridente.
Cattiva.
La sentivo davvero.
A volte ero certa che fosse solo nella mia testa, ma mi è capitato spesso di udirla proprio da fuori.
Mi voltavo per individuarne la provenienza, ma non c'era mai nessuno.
Ferocemente sarcastica, mi appellava con nomi indicibili, irrideva la mia goffaggine.
Beffeggiava il mio modo di essere.
Era soprattutto di giorno che la sentivo, più raramente di notte.
Non colloquiava con me, ma mi giudicava con il distacco crudele di un occhio esterno.
Nulla le sfuggiva.
Con lei ero totalmente allo scoperto.
All'inizio avevo paura d'impazzire poi, invece, la possibilità della follia era diventata una specie di sollievo.
La follia ed il sonno, erano le sole due cose a cui aspirassi.
Dormivo molto poco, con inevitabile perdita della concentrazione e della prontezza dei riflessi.
Per un periodo lunghissimo non sono stata in grado di leggere, né di ascoltare musica, né seguire la tv (ma quella non la guardo neppure ora).
I miei passatempi preferiti erano la conta dei miei passi nel corridoio di casa e il controllo delle lancette, eternamente ferme, dell'orologio.
Quando era stanca di questo mi sedevo e fissavo il bianco delle pareti (poi sono arrivati fantasmi muti ad animarle).
Quando invece mi sentivo più reattiva ero in grado di spostare lo sguardo sui rami del grosso albero piantato in strada, sovrastanti la balaustra del mio balcone.
Quanto ho desiderato l'implosione della follia!
Per sfuggire da me stessa e per essere quello che davvero avrei desiderato essere e che non è stato possibile fossi: una schizzata, l'esatto opposto della mia fin troppo razionale Identità Predefinita.

LA STORIA DI NICOLE
LA SINDROME DI STOCCOLMA
Mi rendo conto di avere una struttura di nervi molto fragile, e che il grande dispiego d'energie usato per l'autocontrollo l'indebolisce ulteriormente.
Prima, per me, l'autocontrollo era normalità.
Autocontrollata, era quello il mio modo d'essere: non dire, non fare, non pensare, tutto ciò che avrebbero potuto mettere in discussione la mia immagine di superficie.
Questo equivale a vivere in una prigione dalla quale, però, sei apparentemente libera di uscire, perché tanto i tuoi guardiani sanno che volontariamente ci rientrerai, senza fare storie e senza creare problemi, perché fuori da quella cella non sapresti vivere. Non sapresti dove andare.
Ami perfino i tuoi secondini, acquisendo la convinzione che non vogliono farti del male, piuttosto sono lì a proteggerti non solo dai pericoli esterni ma soprattutto da te stessa.
Un regime carcerario all'apparenza all'avanguardia e molto soft, ma nella realtà assolutamente il più violento perché la fiducia delle guardie è accreditata dalla cancellazione della tua identità.
Entrare ed uscire dalla cella.
E quella pensi sia la libertà.
Ti senti privilegiata, guardi compassionevole chi in quella prigione, invece, non gode del tuo stesso diritto.

Poi un giorno, all'improvviso e senza nessuna causa apparente, una consapevolezza nuova s'insinua nei gangli del tuo cervello.
Ti risvegli dal tuo sonno comatoso e ti trovi proiettata in una realtà che non ti appartiene, perché in quel tempo non vissuto sei stata catapultata in un'altra a te estranea.
E vedi finalmente le sbarre.
E urli il tuo orrore.
E quella cella ora non si apre più.
Caduta la finzione di fiducia, si ristabiliscono i ruoli veri tra chi sorveglia e chi è in manette.
Guarita dalla emotività perversa della Sindrome di Stoccolma non ti rimane altro che lo sbigottimento per quello che è la realtà. E la rabbia per averla accettata.
Ti guardi allo specchio e sai di esserti persa.
E allora inizi a scavare, fino allo sfinimento, tra le macerie della tua identità.
Fatica inutile, perché le cause del terremoto sono tutte in superficie.
Facilissime da individuare.
Difficilissime d'accettare.

lunedì 10 novembre 2008

Sono io a dettare le regole del gioco

Adoro il sesso e lo so fare bene. Ho una fantasia fervidissima ma non improvviso mai, parto sempre e solo dalle mie necessità: sono io a dettare le regole del gioco, perchè quel gioco deve emozionare prima di tutto me stessa.


sabato 8 novembre 2008

Principessa splendente




"Principessa Splendente", è questo il significato di Marilena, il mio nome.
La "Principessa Splendente" appartiene invece alla working class, quella che ramazza i pavimenti e lucida le scrivanie, quindi qualcosa di vero nell'etimologia del mio nome c'è, anche se, alla fine, non sono io a splendere.
Ramazzo ed osservo. E scrivo. Scrivo nella mia testa, mentalmente prendo nota, sottolineo passaggi che ritengo importanti ripetendomeli come una filastrocca, per paura di dimenticarli perchè la mia memoria è diventata molto labile e spesso mi tradisce. Quando posso scarabocchio un appunto su un foglietto, salvo poi scordare il medesimo nella tasca della mia divisa da lavoro.
La fantasia è un'antidoto meraviglioso alla pesantezza e alla noia delle mie giornate.
Non amo il mio lavoro, ma non posso disconoscerlo come fattore fondamentale nella mia tardiva crescita, perché la "Principessa Splendente" è passata da una vita fatta di sicurezze solide ad una molto, ma molto più precaria, anche se, alla luce dei fatti, la strega dell'antro è molto più vera della signora incolore che abitava l'attico.
Ma, come dicevo, principessa non lo sono mai stata e, splendente, non mi ci sono mai vista, preferisco le streghe, più vere, più passionali, meno assoggettabili.
Infatti come una strega uso molto la scopa, che però è anche una bacchetta magica, (dove passo brilla sempre un puntino di luce) e, all'occorrenza, diventa anche una penna, (avete mai provato a scrivere nella polvere?). Io ci ho scritto paragrafi consolatori quando mi sembrava di non potercela fare, invettive contro una vita che mi pareva ingiusta, formule maledicenti e poesie d'amore, ma mai favole.
Quelle non me le sono mai raccontate.
Eppoi arriva sempre la fine della giornata, quando ripongo la scopa che, a quell'ora, ridiventa inconfutabilmente una normalissima scopa, mi netto dall'odore del sudiciume, sciolgo i capelli ed indosso di nuovo i miei abiti (fili di perle inclusi), e spero tanto di trovare un posto a sedere sul tram, perché molte volte la stanchezza è davvero grande, il tragitto lungo e monotono ma, soprattutto, posso così finalmente trascrivere sul quadernino degli appunti tutto quello che ho già scritto nella testa.
Marilena (Principessa Splendente)

"Principessa Splendente", è questo il significato di Marilena, il mio nome.
La "Principessa Splendente" appartiene invece alla working class, quella che ramazza i pavimenti e lucida le scrivanie, quindi qualcosa di vero nell'etimologia del mio nome c'è, anche se, alla fine, non sono io a splendere.
Ramazzo ed osservo. E scrivo. Scrivo nella mia testa, mentalmente prendo nota, sottolineo passaggi che ritengo importanti ripetendomeli come una filastrocca, per paura di dimenticarli perchè la mia memoria è diventata molto labile e spesso mi tradisce. Quando posso scarabocchio un appunto su un foglietto, salvo poi scordare il medesimo nella tasca della mia divisa da lavoro.
La fantasia è un'antidoto meraviglioso alla pesantezza e alla noia delle mie giornate.
Non amo il mio lavoro, ma non posso disconoscerlo come fattore fondamentale nella mia tardiva crescita, perché la "Principessa Splendente" è passata da una vita fatta di sicurezze solide ad una molto, ma molto più precaria, anche se, alla luce dei fatti, la strega dell'antro è molto più vera della signora incolore che abitava l'attico.
Ma, come dicevo, principessa non lo sono mai stata e, splendente, non mi ci sono mai vista, preferisco le streghe, più vere, più passionali, meno assoggettabili.
Infatti come una strega uso molto la scopa, che però è anche una bacchetta magica, (dove passo brilla sempre un puntino di luce) e, all'occorrenza, diventa anche una penna, (avete mai provato a scrivere nella polvere?). Io ci ho scritto paragrafi consolatori quando mi sembrava di non potercela fare, invettive contro una vita che mi pareva ingiusta, formule maledicenti e poesie d'amore, ma mai favole.
Quelle non me le sono mai raccontate.
Eppoi arriva sempre la fine della giornata, quando ripongo la scopa che, a quell'ora, ridiventa inconfutabilmente una normalissima scopa, mi netto dall'odore del sudiciume, sciolgo i capelli ed indosso di nuovo i miei abiti (fili di perle inclusi), e spero tanto di trovare un posto a sedere sul tram, perché molte volte la stanchezza è davvero grande, il tragitto lungo e monotono ma, soprattutto, posso così finalmente trascrivere sul quadernino degli appunti tutto quello che ho già scritto nella testa.

Marilena "principessa splendente"